16 Nov 2018

“Va bene lo stop alla plastica usa e getta, ma la vera rivoluzione circolare è sviluppare i sistemi di riuso”- Parte 1

Il problema dei rifiuti, e in particolare della plastica, è urgente e complesso. Le recenti normative europee sull’economia circolare e contro la plastica usa e getta sembrano muovere nella direzione giusta. Ma per risolvere il problema sono necessari una riprogettazione dei cicli produttivi e dei cambiamenti importanti nel sistema di raccolta differenziata. Ne abbiamo parlato in una lunga chiacchierata con Silvia Ricci la responsabile campagne dell'ACV Associazione Comuni Virtuosi . Conclusione? Nei rifiuti non esiste alcuna soluzione miracolosa perché, come diceva l’umorista statunitense Arthur Bloch, “I problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facili da comprendere e sbagliate”.

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L’Europa sembra muoversi con una certa convinzione verso modelli di economia circolare. Alcune recenti direttive, che fanno parte del più ampio pacchetto europeo sull’economia circolare, introducono alcune novità interessanti: il divieto (dal 2021) di produrre molti oggetti in plastica monouso come bicchieri, piatti e posate di plastica, cotton fioc, e così via; il concetto di responsabilità estesa del produttore, che dovrà farsi carico delle spese di recupero e gestione della totalità degli imballaggi; l’obiettivo di raccogliere e riciclare il 90% delle bottiglie in plastica entro il 2025.

Tuttavia l’attuale situazione dei rifiuti – e in particolar modo della plastica – è molto complessa e l’iter attuativo della legislazione europea è ancora molto variabile (dipende in parte dalla volontà politica dei decisori locali). Non è semplice capire come queste regole saranno recepite dai vari paesi, accolte dalle industrie e dall’impianto produttivo, per arrivare a ipotizzare quanto e come riusciranno ad impattare sul mondo reale. Per vederci un po’ più chiaro ho contattato Silvia Ricci di Comuni Virtuosi, autrice di analisi sempre molto approfondite e accurate sulla gestione dei rifiuti da imballaggio nel nostro paese.

In questa prima parte di intervista andremo ad analizzare principalmente il contesto in cui la normativa europea si inserisce, ovvero la gestione della plastica da imballaggio. Nella seconda parte entreremo più nel dettaglio della normativa stessa, per analizzarla e commentarla alla luce del contesto emerso.

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Per anni ci è stato detto che non c’era nessun problema con la plastica, che bastava fare la raccolta differenziata e tutto si sarebbe risolto. Oggi ci ritroviamo con un problema enorme di inquinamento da plastica dispersa in ambiente, negli oceani, che entra nella catena alimentare, si fa vettore di sostanze chimiche. Cosa non ha funzionato?

Innanzitutto non ha funzionato in toto la gestione del materiale plastica da parte di tutti gli attori della filiera. Per fare un esempio applicato ad uno degli imballaggi più presente nel littering: i contenitori di bevande. Le cose sono andate storte a partire dal momento in cui la bottiglia di plastica monouso è andata a sostituire il precedente sistema che non produceva rifiuti come la distribuzione di bevande in vuoto a rendere. L’industria si è così progressivamente liberata di costi importanti senza preoccuparsi delle conseguenze. I governi sono stati a guardare invece di obbligare i produttori di bevande di prendersi carico della raccolta dei nuovi contenitori a perdere a fine vita.

I sistemi di deposito su cauzione attivi in oltre 40 territori dimostrano di poter intercettare oltre il 90% dell’immesso e di poter creare dei cicli chiusi “bottle to bottle” senza perdite di materiale e produzione di littering. Quando i produttori di bevande si resero conto, negli anni 60-70, che i loro contenitori venivano abbandonati ovunque, preferirono finanziare campagne di effetto come quella del “Crying indian ( che era peraltro un italiano) che addossavano principalmente la colpa sui cittadini “incivili”. Nonostante i primi studi che hanno accertato un’importante presenza di plastica negli ambienti marini fossero dei primi anni settanta si è preferito ignorare il problema sino a che ci è scoppiato in faccia… anzi a ben vedere il problema si sta trasferendo dentro di noi, con quali effetti non sappiamo.

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C’è un problema tecnico nella differenziazione dei materiali o nel mercato della materia prima seconda?

Più che problemi di ordine tecnico, una volta chiarito che la raccolta differenziata è solamente un mezzo, che ha senso di esistere solo quando i materiali raccolti vengono reintrodotti in nuovi cicli economici senza che il loro valore economico si perda, vanno fatte alcune premesse importanti.

Siamo in presenza di una crisi climatica in un mondo dalla popolazione in crescita che non si può affrontare senza ridurre drasticamente il prelievo di risorse. Questo significa che non possiamo aspettare oltre per attuare politiche di prevenzione dei rifiuti. Nel rispetto delle nuove direttive del pacchetto economia circolare e della gerarchia di gestione dei rifiuti  che vede il riciclo come l’opzione ambientalmente meno sostenibile rispetto al prevenire e ridurre i rifiuti (modelli economici circolari) anche attraverso politiche di riuso e condivisione dei beni (prodotto come servizio).

In genere quando si parla di riciclo si pensa al riciclo “teorico” e non si va mai nel dettaglio: molti materiali sono purtroppo riciclabili solamente  in teoria, ma poi nella pratica cosa succede? In Italia raccogliamo tutte le plastiche, sia quelle flessibili che quelle rigide, ma circa la metà del totale raccolto viene termovalorizzata. E questo problema c’è da molto tempo, ben prima che la Cina e altri paesi asiatici rifiutassero i nostri scarti, anche se non se ne parla per tutta una serie di motivi.

Ma fra il riciclo teorico e quello reale abbiamo avuto modo di realizzare che c’è di mezzo il mare (di plastica)…

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Nella pratica invece cosa succede?

Per il riciclo delle plastiche siamo di fronte ad un problema di sostenibilità economica più che a problemi di ordine  tecnologico. Multinazionali come Unilever hanno individuato tecnologie che possono riciclare anche chimicamente imballaggi come i sachet, piccole bustine monodose in multimateriale che infestano i corsi d’acqua dei paesi asiatici. Si tratta di bustine utilizzate per commercializzare detergenti o prodotti per la cura della persona. Il problema in questo caso non è  il riciclo ma come intercettare questi sachet  in paesi dove non esistono sistemi di raccolta dei rifiuti. E soprattutto chi organizza e paga per una loro raccolta?

Al contrario della carta o di imballaggi come l’acciaio e l’alluminio, che sono omogenei, nella differenziata della plastica dovremmo parlare di plastiche: abbiamo infatti polimeri diversi tra loro, come il polietilene ad alta e bassa densità, il polistirene, il PET e così via. Succede che per diversi di questi polimeri non raggiungiamo le quantità necessarie per dare vita a una filiera di riciclo economicamente sostenibile. Prendiamo il caso delle vaschette alimentari in PET: in molti pensano che possano essere riciclate assieme alle bottiglie, mentre in realtà le vaschette hanno una diversa composizione chimica che non si presta ad essere riciclata con le bottiglie. Pertanto, ad oggi , non si è ancora arrivati   per queste vaschette , a mettere in piedi un sistema di riciclo perché non si raggiungono quantità tali da rendere sostenibile la filiera. L’unica possibilità  esistente per cambiare radicalmente il sistema attuale è quella di intervenire nella progettazione a monte degli imballaggi e fare in modo che il loro design sia compatibile con i sistemi di avvio a riciclo e impiantistica presente in modo capillare in tutto il territorio.

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Che prospettive ci sono a riguardo?

C’è un programma internazionale della Ellen MacArthur Foundation molto partecipato dall’industria dei beni di largo consumo che si chiama “The New Plastics Economy” che ha pubblicato nel 2017 il piano di azione “Catalysing Actions” che indica nel dettaglio quali strategie vadano applicate per evitare che la plastica venga riciclata in minima parte e finisca dispersa nell’ambiente. Le strategie sono sostanzialmente tre: 1) la riprogettazione per quel 30% di imballaggi immessi al consumo in peso che sono praticamente impossibili da riciclare 2) il riuso per il quel 20% di imballaggi in plastica che comprende sia gli imballaggi che entrano nelle nostre case che gli imballaggi industriali B2B come cassette, fusti, pallet e contenitori vari utilizzati, ad esempio anche dai fornitori della grande distribuzione per trasportare prodotti come ortofrutta, carni, ecc [qui un link per approfondire i punti 1 e 2, ndr] .  3) infine il restante 50% degli imballaggi in plastica immesso al consumo dovrebbe essere reso facilmente riciclabile senza perdite di valore come avviene con il downcycling [qui un articolo  per approfondire il punto 3, ndr].

Per raggiungere l’obiettivo della riciclabilità vanno seguite le linee guida prodotte dai riciclatori nella progettazione e andare verso una standarizzazione e semplificazione del packaging, convergendo verso un numero ristretto di polimeri. Ma siccome le misure volontarie come l’adesione volontaria a programmi come l’iniziativa prima citata non sono sufficienti per avere il cambio di rotta necessario da parte delle aziende, servono quadri legislativi che rendano economicamente conveniente in primis la prevenzione dei rifiuti da imballaggio: attraverso la dematerializzazione del packaging (cambio dei metodi di commercializzazione/erogazione dei prodotti), il riuso attraverso misure che prevedano obiettivi vincolanti di riuso, oltre che di riciclo o materia post consumo riciclata nelle produzioni. Quindi una buona parte delle ricette le conosciamo, il problema è metterle in pratica coinvolgendo tutti i portatori di interesse che si rivelano indispensabili per un cambiamento della situazione attuale.

Purtroppo molte delle azioni sin qui rese note dai grandi Brand che aderiscono al programma si concentrano prevalentemente sulla strategia del riciclo , più che su strategie di prevenzione e riuso. In parallelo si nota anche una tendenza spiccata da parte delle aziende nel sostituire, ove possibile,  la plastica con altri materiali da imballaggio che non parrebbe essere frutto di una valutazione degli impatti ambientali delle alternative considerate.

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Quindi cambiare materiale potrebbe essere una soluzione non priva di “rischi”  ?

L’industria “in fuga “ dalla plastica, che vive una profonda crisi reputazionale, si sta spostando su altre materie prime per realizzare imballaggi che, anche nell’immaginario comune siano percepite come maggiormente sostenibili. La carta sta raccogliendo grandi consensi anche da parte delle catene di supermercati che vogliono sostituire o ridurre gli imballaggi in plastica. Eppure anche se carta e cellulosa rappresentano una risorsa rinnovabile non dimentichiamo che l’Unep ha previsto al 2030 un aumento del 40% nel consumo di legno e cellulosa. Non abbiamo di fatto  a disposizione alcuna risorsa in natura  di cui poter fare prelievi illimitati che non tengono conto dei relativi tempi di rigenerazione naturali. Eventi connessi al riscaldamento climatico come la recente strage di alberi nelle Dolomiti o ai roghi in California devono farci guardare alle foreste come ad una risorsa da tutelare, oggi ci sono ma domani potrebbero non esserci. Dobbiamo guardare alle risorse in modo sistemico e considerare ogni anno quanto budget di natura abbiamo a disposizione, altrimenti non facciamo altro che spostare gli impatti di un modello economico insostenibile da una risorsa all’altra.

Adesso la situazione è piuttosto lontana da questo scenario…

Ora siamo di fronte ad un’inesorabile crescita degli  imballaggi dovuta soprattutto al cambiamento degli stili di vita: aumento nel consumo di piatti d’asporto (anche ordinato online) e di altri bevande vendute in contenitori “to go” di vario tipo. Aumentano nella grande distribuzione le vendite di cibo pronto e di prodotti di quarta gamma (verdura e frutta già lavata), e via dicendo. Generiamo quindi una quantità di imballaggi destinata a crescere di circa il 3% ogni anno che non è supportata da alcuna seria politica di riduzione. A questo si aggiunga la chiusura delle frontiere cinesi all’importazione degli scarti (avvenuta a partire dal gennaio 2018 ndr), che ha colpito praticamente tantissimi paesi. Alcuni paesi come l’Inghilterra inviavano in Cina addirittura il 60% dei loro rifiuti differenziati, noi ne mandavamo sicuramente di meno,  ma anche a noi la chiusura del mercato cinese ha creato dei problemi e non solo per la plastica. Per fare un esempio, alcuni imballaggi industriali in plastica (preferiti in genere dai riciclatori come qualità e pulizia) che prima venivano venduti all’estero, sono rimasti qua a disposizione del mercato interno. Se la cosa è estremamente positiva da una parte, ha causato dall’altra la mancata vendita e l’accumulo negli impianti di quei materiali dello stesso polimero precedentemente acquistati dai riciclatori, che provengono dalle raccolte differenziate che sono meno appetibili come qualità.

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Cosa potrebbe succedere se il principio di responsabilità estesa del produttore fosse recepito “correttamente” da noi?

Se l’articolo 8 all’interno delle direttive del pacchetto economia circolare sulla responsabilità estesa del produttore fosse recepito come mi auguro dovrebbe,  i produttori saranno obbligati a sostenere i costi totali della raccolta o comunque una buona parte di questi costi.

Pertanto in una situazione in cui i produttori sono costretti a pagare cifre più vicine all’80% che al 20% attuale dei reali costi di avvio a riciclo sostenuti dai comuni , o magari persino il costo totale, potrebbe avvenire un cambio di paradigma che investe tutte le fasi del ciclo di vita degli imballaggi. Un caso che spiega cosa intendo è quello verificatosi in Lituania che evidenzia come l’unica possibilità di raggiungere  l’obiettivo di raccogliere e riciclare entro il 2025 il 90% delle bottiglie in plastica sia lo strumento del deposito su cauzione.

Cos’è successo in Lituania?

Nel 2016 il governo lituano ha messo i produttori di bevande davanti ad una scelta: o si prendevano carico di tutti i costi di gestione dei loro contenitori o in alternativa sarebbe stato introdotto il deposito su cauzione affidato come gestione agli stessi produttori a partire dal sistema di raccolta. Si è optato per questa seconda opzione in cui i produttori si sono presi carico in collaborazione con la grande distribuzione di installare reverse vending machines nei supermercati. Dopo meno di un anno sono passati al 70% di intercettazione dei contenitori  e dopo un anno a oltre il 90%. Persino i comuni che all’inizio avevano osteggiato la normativa perché temevano che sarebbero stati privati degli introiti derivanti dalla vendita degli imballaggi raccolti si sono presto resi conto che il risparmio sui costi della raccolta differenziata era persino maggiore rispetto a quell’introito. Sono ora gli stessi comuni a chiedere che sempre più tipologie di bevande e contenitori entrino nel sistema di cauzionamento.

FINE PRIMA PARTE

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