17 Feb 2022

Vulvodinia: perché (non) se ne parla ora?

Scritto da: Valentina D'Amora

Ne soffre 1 donna su 7, è una patologia ancora poco conosciuta, infatti le diagnosi sono spesso tardive, eppure è invalidante e compromette la qualità della vita. Si tratta della vulvodinia e tante pazienti si ritrovano ad affrontarla e a conviverci in solitudine. Ne abbiamo parlato con un'ostetrica spezzina, specializzata in rieducazione del perineo.

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La Spezia - Vulvodinia. Tra le prime a parlarne è stata Giorgia Soleri, modella che da tempo ha deciso di rendere pubblica la sua esperienza quotidiana, “fatta di dolore cronico e ritardo diagnostico”. Aver portato allo scoperto questo suo lato così personale e intimo testimonia grande coraggio e la sua intenzione di sensibilizzare più persone possibili su queste patologie femminili di cui si parla ancora poco. A dare visibilità alla sua lotta all’indifferenza le si è affiancato anche Damiano David, il suo compagno, cantante dei Måneskin.

Cos’è la vulvodinia e come si manifesta? Ho scelto di parlarne con una ostetrica spezzina, Baghya, che mette il cuore nel suo lavoro e si prende cura, con dolcezza e ascolto, di ogni donna che incontra. Il suo sito si chiama “Iniziarebene” perché, a partire dalla gravidanza, vuole far scoprire a chi sceglie un percorso con lei che può ricevere calore, accudimento e una bussola per non perdere l’orientamento, non solo durante la gestazione. «Essere consapevoli di questo – sorride – fa decisamente la differenza». Secondo Baghya, iniziare bene è essenziale, nella relazione con i figli, ma soprattutto con noi stesse. Entrare in empatia con il nostro corpo ci aiuta a conoscerci meglio, ma anche a riconoscere i campanelli d’allarme.

giorgia soleri convegno
 Giorgia Soleri durante il convegno: “Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo: un dolore senza voce”

Che cos’è la vulvodinia?

È una condizione cronica, caratterizzata da fastidio vulvare, spesso descritto come bruciore e dolore, in assenza di alterazioni visibili di qualche rilievo o di specifici disturbi neurologici clinicamente identificabili, della durata di almeno tre mesi (Fonte: International Socyety for the Study of Vulvar Disease ISSVD – Congresso mondiale del 2003).

Come si diagnostica?

La diagnosi per vulvodinia si dovrebbe effettuare per esclusione di altre patologie, poi indagando nello specifico con strumenti quali lo swab test, un cotton fioc umido atto a verificare l’evocazione di un dolore acuto se si toccano determinati punti della vulva. Credo sia purtroppo necessario, come operatori del settore, prendere atto anche del fatto che viviamo in una nazione in cui una donna su tre nella vita ha subito un qualche tipo di violenza. Per questo è importante tenere conto di potenziali vissuti traumatici, anche quando non vengono riportati, perché “psiche” e “soma” non percorrono mai strade separate, men che meno se parliamo di tematiche inerenti la sfera genitale.

La vulvodinia, però, deve essere presa in considerazione per poter essere indagata, invece spesso il dolore riferito dalla donna a molti appare “ingiustificato” perché non è associato a evidenti lesioni genitali o a tamponi positivi, nonostante lo stato infiammatorio.

ostretrica baghya
La dottoressa Baghya

Come si manifesta e quali sono i campanelli d’allarme che devono metterci in guardia?

Le donne che ne soffrono spesso non riescono a compiere azioni altrimenti banali come indossare un paio di jeans, andare in bici, avere rapporti soddisfacenti e piacevoli. Dunque, come campanelli direi: dolore vulvare, bruciore, impossibilità ad avere rapporti sessuali. 

Per questioni culturali, il dolore delle donne, soprattutto inerente la sfera genitale, è taciuto o non riconosciuto come tale. Ci tengo a sottolineare che il benessere vale ad ogni età e in ogni circostanza: dopo un parto e un tempo di ripresa di eventuali suture non è normale avere dolore, in menopausa non è normale avere dolore, ai primi rapporti non è normale avere dolore, durante le mestruazioni non è normale avere dolore. Eppure sappiamo che questo nostro dolore “di donne” viene normalizzato dalla nostra cultura. Ecco, dovremmo, invece, provare a normalizzare la cura del nostro corpo. 

Ci sono donne che non hanno mai avuto una sessualità non dolorosa e questo viene ritenuto normale, donne a cui viene prescritta pazienza di fronte al dolore. Eppure il dolore non è mai normale, tranne che nell’unico caso in cui porta a qualcosa di evolutivo, il parto. Nonostante questo lo abbiamo fatto diventare estremamente frequente nella vita delle donne: sono tanti i dolori trascurati, è una questione culturale prima ancora che sanitaria, ma il personale sanitario è composto da esseri umani.

C’è una terapia?

È possibile avere una regressione dei sintomi della vulvodinia e tornare ad avere una buona qualità di vita, ma bisogna tener conto che è spesso necessario un lavoro in team. La diagnosi parte dall’ambito ginecologico, anche se capita che siamo noi specialisti della rieducazione del perineo a osservare dapprima determinati indizi e inviare le donne al controllo ginecologico per una diagnosi.

L’approccio farmacologico è il primo passo, soprattutto per gestire lo stato infiammatorio oppure in caso di neuropatie. Quasi sempre poi è necessario lavorare sulla salute muscolare del pavimento pelvico, dunque si attiverà un percorso con un’ostetrica o un fisioterapista specializzati in rieducazione del perineo. Solitamente incontro donne estremamente determinate: la riuscita del percorso deriva proprio dalla loro costanza nel praticare anche a casa gli esercizi.

La vulvodinia comunque ha un’origine ed uno spettro multifattoriali: il percorso può coinvolgere oltre che il trattamento e la rieducazione del distretto perineale, la prescrizione medica di farmaci, di probiotici o altri integratori e l’assistenza professionale di dietista o nutrizionista per promuovere un’adeguata alimentazione. Le donne affette da vulvodinia hanno ovviamente un vissuto difficile con la sessualità, soprattutto perché solitamente la diagnosi arriva dopo molto tempo dall’insorgenza dei sintomi, per cui è di sostegno al loro percorso di guarigione anche la sessuologia.

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Illustrazione tratta da Pixabay

Cosa possiamo fare in Liguria per far sì che venga riconosciuta come patologia come nella regione Lazio?

Credo sia fondamentale partire dalla sensibilizzazione del personale sanitario che se ne dovrebbe occupare e che spesso non vede o non riconosce il quadro patologico. Credo si tratti di un cambiamento culturale, non solo professionale e di aggiornamento. La maggioranza delle donne che ho incontrato arrivavano alla diagnosi dopo davvero troppo tempo, troppo dolore che a quel punto non è più soltanto fisico. Sono donne spesso trattate come se il loro sentire non meritasse alcun riconoscimento, neanche da loro stesse. Ho sentito tantissime volte frasi come “Forse sono io”, “Forse è una cosa di testa, “Magari è solo paura o solo una sensazione”. 

Per far sì che la vulvodinia venga riconosciuta come patologia invalidante e degna di essere inserita tra i LEA bisognerebbe anzitutto riconoscerla come un disturbo. Oltretutto è una patologia talmente frequente, da poterla considerare un problema sociale, socio-sanitario.

Credo inoltre che sarebbe utile creare presidi sanitari pubblici dedicati o creare convenzioni con chi se ne occupa, questo agevolerebbe la “caccia al tesoro” che tocca fare a tante donne per trovare professionisti competenti in materia. C’è ancora tantissima strada da fare, ma l’esempio della regione Lazio è un buon inizio.

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