7 Apr 2016

Guarire dai padri

Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni riportano tre esempi rappresentativi di una radicatissima cultura, volta a celebrare i propri padri, fondata sulla granitica retorica del lavoro, del sacrificio personale e del benessere garantito alla propria famiglia, al proprio clan, alla propria terra, al proprio gruppo identitario.

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Anni fa un anarchico cadde dalla finestra della questura di Milano e morì. Colui che era a capo di quella questura qualche tempo dopo venne ucciso. Successivamente è stato beatificato dalla Chiesa e a breve diverrà santo. Uno di quelli sul calendario: uno che, sull’esempio di Gesù Cristo, animato dall’amore, vive e muore in grazia di Dio.

 

Il figlio del futuro santo è una persona famosa, direttore di un importante quotidiano e conduttore televisivo. Oggi è felice di tale santificazione, poiché in essa vede la totale e definitiva riabilitazione del padre da ogni residuo sospetto di colpa. Perché il padre era un’anima candida. Un uomo irreprensibile. La roccia solida e sicura su cui edificarsi.

Anche la figlia di un famigerato mafioso palermitano ha ripetutamente affermato che suo padre è stato un uomo esemplare, uno di quelli che tutti i figli vorrebbero avere: lei è stata cresciuta nei valori sani della migliore tradizione della propria terra e alla famiglia non è mai mancato nulla.

 

Un nostro conoscente venera il proprio padre morto qualche anno fa. La casa è piena di sue foto e ogni volta che gli capita lo ricorda come un grande imprenditore che ha costruito gran parte del paese dove abita, dando lavoro a tante persone, creando ricchezza, in modo tale che lui ora può a sua volta essere imprenditore e fare incursioni nel mondo della finanza e della politica.

 

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Questi tre esempi (avremmo potuto farne infiniti) sono rappresentativi di una radicatissima cultura, volta a celebrare i propri padri, fondata sulla granitica retorica del lavoro, del sacrificio personale e del benessere garantito alla propria famiglia, al proprio clan, alla propria terra, al proprio gruppo identitario.

 

Vorremmo quindi fare tre brevi riflessioni relative ai casi trattati.

 

Nel primo caso, pensiamo che avere il potere di perseguire chi forse ha sbagliato, reprimerne la libertà e giudicarne il comportamento sia affare delicatissimo. Tale potere viene sì gestito in base a norme, regole e consuetudini ma, nel fondo, trova una possibile legittimazione solo nella coscienza personale. Per colmo di ironia, quel questore viene santificato dopo essersi comportato contro ogni principio evangelico. Principio che l’anarchico caduto, nei limiti concessi all’umano, incarnava più di ogni altro. Gesù, con l’adultera e con tutti gli altri peccatori, salva senza giudicare, non imponendo nessuna legge che non sia quella dell’amore. Invece, il figlio del futuro santo, sfruttando come meglio non si potrebbe il sistema della vittima, assurge ai più alti gradi della società, sia economici che di potere. Con il beneficio ulteriore che, proprio essendo riuscito a dimostrarsi incontestabilmente vittima figlio di vittima, niente e nessuno potrà mai metterlo in discussione.

 

Anche nel secondo caso assistiamo a un comportamento che va in direzione esattamente contraria alla strada tracciata da Cristo. Per la giovane donna in questione, quel che conta è solo il benessere economico e la tranquillità psicologica personale e della propria famiglia. Non importa come le due cose vengano conseguite, non importa se taglieggiando e uccidendo altre persone, non importa se devastando l’ambiente, la città e il mondo, non importa se distruggendo ogni pensiero etico e pacifico. Invece per Gesù, addirittura, chi non odia la propria famiglia non può seguirlo. Per Gesù non esiste un popolo, esiste l’umanità. Lui non cura i suoi, cura il mondo intero. “Quel santo anarchico”, come lo definiva Nietzsche, metteva l’essere umano al centro e vedeva ogni recinzione, ogni patria, ogni clan, un ostacolo all’amore.

 

Il terzo caso è quello più comune: riguarda una persona che ha compiuto sacrifici e, partendo dalla condizione di umile lavoratore, ha fatto fortuna accumulando immobili e denari in quantità. Anche qui sottolineiamo la realtà affatto diversa da ciò che le parole vogliono affermare. Il sacrificio letteralmente è un fare sacro, cioè un fare che, ben lungi dagli affari e dai denari, è ineffabile e trova il suo punto di significanza all’infinito, cioè in quello spazio che possiamo intravedere solo con la luce della poesia, della preghiera e dell’utopia. Non c’è niente di sacro nel costruire palazzi, lucrando sulla pelle di chi lavora, inquinando il territorio, consumando risorse naturali, non pagando le tasse e facendo arricchire solo la propria famiglia. E poi c’è la fortuna accumulata.

 

La fortuna, originariamente, significava l’imprevedibile, l’imponderabile, la sorte, qualcosa di profondo nella vita degli esseri umani, con la quale fare i conti senza avere gli strumenti per governarla, in definitiva una condizione generatrice di tristezza o di gioia e perciò di domande a non finire. Nel nostro caso invece viene usata nell’accezione più volgare e meschina: quella della ricchezza privata. Ma, in vicende come questa, l’anarchico Gesù ancora una volta non ebbe mezzi termini: “non puoi seguire Dio e la proprietà”, o l’uno o l’altra, tertium non datur.

 

La retorica che noi veniamo dal bene, proprio perché i nostri padri sono stati in fondo in fondo buoni, fa sì che qualunque nefandezza noi possiamo compiere sarà un semplice accidente. Se veniamo dal bene, la nostra vita sarà indirizzata al bene e faremo il bene anche quando commetteremo un crimine. Pensiamo solo al luogo comune dei ragazzi di “buona famiglia” che si macchiano di violenze efferate. Ma anche senza arrivare a delinquere contro la legge civile, ogni giorno, ognuno di noi si macchia di gravi colpe nei confronti del prossimo senza provare senso di colpa per via dei “buoni padri”, biologici, etnici e culturali.

 

È compito difficile, forse il più difficile nella vita, arrivare a dire che non veniamo dal bene ma dal marcio. Che dietro di noi c’è un cumulo di macerie. Che siamo materiali di scarto usciti fuori da un processo di lavorazione andato male. Incarnare tale scacco esistenziale può condurre in fondo all’abisso: è un rischio concreto, eminente. Ma, secondo noi, vale la pena correrlo. Vale la pena abbandonare ogni identità, che proprio in quanto tale è corrotta, per avventurarsi in mare aperto: dove non c’è nessun cammino tracciato, direbbe il poeta Antonio Machado, ci sono solo scie che prontamente si richiudono. Eppure, a osare l’infinito, a rischiare tutto, si cade nell’abisso per poi giungere nel punto più alto del desiderio, fra gli astri.

 

 

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