2 Mag 2018

Mohamed Ba: “Il nostro nemico è la finanza, non i migranti”

Avere consapevolezza di chi si è e riportare al centro la cultura, che il potere finanziario ha relegato ai margini della società occidentale. Da qui bisognerebbe partire per accogliere le diversità e smettere di “guardare i migranti come i nemici da combattere per ritrovare la felicità”. Ecco la nostra intervista a Mohamed Ba.

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Perché rifiutiamo “il diverso”? Come mantenere le tradizioni e, al contempo, accogliere la diversità? Che ruolo ha la cultura in un processo di integrazione? Ne abbiamo parlato con Mohamed Ba, senegalese emigrato prima in Francia, poi in Italia, oggi attore, scrittore, musicista e mediatore culturale.

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Com’è stato passare dall’essere uno straniero, immigrato in Europa, invisibile, ai margini, al fare spettacoli teatrali, portando cultura sia agli adulti che ai figli di questo continente?

Una sfida. In una società ideale chiunque arriva dovrebbe trovare all’istante dove collocarsi. C’è un termine tanto vituperato: migranti, che secondo l’immaginario collettivo è una realtà a sé stante. Ma è il mondo quando parli di migranti. C’è di tutto e di più, ci sono delle persone che, in quanto tali, vanno giudicate per quanto ci rimandano dal confronto diretto con loro. Etichettarci con un numero diventa funzionale ad una visione etnocentrica che la società ha, e che la condanna ad essere esclusiva. Ed io non volevo arrendermi a quello. Ho pensato di non sprecare tempo con quel sistema marcio, malato, ma di proporre l’alternativa, mai contro ma pro; percorsi alternativi a quello che vuole l’immaginario collettivo.

 

Qual è quest’alternativa?
L’alternativa è uscire un po’ da sé per sentirsi stranieri, perché altrimenti non capirai mai chi è l’altro, accanto a te. Lo straniero, per essere tale, non deve aver necessariamente attraversato il deserto ed il mare. Lo straniero può essere tuo cugino, il vicino di casa, il salentino, il palermitano, il calabrese. Come diceva Edgar Morin “meglio una testa fatta bene che una testa piena”, perché la testa fatta bene ti consente di acquisire la capacità di stare accanto a chiunque, da ovunque egli venga.

 

Come hai imparato ad esprimerti così?
Non ho mai dimenticato chi sono. Essendo anche originario di una tradizione orale, vivere in un paese per me vuol dire anche saperlo raccontare, saperlo rappresentare, e se io devo sentirmi in grado di portare una responsabilità così grossa quale far sentire la voce italiana tramite la mia di voce, allora cerco di farlo al meglio. Le parole sono importanti.

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Come si può coniugare il bisogno di mantenere le tradizioni e restare allo stesso tempo aperti, accogliendo la diversità?

Bisogna partire dalla convinzione che solo colui che sente i suoi piedi sprofondare nella sua terra è libero di essere ospitale, perché non teme di essere sradicato, portato via.  Nell’era della globalizzazione ci siamo ritrovati intessuti da fili di mille colori, il che è bello, è un minestrone, ma ognuno di noi deve poter essere assaporato individualmente, altrimenti quel miscuglio uccide le differenze culturali. La nostra evoluzione non deve sacrificare sull’altare le nostre differenze culturali, anzi, maggiormente metteremo in luce le nostre differenze, più potremo unirci attorno alla nostra comune appartenenza all’umanità.

 

Perché noi, nati da madre comune, lasciammo le terre aride e divenimmo viandanti, e quindi la nostra nascita si declinò già nelle differenze. Noi, in Africa, sapevamo che il ceppo è uno solo, che il pallore degli uni ed il color bruno degli altri non avrebbe risparmiato a nessuno una sorte comune, e che la cantilena di un bambino, quando vede sua madre, il volto lacrimato, incapacitato di sfamarlo, echeggia nelle volte di pietra delle cattedrali dei musei degli altri. E nel nome di quella semente divina non posso considerare la diversità come un limite o come un difetto della natura. Non devi guardare l’albero dall’altezza e dire “quanto è forte”, perché la forza dell’albero è sotto terra. Noi siamo un po’ quell’albero, fortemente radicato nella terra, e pronti ad abbracciare il cielo.

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Rifiutiamo la diversità perché abbiamo perso le nostre radici?
L’uomo non ha radici, ha gambe. Quindi siamo fatti per camminare. Ci serve rispolverare la nostra storia. C’è un punto di partenza, che è il luogo che ti ha generato, le storie che il nonno ti raccontava, la ninna nanna della mamma, quel che sei abituato a mangiare e a leggere fin da bambino. Tutto ciò diventa la tua materia prima e non bisogna scordarlo mai. A quello aggiungi le esperienze condivise con contemporanei, da ovunque essi vengano, i viaggi fatti e tutto il resto.

 

Gli esseri umani non si integrano, interagiscono. Ma l’interazione necessita della consapevolezza di chi si è, da dove si viene. È inutile cantare “O mia bella Madonnina” se non mi sai raccontare la storia della città di Milano. È inutile parlare di difendere i nostri valori, la nostra cultura, se non mi sai raccontare la maledizione di Palazzo Marino. Il pozzo dei battuti dove sta? Cosa sono i doccioni? Queste cose sono fondamentali.

 

L’incontro avviene quando ci sono due o più elementi. Nel momento in cui io ho consapevolezza di chi sono, non temo l’incontro, mal che vada rimango me stesso, ma nel momento in cui io dubito dei valori fondanti del mio essere, allora cercherò di evitare l’incontro, per timore dell’imbarazzo del vuoto culturale. Nel momento in cui io vivo un asservimento ai poteri finanziari e niente di culturale, vedere esaltare le differenze culturali nell’altro mi precipita nell’abisso. E non lo voglio. Diventa quindi più funzionale creare un muro: non ti vedo, non mi vedi.

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Hai parlato di “asservimento ai poteri finanziari”. Cosa ci è successo?

I luoghi dove si respirava arte, cultura, oggi si trovano ai margini della società occidentale. Questo perché abbiamo accettato per tanto tempo di vivere l’illusione dello sviluppo. Incastrati all’interno di una bolla in cui a far fede non è più la nostra capacità individuale di interloquire, non sono più le nostre competenze, i nostri desideri, i nostri sogni, le nostre speranze. No. A far fede in quella bolla è il potere d’acquisto. Sei quanti soldi hai in tasca. Chi non ha non è, e non potrà mai pretendere di esistere. Ora, con la crisi la bolla è scoppiata, e ci siamo ritrovati nudi e crudi. All’improvviso con niente in mano, anche da un punto di vista culturale.

 

La reazione immediata è stata creare quella struttura, che diventa quasi un recinto, all’interno del quale abbiamo tutti lo stesso colore della pelle, preghiamo lo stesso Dio, mangiamo le stesse cose, allora facciamo coalizione per respingere gli altri. Perché c’è l’illusione ancora che facendo rete, forse riusciremo a difenderci dinanzi alle conseguenze della bolla che è scoppiata. Gli altri vale la pena respingerli. Ma è impossibile, non si possono respingere le persone.

 

Quando ognuno di noi è diviso in questo modo, con questa sperequazione, in cui in pochi hanno moltissimo e in molti hanno quasi niente, non puoi immaginare di costruire barriere che impediscano ai poveri di venire. Il conflitto non è tra i ricchi d’Europa ed i poveri dell’Africa, ma tra i poveri dell’Europa e i poveri dell’Africa. Diceva Thomas Sankara, le masse in Europa non devono prendersela con le masse in Africa, ma devono fare fronte comune. Devono rendersi conto che lo stesso meccanismo che ha ucciso l’Africa passando dalla Schiavitù alla Schiavitù degli aiuti, è lo stesso meccanismo che oggi sta uccidendo l’Europa.

 

Invece di sprecare tempo a guardare i migranti africani come i nemici da combattere per ritrovare la felicità, è la finanza che bisogna combattere, e tornare a rispolverare un valore assoluto degli esseri umani. Il dono, la gratuità, la gratitudine. Dobbiamo farlo diventare di nuovo normale.

 

 

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