26 Ott 2021

I Medici per l’Ambiente: “Basta allevamenti intensivi, senza biologico non c’è futuro”

È necessaria una rivoluzione del sistema di produzione alimentare che preveda l'abbandono dei modelli intensivi di allevamento e che ricorra al biologico non come tentativo di greenwashing ma come reale pratica per un'alimentazione sana e sostenibile. Sono queste le conclusioni a cui giunge un position paper pubblicato dall'ISDE - Associazione Medici per l'Ambiente.

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Gli allevamenti intensivi inquinano terra, acqua e aria e generano innumerevoli altri danni: deforestazione, promozione dello sviluppo di prodotti OGM in agricoltura, perdita di biodiversità, sviluppo di zoonosi, concorso all’antibiotico resistenza. Oggi una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la “questione animale”, in merito al benessere di tutti esseri viventi e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo.

La nostra dieta deve cambiare per diventare più sana, per mettere fine alla fame nel mondo, per salvare il Pianeta e per dare dignità e benessere al mondo animale. In questo panorama, la scelta produttiva del biologico anche in zootecnia, è un grande progetto sostenuto e voluto dalla maggioranza dei cittadini europei, che vogliono un futuro sostenibile e più giusto.

ISDE – l’associazione dei medici per l’ambiente – ha voluto dare il suo contributo al dibattito sul Green Deal Europeo con una ricerca che, nel confrontare l’allevamento intensivo con quello biologico, interroga il mondo produttivo, quello dei consumatori e quello politico\istituzionale e chiede, documentandone l’urgenza, che il progetto europeo di trasformazione del modello di sviluppo agricolo sia effettivamente realizzato. Il biologico non deve essere greenwashing, ma deve diventare un cambio di paradigma affinché niente sia più come prima.

allevamenti intensivi 3
Foto di Essere Animali

Gli allevamenti intensivi

Il lavoro dell’ISDE si concentra sull’analisi delle conseguenze di un sistema alimentare fondato sugli allevamenti intensivi, che hanno rappresentato un radicale cambiamento anche in termini culturali. “L’allevamento intensivo – scrive l’associazione definendo il concetto – si caratterizza nel non essere più produzione agricola, perché non più legato alla terra. Questo significa che chi alleva animali, non necessariamente deve disporre della terra per alimentarli, con la conseguenza che meno è lo spazio utilizzato maggiore è la massimizzazione delle operazioni di nutrimento e cura con conseguente maggiore rendimento e profitto”.

In questo modo si pone l’accento a su diverse tipologie di effetti negativi generati: la perdita del legame con la terra, l’isolamento delle piccole economie di sussistenza, l’assenza quasi totale di tutela per il benessere animale, i danni all’ambiente e quelli all’organismo di chi consuma prodotti di origine animale.

Nel tempo infatti gli allevamenti intensivi hanno visto affermarsi pratiche allevatoriali dannose non solo per il benessere animale, ma anche per la salute dell’uomo e per la tutela ambientale. L’ISDE riporta alcuni esempi: macinazione carne di pecore morte per scrapie (morbo analogo a quello della “mucca pazza”); allevamento di polli, tacchini, faraone, in capannoni industriali con concentrazioni a rotazione anche di mezzo milione di capi; costrizione delle scrofe in gabbia al fine di non avere mortalità tra i suinetti, costringendole a potersi solo alzare e coricare e senza mai poter camminare o girarsi; allontanamento dei vitelli dalle madri dal primo giorno per metterli in gabbia e mungere la madre sfruttandone tutta la duratura della montata lattea.

Queste sono solo alcune delle modalità messe in atto negli allevamenti intensivi italiani. Il report ne descrive molte altre, fornendo riferimenti documentali in merito e riportando i testi di legge che disciplinano il settore. Vengono riprese anche alcune dichiarazioni e prese di posizione ufficiali da parte di organi istituzionali anche di primaria importanza – come la FAO, la Corte dei Conti Europea e l’ISPRA – che si esprimono contro queste pratiche.

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Foto di Animal Equality

I falsi miti

Nel suo position paper, l’ISDE smentisce anche il fabbisogno alimentare globale come giustificazione al sistema degli allevamenti intensivi e lo fa citando alcuni autorevoli fonti, come la stessa FAO: “Le diete sostenibili sono diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono accettabili culturalmente, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e, contemporaneamente, ottimizzano le risorse naturali e umane”.

Per rafforzare la testi, vengono citate anche ricerche compiute da National Center for Scientific Research e The Lancet Commission. Il primo studio conclude che nel 2050 il biologico potrebbe riuscire a sfamare tutta la popolazione europea, mentre il secondo sostiene che “l’attuale produzione di cibo rappresenta un rischio globale per le persone e il pianeta ed è la più grande pressione causata dagli esseri umani sulla Terra, minaccia gli ecosistemi e la stabilità del sistema terrestre. Le attuali diete, combinate alla crescita della popolazione (10 miliardi entro il 2050), esacerberanno rischi per le persone e il pianeta. Il peso globale delle malattie non trasmissibili peggiorerà e gli effetti della produzione di cibo sulle emissioni di gas serra, sull’inquinamento da azoto e fosforo, sulla perdita di biodiversità e sull’uso di acqua e terra ridurranno la stabilità del Pianeta. S’impone la riduzione di oltre il 50% del consumo di cibi come carne rossa e zucchero e, viceversa, l’aumento di oltre il 100% di consumo di cibi sani, come noci, frutta, verdura e legumi. Con diete sane sarebbero evitabili dai 10,8 agli 11,6 milioni di morti all’anno”.

I danni ad ambiente e organismo

Inevitabile sottolineare ancora una volta, punto per punto, i danni che i prodotti e i metodi produttivi degli allevamenti intensivi provocano all’ecosistema e alla salute di chi li consuma. Dall’aumento dei rischi di zoonosi – e la situazione sanitaria globale dovrebbe avercelo insegnato – alla perdita della biodiversità, dall’impatto sulle risorse alimentari alla deforestazione.

La necessità dell’esistenza degli allevamenti intensivi è legata alla richiesta di proteine animali per il consumo umano, che però l’ISDE ritiene un fabbisogno indotto e non aderente agli apporti necessari a una sana alimentazione. Al contrario, vengono citati diversi di studi che hanno dimostrato la dannosità delle carni rosse e di quelle processate per l’essere umano, tanto che nel 2015 la IARC, dopo aver passato in rassegna 800 studi epidemiologici condotti in ogni continente, ha inserito le carni processate tra i cancerogeni certi e le carni rosse tra le sostanze probabilmente cancerogene per l’uomo.

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Foto di IAPL Italia

Il biologico

In questo fosco scenario assume una vitale importanza la valorizzazione dei metodi biologici. L’ISDE ritiene però opportuno chiarire un equivoco ricorrente: “La confusione, creata dal proliferare di terminologie coniate per smarcarsi dall’identità dell’intensivo quali ‘biologico’, ‘etico’, ‘naturale’, ‘biodinamico’ e altre, denota che siamo in presenza, con l’allevamento intensivo, di una violazione non solo dei parametri ambientali, ma anche di quelli morali e non solo per la questione del benessere animale. Il fine è il conseguimento di un profitto di scala, al quale si vuole porre un limite in quanto ormai questo rappresenta un mondo svelato e conosciuto, tenuto all’oscuro per oltre 50 anni dai media”.

Dopo una puntuale analisi dei dati del biologico in Italia e della legislazione, il report prende le distanze dalle etichette istituzionali, sottolineando che “il primo passaggio necessario sarebbe dunque quello di eliminare le terminologie di intensivo e biologico e legiferare in merito all’allevamento in senso lato, che dovrebbe rispondere a dei requisiti massimi e rigorosi, in base alle caratteristiche oggi definite per il biologico e legiferate dalla UE, escludendo tutti gli altri appellativi e realtà in essere. Solo in questo modo si elimineranno terminologie commerciali più o meno attrattive e si eviterebbe di legalizzare la sofferenza animale, il rischio ambientale e di salute, adducendo l’appartenenza
all’intensivo piuttosto che al biologico”.

Al termine dell’analisi appare dunque chiaro che il settore abbisogna di una profonda ristrutturazione, accompagnata da una rivoluzione verde senza precedenti che metta al centro il benessere degli animali e includa negli obiettivi del biologico non solo la tutela ambientale, ma anche la salute umana. “Senza questa rivoluzione dell’Europa – conclude il report – che elimini le sofferenze degli animali, che riduca la trasformazione cerealicola in proteine della carne, che produca ciò che è il vero fabbisogno proteico della Nazione o dell’Europa, che si faccia carico di eliminare gli sprechi alimentari e l’utilizzo di pesticidi, senza tutto questo, appare difficile intravedere un futuro”.

Clicca qui per leggere il documento completo.

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