2 Ott 2023

Il governo vuole privatizzare per 20 miliardi nei prossimi due anni – #802

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Da qualche giorno i giornali parlano della Nadef, collegando il discorso a privatizzazioni, debito, spread e tante altre cose. Ma che roba è? Parliamo anche delle elezioni in Slovacchia e dello Shutdown evitato negli Usa, e del perché entrambe queste notizie sono pessime per l’Ucraina, e infine del caos in Brasile legato al marco temporal, una legge che potrebbe limitare i diritti delle popolazioni indigene.

Avrete probabilmente sentito parlare in questi giorni della Nadef, un acronimo misterioso con cui è alle prese il governo. Che roba è? Cosa ha a che fare con crescita economica, privatizzazioni, ritorno dello spread? Cerchiamo di capirci qualcosa.

Stiamo parlando di finanza pubblica, ovvero di come lo stato decide di spendere i suoi soldi. Ci sono 3 tappe fondamentali legate alla finanza pubblica che ogni governo deve rispettare. La prima è il def, il documento di economia e finanza, che viene presentato ad aprile in parlamento, in cui il governo fa alcune stime e previsioni di come vorrebbe spendere i soldi l’anno/gli anni successivi. La seconda è appunto il nadef, che viene presentato a settembre, il cui acronimo sta per Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza e che riprende il def aggiornandolo con nuovi elementi e dati a disposizione, con proiezioni più sicure, ma anche con nuovi elementi politici, e infine arriva la legge di bilancio che deve essere approvata entro fine anno, sulla base di questi documenti precedentemente presentati. 

Anche se il nome potrebbe trarre in inganno, questi documenti economico-finanziari sono molto politici e sono fra le misure più importanti che i governi devono prendere e che ci danno il polso delle reali intenzioni di un governo. Perché è qui che si determina come si investono i soldi, dove si mettono, ma anche da cosa si tolgono. 

Insomma, questa Nadef è una cosa seria. Ma che cosa prevede e perché sta facendo discutere? 

Vi leggo come riassumono il succo di questo documento Andrea Greco e Filippo Santelli su Repubblica: “Una previsione di crescita assai ottimistica, superiore a quella di tutti gli analisti. Un’ambiziosissima campagna di dismissione di partecipazioni pubbliche (leggi privatizzazioni) da 20 miliardi. Progetti di spending review e di riduzione dell’evasione fiscale tutti da sostanziare. Sono tante e profonde le incognite sulla tenuta dei conti pubblici italiani nei prossimi anni, per come li dettaglia la Nadef appena approvata dal governo Meloni”.

Già da qui si capisce che ci sono diverse cose, diciamo, problematiche. Riassumendole, sono principalmente quattro: stime sulla crescita del pil considerate molto ottimistiche, taglio del debito pubblico quasi nullo, vaghezza sulle coperture e ondata di privatizzazioni.  Ogni giornale, poi, a seconda delle sue inclinazioni e linea editoriale si concentra su un aspetto oppure su un altro.

Domani, ad esempio, si concentra sul tema delle privatizzazioni, che anche a me sembra quello più interessante, in un articolo di Vittorio Malagutti che scrive, vi leggo un estratto:

“Per finanziare il taglio del debito si pensa a un programma di privatizzazioni che dovrebbe fruttare all’incirca “l’ 1 per cento del Pil nell’arco di tre anni, dal 2024 al 2026”, ha detto Giorgetti (ministro dell’economia e delle finanze).

Un annuncio sorprendente, non tanto per l’argomento trattato, perché il tema delle privatizzazioni è un fiume carsico che riemerge di tanto in tanto nel dibattito politico. La sorpresa deriva dall’entità della somma tirata in ballo da Giorgetti. L’1 per cento del Pil vale 19 miliardi. A tanto ammonta, quindi, l’incasso ipotizzato dal titolare del Mef da realizzare entro il 2026 grazie alla vendita di attività dello Stato.

Possibile? Davvero il governo è in grado di rilanciare un treno che è praticamente fermo dal lontano 2015? All’epoca il governo di Matteo Renzi quando lo Stato piazzò in Borsa una quota di minoranza delle Poste e poi un pacchetto azionario del 5,7 per cento dell’Enel, due maxi-collocamenti che fruttarono 5,6 miliardi. Poca cosa, se paragonate alle ambizioni di Giorgetti, che mira addirittura a moltiplicare per tre (quasi quattro) i proventi realizzati in quella lontana stagione politica.

Va ricordato che in tempi più recenti Roma si è mossa in direzione del tutto opposta, rilevando il controllo di Alitalia (ora in via di parziale cessione a Lufthansa), di Autostrade (statalizzata dopo la tragedia del Ponte Morandi) e Banca popolare di Bari (salvata dal dissesto con fondi pubblici). Neppure due mesi fa il governo ha poi annunciato di essere pronto a investire fino a 2,2 miliardi per comprare il 20 per cento della rete di Tim, una somma a cui vanno aggiunti centinaia di milioni destinati all’Ilva di Taranto ora controllata da Arcelor-Mittal.

Insomma, il governo annuncia a parole una politica, che poi viene smentita dai fatti. In queste ore sui mercati finanziari ci si interroga su quali potrebbero essere le società in rampa di lancio per la vendita, sempre ammesso (ma a questo proposito lo scetticismo è molto diffuso) che il ministero dell’Economia abbia già elaborato un piano preciso in proposito.

Finora tutte le attenzioni degli investitori, anche internazionali, si sono concentrate sul Monte dei Paschi, salvato anni fa dal dissesto grazie all’intervento del governo che ora tramite il Mef controlla la quota di maggioranza dell’istituto, il 64,2 per cento. Al momento sembra molto difficile trovare un acquirente per l’intera partecipazione dello stato.

Poi l’articolo passa in rassegna altre possibili società che potrebbero essere oggetto almeno di parziale vendita a privati, per poi passare ad altre ipotesi: “In una recente intervista il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha ipotizzato di privatizzare la gestione di alcuni grandi porti, ma è stato subito rimbrottato dal collega Matteo Salvini. In teoria potrebbe essere dismessa anche una parte dell’enorme patrimonio immobiliare pubblico. Negli anni scorsi sono stati annunciati diversi programmi di cessione dei palazzi di stato, programmi che però sono rimasti in gran parte sulla carta per mancanza di compratori”.

“Se queste sono le premesse, va da sé che anche l’annuncio dei Giorgetti rischia di fare da titolo a un libro dei sogni. Molto più concreta, invece, è la montagna del debito pubblico, che come conferma la Nadef appena approvata l’anno prossimo dovrebbe calare solo di un decimo di punto, al 140,1 per cento del Pil. Troppo poco per evitare che il rischio Italia prenda il volo sui mercati finanziari”. 

Mercati finanziari che in effetti hanno già iniziato a rispondere alla presentazione della Nadef, facendo schizzare in alto lo spread come non si vedeva da anni. Ricordate lo spread, il grande protagonsita della crisi economica post 2009? In pratica ogni stato paga degli interessi ai compratori sui propri titoli di stato. Più uno stato è considerato a rischio default, più questi interessi saranno alti, per ingolosire i compratori e far sì che si accollino il rischio dell’acquisto. Ecco, lo spread è la differenza fra gli interessi dei titoli di uno stato, in questo caso l’Italia, e quelli con l’interesse più basso, che quasi sempre sono i Bund tedeschi. E viene considerato un indicatore della solidità dell’economia.

Lo spread che sale può essere frutto di speculazione, oppure significa che i mercati non hanno fiducia nel futuro di un’economia, sulla base delle scelte presenti. Insomma, i mercati finanziari non sembrano credere nella possibilità che l’Italia riesca a privatizzare 20 miliardi di patrimonio pubblico. 

Ora, veniamo al commento. Il tema del debito pubblico è un tema che meriterebbe una trattazione a parte, perché di base non è un gioco a somma zero ed è un gioco in cui alla fine, complessivamente, gli stati perdono sempre e i mercati, insomma gli investitori privati, le banche, i fondi finanziari, ecc, vincono sempre, proprio per via degli interessi. Tant’è che il debito pubblico mondiale continua a crescere ininterrottamente, e prima o poi dovremo prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di una sorta di amnistia sul debito.

Al netto di ciò la Nadef è abbastanza inquietante perché ci dice che o abbiamo un governo di persone che fanno cose a caso senza avere la minima cognizione di quello che stanno facendo, e questa è la migliore delle ipotesi, oppure che davvero dobbiamo aspettarci una ondata di privatizzazioni stile primi anni Novanta, dopo l’accordo del Britannia.

Ci sono state le elezioni in Slovacchia e ha vinto un partito che diversi giornali definiscono populista e pro-Putin. Il partito si chiama Smer, è di ispirazione socialista ed è guidato da una vecchia conoscenza della politica, Robert Fico, che non è l’ex presidente della Camera sotto mentite spoglie ma l’ex primo ministro della Slovacchia tra il 2006 e il 2010 e tra il 2012 e il 2018.

Smer ha ottenuto il 23,4% dei voti seguito da Slovacchia Progressista, partito liberale e centrista che era dato come favorito dai sondaggi ma si è fermato al 17%. 

Comunque, leggo sul Post che dai tempi del suo premierato “Fico ha molto inasprito la sua retorica razzista e sessista e invece ha ammorbidito le sue posizioni sulla Russia, tanto che una sua nuova nomina a primo ministro viene vista con un certo timore dalle istituzioni dell’Unione Europea e dai paesi europei più impegnati a sostenere l’Ucraina.

Già nelle prossime ore inizieranno le trattative per la formazione del governo. Chi vince le elezioni in Slovacchia ha il diritto di provare formare un governo. In parlamento, composto da 150 seggi, Fico potrebbe ricevere il sostegno di HLAS, una specie di versione di Smer più moderata fondata dall’ex primo ministro Peter Pellegrini. HLAS è arrivato terzo con il 15% dei voti.

Un altro potenziale alleato per Fico potrebbe essere il Partito nazionale slovacco (SNS), che ha ottenuto il 5,7% di consensi. Sulla base dei risultati elettorali, i tre partiti controllerebbero 81 seggi nella legislatura, sufficienti per una maggioranza di sei seggi.

Durante la campagna elettorale Fico aveva promesso di smettere di inviare armi in Ucraina, di bloccare la potenziale adesione dell’Ucraina alla NATO e di opporsi alle sanzioni contro la Russia.Ha anche elogiato l’Unione Sovietica per aver liberato le terre ceche e slovacche dalla Germania nazista alla fine della Seconda guerra mondiale. «Ci hanno liberato, dovremmo mostrare un po’ di rispetto», ha detto. «Dobbiamo dire al mondo intero che la libertà viene dall’est, la guerra viene sempre dall’ovest». 

E le stesse posizioni le ha espresse a un giornalista di Repubblica il suo vice nel partito Lubos Blaha, subito dopo lo spoglio dei voti. Ha detto che il nuovo governo deciderà “la fine delle armi slovacche in Ucraina”. E quando gli viene obiettato che vorrebbe dire la fine dell’Ucraina, ha replicato che “significa solo non proseguire la guerra”. Quando gli viene chiesto se Bratislava impedirebbe l’ingresso di Kiev nella Nato, Blaha annuisce, “ma certo: scatenerebbe la Terza guerra mondiale”.

Sarebbe un cambio di rotta notevole sia in Europa che all’interno del Paese. Al momento l’unico paese dell’Unione Europea esplicitamente ostile a sostenere l’Ucraina con armi, sussidi e legittimazione politica è l’Ungheria, guidata dal primo ministro semi-autoritario Viktor Orbán. La vittoria di Fico ha quindi una conseguenza immediata, cioè la creazione di un blocco anti-ucraino nelle istituzioni europee, dove tutte le decisioni più importanti sulla politica estera fra cui l’approvazione di nuove sanzioni vengono prese all’unanimità dai paesi membri.

Anche per la Slovenia è un cambio notevole, perché fin dall’inizio della guerra il governo guidato dal populista di destra Eduard Heger aveva preso posizioni molto a favore dell’Ucraina. Nell’aprile del 2022 la Slovacchia era persino diventata il primo paese a donare sistemi di difesa aerea all’esercito ucraino. 

Altre notizie non buone per il governo ucraino arrivano dagli Usa e hanno a che fare con il possibile shut down evitato in extremis dall’amministrazione Biden. Ci arriviamo. restiamo sul Post dove un articolo ci spiega che proprio all’ultimo secondo “Il governo degli Stati Uniti è riuscito a evitare lo shutdown, cioè la parziale chiusura delle attività del governo federale statunitense. In uno sviluppo giudicato dai media americani sorprendente, il presidente Joe Biden ha firmato una legge provvisoria poco prima della mezzanotte, cioè la scadenza oltre la quale il governo sarebbe stato costretto a chiudere. 

Significa che lo shutdown sarà evitato fino a metà novembre, ma poi il problema potrebbe ripresentarsi. Quando è in vigore lo shutdown smettono di essere finanziate tutte le attività che la Casa Bianca ritiene non essenziali, e comunque chi svolge lavori ritenuti essenziali lo fa temporaneamente senza ricevere lo stipendio.

Il governo era arrivato vicinissimo a chiudere perché nei mesi scorsi il Congresso non era riuscito a trovare un accordo sulle 12 leggi con cui finanziare il successivo anno fiscale, dal 1° ottobre al 30 settembre 2024. Nell’ordinamento americano è il Congresso che approva le leggi per finanziare le attività del governo, ed è lo speaker della Camera – una specie di presidente, con un ruolo molto operativo e il più alto in grado al Congresso – che deve occuparsi di trovare un accordo.

L’attuale speaker, il Repubblicano Kevin McCarthy, aveva passato le scorse settimane a cercare un compromesso ed evitare la chiusura. Il piano concordato con il governo doveva essere approvato da una maggioranza formata da entrambi i partiti, ma la componente più conservatrice dei Repubblicani non era convinta e chiedeva più tagli alla spesa.

Alla fine la soluzione di McCarthy è stata di presentare alla Camera una continuing resolution, una sorta di legge tampone che finanzia il governo per i prossimi 45 giorni e che ha messo d’accordo i Democratici e una parte dei Repubblicani. Il compromesso trovato è stato non inserire – e qui veniamo alla premessa che ho fatto – gli aiuti all’Ucraina, che avrebbero voluto i Democratici. La legge è passata comunque sia alla Camera che al Senato, tra le proteste dell’ala più conservatrice dei Repubblicani.

I Repubblicani di destra infatti avevano minacciato McCarthy di rimuoverlo dal suo incarico se avesse presentato alla Camera una continuing resolution: sia per il principio, perché McCarthy aveva detto che avrebbe presentato tutte le 12 leggi in una volta sola, sia perché volevano più tagli alla spesa, mentre il provvedimento con cui è stato evitato lo shutdown mantiene i livelli di spesa simili a quando il Congresso era tutto sotto il controllo dei Democratici.

Quindi ecco, questa è la situazione. La mia sensazione è che la situazione in Ucraina non si stia mettendo bene, per gli ucraini. La controffensiva non è mai davvero decollata, e gli sforzi delle democrazie occidentali più che fiaccare l’esercito russo (sì un po’ l’hanno fatto, ma non così tanto) sembrano aver fiaccato le democrazie occidentali, il cui elettorato sembra essere stanco degli aiuti militari e pronto a votare chi promette di abbandonare il campo (vedi Slovacchia).

Il problema è che adesso non è sostenibile una sorta di ritirata alla chetichella. o perlomeno, è possibile, ma non è, direi, etico. L’errore probabilmente è promettere un impegno incondizionato all’Ucraina, perché è una promessa che non può essere fatta da una democrazia. Una democrazia può promettere un impegno a tempo, e il tempo è quello scandito dalle elezioni, o anche prima in caso di crisi di governo. Fatto sta che dopo aver convinto l’Ucraina a intraprendere un’impresa titanica, ovvero fermare l’avanzata russa e anche provare a rispondere, credo che i governi europei abbiano un obbligo morale non a continuare a sostenere una missione militare, ma a impegnarsi per trovare una soluzione. Impegnarsi realmente. per trovare una soluzione che sia reale, percorribile, e che non sia una totale sconfitta per l’ucraina. 

Spostiamoci in Brasile, paese da cui arrivano notizie contrastanti sul tema dei diritti delle popolazioni indigene. Come racconta Giuseppe Bizzarri sul Fatto Quotidiano, “Mercoledì 27 settembre è stata una giornata inquietante per gli indios, i difensori dell’ambiente e della democrazia brasiliana. Nonostante una settimana prima il Supremo tribunale federale avesse proclamato incostituzionale il cosiddetto “Marco Temporal”, il Senato brasiliano ha approvato con procedura d’urgenza la bozza del progetto di legge che limita le terre indigene, senza apportare modifiche al testo già passato al vaglio della Camera.

Il Marco Temporal, nato nel governo dell’ex presidente Jair Bolsonaro e sostenuto dalla potente lobby dell’agro-business, prima economia sudamericana, è il principio che limita la demarcazione delle terre indigene a quelle che erano già occupate dai popoli nativi prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1988, impedendo nei fatti alle popolazioni indigene, ma anche alle comunità formate dai discendenti degli schiavi fuggiaschi il diritto ad ottenere titoli di proprietà fondiaria. Quindi ecco, è una legge profondamente razzista.

E per questo era stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema, che l’aveva rimandata al Congresso, a maggioranza conservatrice, che l’ha riapprovata tale e quale. Che succede adesso? La legge ora passerà al vaglio del presidente Inácio Lula da Silva, che potrà porre il veto su alcuni estratti del testo o rigettarla totalmente. Il Congresso nazionale del Brasile avrebbe il potere di scavalcare i veti presidenziali e ripristinare la validità del progetto, ma deve tenere conto della sentenza di incostituzionalità della Corte suprema, che ha facoltà ultima di annullare nuovamente la legge. 

Per aggirare la Corte, la settimana scorsa i senatori dell’opposizione, conservatori e bolsonaristi, hanno presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec) nella quale vogliono includere la disposizione nella Costituzione stessa, in modo che non possa essere annullata dalla Corte Suprema. Ma sembra improbabile che ci riusciranno. 

Comunque andranno le cose, si prevede una lunga e dura lotta politica accompagnata da chiari interessi economici, in cui il presidente Lula e il Supremo tribunale federale avranno un ruolo determinante per impedire che il Marco Temporal diventi legge.

Se la legge sarà realmente ratificata, la popolazione indigena e i quilombola potrebbero vedere cancellate anche le riserve in loro possesso già demarcate negli anni passati. Ma questo non è l’unico punto inaccettabile per i popoli indigeni. Il Marco Temporal prevede anche la possibilità che l’Unione si riprenda le terre indigene in caso di cambiamento delle caratteristiche culturali delle comunità e le destini al Programma nazionale di riforma agraria con lotti preferibilmente destinati alle popolazioni indigene. Ma non solo. La legge apre anche alla possibilità di convalidare titoli di proprietà o possesso di individui in aree appartenenti a comunità indigene, vieta l’espansione delle terre indigene già delimitate, consente contratti di cooperazione con popolazioni non indigene per attività economiche anche nell’ambito di coltivazioni transgeniche e il contatto con i popoli isolati per mediare l’azione statale di pubblico beneficio.

Insomma, sarebbe una tragedia sociale e un enorme passo indietro per un Brasile, quello di Lula, che pur con qualche contraddizione vuole diventare un punto di riferimento sul tema dei diritti indigeni.

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