4 Feb 2021

Una fucina creativa per rigenerare il territorio: la storia della multifactory R84 – Io faccio così #317

A pochi minuti dal centro di Mantova, nelle palazzine che un tempo ospitavano i dipendenti di una raffineria, sorge la multifactory R84. Uno spazio condiviso dove professionisti, artigiani e artisti portano avanti la propria professione e collaborano a progetti comuni, come quello del bosco post-industriale. I fondatori e alcuni soci di questa esperienza ci conducono alla scoperta del concetto di multifactory e ci spiegano come l'incontro fra idee e attitudini diverse può generare un'energia dirompente al servizio della rigenerazione di un territorio.

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Cos’è una multifactory? Cosa si fa al suo interno e qual è la differenza rispetto a un coworking? Cosa vorranno dire le parole di Lorenza «una multifactory è come un essere umano»? Devo ammettere che quando sono arrivato a R84 avevo le idee abbastanza confuse: nessuna delle risposte a queste domande mi era chiara. 

Abbiamo visitato R84 lo scorso autunno, durante un viaggio che Italia che Cambia ha organizzato all’interno del progetto “Imparare per il futuro”, finanziato grazie ai fondi europei Erasmus+. In una calda giornata d’inizio ottobre, nella periferia di Mantova, abbiamo trovato ad accoglierci Lorenza Salati e Giulio Focardi, fondatori del progetto e ideatori del modello della Multifactory, assieme a Marco Masotto, attuale presidente dell’associazione, Simone Foscarini, socio e ricercatore, e molti altri soci, con i quali abbiamo trascorso una giornata piena ed emozionante. Ecco la video intervista realizzata quel giorno e montata da Paolo Cignini, che riassume gli elementi salienti del progetto.

La storia di R84

R84 è una multifactory che sorge a pochi minuti dal centro di Mantova. Su cosa sia una multifactory ci soffermeremo fra poco, per adesso basti sapere che è un ampio spazio in cui hanno il loro ufficio e collaborano vari professionisti, artisti, artigiani. 

Nasce negli edifici che un tempo ospitavano i dipendenti della vicina raffineria, convertiti dapprima in uffici negli anni ’80 e successivamente dismessi. Quattro grandi palazzine, un piccolo hangar e un’area verde, per un totale di 8500 metri quadrati, di cui circa 2500 di spazio coperto.

«Quando la raffineria ha chiuso le attività nel 2013 – racconta Giulio Focardi – è stato indetto un concorso di idee per recuperare i 300 lavori perduti. Una società di Milano è stata incaricata di portare avanti questo processo e alla fine ha selezionato tre progetti di cui uno è la multifactory R84».

L’associazione R84 è stata creata nel 2016 e da allora i soci hanno iniziato a popolare di nuova vita gli spazi fin lì abbandonati. Attualmente al suo interno lavorano circa 60 persone a 40 progetti, ma se si includono anche clienti e fornitori, ogni settimana transitano per lo spazio circa 500 persone.

C’è un atelier di fotografia, un collettivo artistico, la sede di un’azienda agricola, una biologa nutrizionista, uno studio di psicologia, un’insegnante di ikeban (l’arte tradizionale giapponese di disporre i fiori), una graphic designer, una società di import/export, un traduttore, un burattinaio e così via. Un tasso di diversità molto alto, insomma, che come spiegato nel video non è un fattore casuale ma un elemento centrale del progetto. 

Un'istantanea dell'open day di R84. Credits: Sheaon Townsend Photography of Skape Studios
Un’istantanea dell’open day di R84. Credits: Sheaon Townsend Photography of Skape Studios

Il modello della Multifactory

Dunque, cos’è una multifactory? Forse il modo migliore per spiegarlo è partendo dal paragone con un co-working, concetto che tutti più o meno abbiamo in testa. Ecco, una multifactory è in parte un coworking, ovvero uno spazio condiviso dove vari professionisti esercitano il proprio mestiere, ma è anche molto di più. Tutte le multifactory sono anche dei coworking, ma di certo non tutti i coworking sono multifactory.

Avere il proprio studio, ufficio o atelier all’interno di una multifactory significa anche esserne socio, collaborare in maniera stabile e strutturata, contribuire alla gestione dello spazio, decidere assieme agli altri e fare progetti tutti assieme. Si passa dalla condivisione di uno spazio alla condivisione di una progettualità, una visione, dei valori.

Un esempio di questo tipo di progettualità condivisa è il bosco post-industriale, di cui Marco Masotto ci parla nella video-intervista. Un progetto di piantumazione di alberi in una zona considerata degradata, al lato della vecchia raffineria, che potrebbe trasformarsi in un più ampio progetto di cicloturismo.

Due partecipanti al progetto  “Imparare per il futuro” piantano un albero nella foresta post-industriale. Credits: Andrea Degl'Innocenti.
Due partecipanti al progetto “Imparare per il futuro” piantano un albero nella foresta post-industriale. Credits: Andrea Degl’Innocenti.

Ma da dove nasce il modello della multifactory? La risposta breve è: da un viaggio. Viaggio intrapreso da Giulio e Lorenza in tutta Europa a partire dal 2011, alla ricerca di spazi condivisi dove le persone lavorassero insieme: «Inizialmente – racconta Lorenza – abbiamo cercato spazi creati da persone che avessero una diversa visione del mondo e del lavoro. Persone che come noi dessero più valore alla qualità della vita, alla qualità dei progetti, alla collaborazione e alla condivisione. Nel 2011-12 non era così diffuso il modello del coworking e parlare di business e assieme di collaborazione e condivisione del sapere, era visto sempre con diffidenza. Noi pensavamo che fosse possibile».

Il viaggio dura circa due anni – «anche se a dire il vero non è mai finito», commenta Lorenza – durante i quali i due visitano circa 170 progetti e ne selezionano sette, in cui trascorrono del tempo per studiarli più a fondo: «A un certo punto – continua – ci siamo accorti che tutti questi progetti avevano delle caratteristiche simili. Le persone che lavoravano in questi spazi la pensavano allo stesso modo rispetto al lavoro, ai sistemi organizzativi, un po’ anche ai valori a cui credevano. E questo pur essendo molto diversi fra loro, quanto può esserlo un designer londinese da un contadino della Basilicata». 

L’osservazione di queste similitudini ha spinto Giulio e Lorenza a indagare sulle caratteristiche comuni alla ricerca di un modello. «Ci siamo focalizzati su costruire un modello di multifactory che ci aiuti a capire quali sono le fasi. Una multifactory è come un essere umano: nonostante siamo tutti diversi abbiamo tutti le stesse fasi dello sviluppo. Il bello di costruire un modello poi, è che ti puoi affidare a qualcosa che esiste e funziona. Sia noi come iniziatori che chi ci segue sa che c’è un modello, che non è quello capitalistico, è diverso, ma c’è. È una cosa che rassicura molto e aiuta a evitare gli errori più grandi. Poi ogni comunità ha una storia diversa, ma hanno alla base una struttura, un modo di pensare che è simile». 

I risultati di questo viaggio sono confluiti in un documentario, diverse pubblicazioni scientifiche (di cui quella principale, The Rise of Community Economy. From Coworking Spaces to the Multifactory Model, è disponibile gratuitamente online) e una serie di esperimenti pratici, di cui R84 è in realtà solo il primo e il più avanzato.

Un altro momento dell'open day di R84. Credits: Sheaon Townsend Photography of Skape Studios

Governare la diversità

In R84, e più in generale in una multifactory, la diversità è uno dei punti fondanti, come spiega Lorenza nel video. Ma come si fa a tenere assieme questa diversità facendo in modo che non sfoci in conflittualità? In questo ricopre un ruolo centrale il modello decisionale adottato all’interno dell’associazione.

«Le decisioni – ci dice ancora Lorenza – le prendiamo all’unanimità usando il metodo del consenso. È una cosa nuova per chi è abituato a decidere secondo le logiche di maggioranza e minoranza. Consenso però non significa che tutti devono essere al 100% d’accordo su tutto, altrimenti non si farebbe niente». 

Funziona così: «Quando qualcuno presenta una proposta e qualcuno non è d’accordo si procede così: se l’obiezione è veramente eclatante, allora la persona si oppone e anche un singolo può bloccare tutto un progetto. È importante che sia così, ma questo non capita quasi mai; la maggior parte delle volte se qualcuno ha dei dubbi si fa da controllore, lascia che l’iniziativa venga portata avanti ma se ne fa guardiano. Se andando avanti i dubbi si sciolgono, meglio così, altrimenti se i suoi dubbi si rafforzano e la cosa non funziona, interviene. È un metodo molto efficiente perché se qualcuno fa una proposta e nessuno ha qualcosa in contrario la proposta passa, e viene realizzata. Se invece la proposta ha delle criticità, il proponente sarà aiutato da chi quelle criticità le ha viste. È un sistema autonomo e decentralizzato, che ci consente di avere in parallelo tantissimi gruppi e progetti attivi, che vanno avanti da soli». 

Economia sistemica

Partito da una ricerca sul campo di due anni, quello di tenere assieme la ricerca con la pratica resta uno dei tratti distintivi di R84. Non a caso al suo interno sorge anche un centro di ricerca chiamato “Centro studi per l’economia sistemica”. «Formalmente è nato un anno fa (ottobre 2019 ndr) – ci racconta Simone Foscarini –, ma praticamente è nato poco prima del lockdown. Abbiamo steso un manifesto dove abbiamo messo giù le nostre idee e i nostri valori». 

Il centro studi porta avanti due filoni, uno di ricerca e uno di ricerca applicata. «Il primo – continua Simone – ha l’obiettivo di realizzare una pubblicazione sulla cosiddetta sostenibilità istituzionale, ovvero i vincoli giuridici e burocratici alla realizzazione di nuovi modelli economici trasformativi. Il secondo, la ricerca applicata, è sul filone delle multifarm, prende le basi dal modello della multifactory e cerca di includerlo in un modello di rigenerazione urbana. 

Il centro di ricerca sembra essere anche una sorta di cabina di monitoraggio del presente e sperimentazione del futuro: «Il centro vuole essere uno spazio dove noi cinque e in futuro anche altri sperimentano nuovi modelli, nuovi scenari: ci stiamo aprendo all’economia circolare, alla rigenerazione rurale, ai servizi ecosistemici, alle monete complementari».

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