2 Set 2021

Campi rom: è arrivata l’ora di chiuderli e cambiare l’idea che abbiamo dei loro abitanti

Da decine di anni Carlo Stasolla, presidente dell'Associazione 21 luglio e Ashoka fellow, combatte in prima linea per abbattere le barriere prima di tutto culturali, ma anche politiche e sociali, che sono nate intorno alle comunità rom italiane. Il primo passo? Chiudere i campi in cui queste persone sono confinate. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo libro “La razza zingara”.

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Roma, Lazio - Campi rom, campi nomadi, baraccopoli, comunità zingare: quali sono le emozioni e i pensieri associati a questi termini? Il tema è senz’altro spinoso. Spesso la maniera in cui sono stati narrati gli eventi attinenti al mondo nomade non è stata corretta, contribuendo così a instillare suggestioni non sempre positive e associando a queste culture comportamenti e usanze che, di fatto, non appartengono loro.

Per conoscere e analizzare in maniera più oggettiva cosa è accaduto nell’arco degli ultimi venticinque anni, abbiamo intervistato Carlo Stasolla – presidente dell’Associazione 21 luglio, nata undici anni fa nel contesto dell’Emergenza Nomadi proclamata dal governo Berlusconi nel 2008 – che da circa trent’anni anni approfondisce questi temi.

Carlo ha vissuto all’interno di alcuni campi rom della capitale, da solo e insieme alla sua famiglia, toccando con mano le problematiche e analizzando gli aspetti normativi del quadro di riferimento a livello nazionale ed europeo. Le sue attività di ricerca, studio, monitoraggio e advocacy sono rivolte anche a influenzare le politiche con l’obiettivo preciso di superamento dei campi, espressione massima di un’architettura sociale di discriminazione.

L’ultimo libro pubblicato da Carlo Stasolla è La Razza zingara. Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati: lo “scarto umano” in venticinque anni di storia (Tau Editrice), un testo che invita a rileggere e rielaborare la storia delle comunità nomadi con onestà intellettuale, riconoscere gli errori fatti e individuare nuovi percorsi.

campi rom 1

Carlo, partiamo dal titolo. Perché questa scelta?

Il titolo è volutamente provocatorio perché dimostra che si è avviato nei confronti delle comunità rom in fuga dall’ex Jugoslavia, profughi di guerra, un processo inedito di razzizzazione. Di fronte infatti ai nuovi arrivati, non li si è considerati come persone in condizioni sociali ed economiche complesse e critiche, ma come persone appartenenti a una “razza” differente, incapaci di adattarsi agli standard che noi riconosciamo come civili. Persone di cultura diversa, di lingua diversa, con bisogni diversi. Questo processo di razzizzazione – sicuramente compiuto in buona fede, visto che dalle interviste raccolte e dalla storia ricostruita emerge come tutto sia stata fatto pensando di fare del bene – ha portato alle conseguenze che tutti conosciamo. I rom in Italia sono ritenuti come dei soggetti con cittadinanza amputata, imperfetta, con bisogni diversi, con risposte speciali ai loro bisogni.

Quando parli di razzizzazione nel caso dei rom cosa intendi?

Mi riferisco a persone considerate diverse, con una umanità non pienamente compiuta. Questo ha portato a dire che per i rom è normale e facile vivere in mezzo al fango, è normale e facile vivere in roulotte, baracche o container. Per i rom è normale vivere in ambienti segregati, spazi a loro dedicati. Questo atteggiamento ha generato e sviluppato politiche su base etnica. A Roma abbiamo un ufficio speciale rom, mentre non esiste un ufficio speciale per i francesi o per i tedeschi.

Secondo te la razzizzazione di cui parli è stata una scelta politica?

La politica è caduta in un inganno, così come la Chiesa. Anche per gli amministratori di sinistra che hanno governato sia Roma che la regione, per la cittadinanza e per il terzo settore è stato un grande abbaglio considerare queste persone portatrici di una cultura completamente diversa dalla nostra e ricondurle a un immaginario collettivo che in realtà non esiste. Tutt’ora molti di noi pensano che la cultura rom sia fatta di violini, flamenco intorno al fuoco. Non è così. Non esiste una cultura rom nella misura in cui non esiste una cultura italiana. Se oggi dovessimo dire quali sono gli elementi caratteristici e tipici della cultura italiana non sapremmo rispondere. De rom invece diciamo che suonano i violini, che preferiscono vivere all’aperto senza pensare al futuro. Abbiamo affibbiato nostre categorie mentali a queste persone, a loro insaputa e in maniera totalmente gratuita, secondo modelli che non hanno nessun riscontro con la realtà né con la scienza.

Come diceva Moretti, “le parole sono importanti”. Hai accennato alla questione linguistica, altro tema importante trattato nel tuo libro. Quanto il linguaggio utilizzato anche dai media influisce in questo processo di separazione e discriminazione?

Le parole hanno un peso importantissimo e coloro che le muovono, a partire dai media, sono i principali artefici oltre che responsabili. Avendo inventato la figura del rom abbiamo avuto bisogno di parole che sostenessero questo apparato. È nato così l’ufficio rom che inizialmente si chiamava ufficio nomadi. Oggi è l’ufficio speciale rom. Abbiamo anche l’ufficio speciale scolarizzazione bambini rom, ci sono bandi rivolti esclusivamente ai rom, esiste un piano di inclusione rom nella città di Roma e a livello nazionale. Le parole sono fondamentali e bisognerebbe iniziare ad abolirne alcune, non per una questione etica e di giustizia, ma per una questione reale. Quando un giornalista parla di un rom, su quale base dice che è rom? Gliel’ha chiesto? Quando si parla di campi rom, su quali basi diciamo che tutte le persone di quel campo sono rom? Dovremmo imparare a usare correttamente le parole, non parlare più di campi rom, ma di baraccopoli, non più di rom, ma di cittadini italiani, stranieri o apolidi – in realtà la stragrande maggioranza è italiana. Se iniziassimo a cambiare il linguaggio, le ideologie e le stereotipizzazioni artificiose che abbiamo creato comincerebbe a crollare.

Cosa significa rom?

Rom è un’espressione che non ha alcun valore giuridico, non lo troverai mai scritto in un passaporto. Dovrebbe indicare delle persone che hanno una lontanissima origine in India, intorno all’anno 1000, e che parlano il romanes. In realtà non tutti i rom che abitano nei campi parlano questa lingua.

Passiamo alla politica. Nell’arco degli ultimi venticinque anni, nonostante i colori politici diversi, i campi rom esistono e continuano a sopravvivere. Quale è stato il contributo della politica a questo processo?

La politica ha sicuramente avuto un ruolo determinante. Anche la cultura più di sinistra ha provocato dei danni. Mi ricordo dei vari Sindaci di Roma. Di Alemanno, Veltroni e ancora prima Rutelli. Il colore politico è cambiato, ma nella pratica è cambiato poco il rapporto della città con queste persone definite rom. La politica ha tradotto nella prassi quello che era un pensiero e lo ha fatto inventando il campo rom che è l’espressione architettonica di un razzismo di stato. È stata la politica ad avere la necessità di trovare un luogo fisico in cui concentrare questa alterità estrema. I campi rom sono una tipicità italiana, altrove non si trovano, e Roma è la città che più di tutte ha investito risorse umane ed economiche per realizzarli. Il campo rom è il luogo della rieducazione, in cui collocare le persone ritenute rom e quindi stereotipate, e negli anni è diventato un luogo in cui fare affari. Mafia capitale l’ha dimostrato. L’ambito rom è sempre stato di emergenza. Durante l’amministrazione di Alemanno sono stati spesi circa 100 milioni di euro per far prosperare organizzazioni del terzo settore senza scrupoli. Il sistema campi è un sistema perverso dove in tanti hanno operato in buona o cattiva fede, in tanti hanno guadagnato soldi in buona o cattiva fede e il rom è dovuto restare tale. Era necessario che restasse tale proprio per mantenere attivo questo sistema.

Per la politica i rom sono diventati un’opportunità di guadagno?

Di guadagno e consenso, perché quando accade qualcosa che mette in pericolo la sicurezza della città subito si punta il dito contro il campo rom, a torto o a ragione. Il campo rom è funzionale a dettare le paure, a gettare le risposte che poi si traducono in favori, in appoggi politici, ma anche in guadagni più o meno legittimi.

Secondo te quali sono le alternative? Quali cambiamenti proponi per aprire un nuovo capitolo di questa questione?

Nel 2015 in Italia erano presenti 149 camp, oggi se ne contano 110 grazie anche al lavoro della nostra Associazione 21 luglio. Ci sono amministrazioni che li stanno chiudendo e stanno superando l’idea e la struttura dei campi rom. Il 13 settembre terremo un convegno alla Camera dal titolo “Oltre il campo” dove inviteremo amministrazioni virtuose che racconteranno come hanno sradicato i campi. Daremo delle linee guida sul superamento dei campi anche alla prossima amministrazione che governerà Roma. Stiamo presentando la nostra proposta per chiudere l’ufficio speciale rom, finirla con tutto ciò che ha una caratterizzazione etnica, trattare queste persone come cittadini qualunque, chiamandoli baraccati se vivono in baracche. Riteniamo che possa funzionare anche perché le nuove generazioni che stanno crescendo nei campi hanno un grande desiderio di uscire fuori. Grazie anche al nostro supporto molto di loro hanno avuto accesso alle case popolari in maniera autonoma e senza corsie preferenziali. Smettere di parlare di rom, campi rom, dare possibilità a tanti giovani che vivono nei campi attraverso percorsi ordinari di diventare pieni cittadini iniziando a entrare nell’ordinario: queste sono le alternative. E i dati ci dicono che tutto ciò è possibile, perché negli ultimi anni il processo è andato in questa direzione. Noi riteniamo che nei prossimi cinque anni qualsiasi amministrazione di qualunque colore politico possa chiudere la stagione dei campi.

campi rom 2

Come mai hai deciso di scrivere il tuo libro e qual è il tuo contributo alla comunità?

Ho deciso di scriverlo perché quando parlavamo di questi temi con i candidati sindaci tutti rispondevano dicendo che non li conoscevano né erano al corrente dell’evoluzione che i campi rom hanno avuto nel corso del tempo. Il libro racconta ciò che è stato fatto e ciò che non va ripetuto. È un memorandum rivolto a tutti, per far sì che non si senta più dire “io non lo sapevo”. Adesso lo sappiamo e non possiamo replicare gli stessi errori, dobbiamo dare discontinuità e nuove opportunità.

Da quanto tempo lavori a questo libro?

Circa un anno e mezzo. Avendo in casa tanta documentazione è stato un tempo abbastanza breve rispetto alla mole di lavoro.

Nel libro raccogli numerose testimonianze. Ce n’è qualcuna che ti ha colpito di più e che ti senti di citare?

Tengo a tutte le testimonianze riportate nel libro. Mi piace ricordarne una che non ho inserito perché posteriore all’uscita del libro stesso. Un assessore del Comune di Roma, dopo aver letto il libro, mi ha chiamato ringraziandomi e dicendomi: “Io queste cose non le sapevo, non mi rendevo conto di aver sbagliato. La ringrazio perché mi hai fatto scoprire un errore enorme di cui ero complice senza saperlo”. Mi ha colpito molto l’onestà intellettuale della persona e ho capito quanto utile potesse essere il libro. Il suo contributo può essere determinante anche perché non punta il dito contro nessuno, anzi, fornisce delle attenuanti soprattutto nella parte finale. Credo fortemente che la maggioranza delle persone che si è occupata del tema l’abbia fatto in buona fede e chi ha onestà intellettuale può riconoscere l’errore e consentire a chi governa di non ripetere il medesimo errore.

La Chiesa, come istituzione, che ruolo ha avuto?

La Chiesa è stata determinante perché sotto la giunta di Rutelli, Veltroni e Alemanno i rapporti con il Campidoglio sono stati sempre molto forti. Così come ha impattato negativamente nel passato, oggi può impattare positivamente. Chi guida oggi la Chiesa a Roma conosce la questione ed è consapevole delle problematiche esistenti.

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Alla fine del libro racconti la tua esperienza all’interno di un campo. Perché hai deciso di viverla in prima persona?

L’ho fatto per un senso di giustizia. Davanti a una ingiustizia puoi decidere se combattere o sederti accanto a chi ne è vittima. Per quattordici anni, prima da solo e poi da sposato, ho deciso di condividere questa vita e sedermi a fianco di chi subiva l’ingiustizia. Questa esperienza mi ha permesso di conoscere la prospettiva – che racconto nel libro – di chi vive dall’altra parte. Mi ha aiutato a comprendere e sperimentare sulla pelle la scelta di politiche segreganti e discriminatorie rivolte ai rom. Mi ha dato un punto di vista che ho potuto esporre e l’ultimo capitolo è il racconto e la sintesi della storia di tutti i campi rom precedenti.

Hai vissuto la fase di “vivere con” queste persone all’interno del campo e attraverso l’Associazione 21 luglio sei in prima linea per la difesa dei diritti umani attraverso campagne, azioni di sensibilizzazioni e tanto altro. Qual è il punto di incontro tra queste due fasi che hai vissuto da protagonista?

Il punto di incontro è esattamente la parola “incontro”. Oggi manca a Roma proprio l’incontro tra queste due comunità – chi vive fuori e chi dentro i campi rom – e quando si realizza questo incontro, fisico e reale, tutto cade. Noi abbiamo creato questo fantasma e lo abbiamo relegato nel campo, ma nel momento in cui il fantasma è una persona, una mamma, un ragazzo, tutto questo immaginario viene meno. La prima cosa da fare è favorire l’incontro, tornare a stare insieme e a guardare queste persone non come una razza diversa, ma come nostri concittadini che hanno subito politiche sbagliate e che possono e devono tornare a essere cittadini pienamente romani e italiani.

Come vedi il futuro a tal proposito?

Lo vedo positivamente. Penso che i tempi siano maturi per un cambio di approccio sia dentro le comunità, sia nella città di Roma che al Campidoglio. Ci stiamo adoperando da diversi mesi per incontrare quanti saranno chiamati a governare la città e accertarci che abbiano chiaro il quadro, per avere certezze che si possa andare presto in una direzione di chiusura definitiva di questi luoghi.

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