4 Mar 2022

Ucraina: il Covid non ci ha insegnato niente? L’Italia torna a dividersi

Nel raccontare ciò che sta succedendo in Ucraina sentiamo l'esigenza di rivendicare maggiore consapevolezza. La polarizzazione vista in seno al dibattito in tempi di Covid si sta riproponendo, evidenziando un approccio da parte dei mass media e dell'opinione pubblica che rischia di distorcere il modo in cui viviamo e raccontiamo gli avvenimenti più importanti della nostra epoca.

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No. Due anni di pandemia non ci hanno insegnato proprio nulla. Lo dico da giornalista e da cittadino sempre più preoccupato per la deriva che stanno prendendo da un lato il nostro – e per “nostro” intendo italiano ed europeo – panorama massmediatico e, dall’altro lato, la capacità critica e analitica della nostra opinione pubblica.

Così come è stato per il Covid – a proposito, chi ne sente più parlare? –, anche per la tragedia della guerra in Ucraina i fatti sono stati tagliati con l’accetta, anabolizzati tramite massicce dosi di sensazionalismo e dati in pasto a fazioni già opportunamente predisposte, squadre ordinatamente schierate a centrocampo e pronte a iniziare la partita. 

Sono preoccupato nel notare inquietanti analogie fra il match novax Vs sìvax e quello noputin Vs sìputin. Da un lato infatti si condanna senza appello la politica militare russa omettendo di analizzare il contesto in cui si colloca, mentre dall’altro si arriva a biasimare i profughi ucraini perché “se la sono cercata”, perseguendo le minoranze russofone per anni e ora pagandone le conseguenze.

Come a volte accade, un’impacciata emotività prende il sopravvento oscurando tutto il resto. Da un lato è bello che sia così, perché solidarietà ed empatia sono da secoli l’ancora di salvezza di un’umanità che troppo spesso si è trovata sull’orlo del baratro. Ma questo nobile sentimento non può e non deve – a mio avviso – essere un modo per evitare un’analisi distaccata e consapevole del contesto geopolitico in cui la tragedia della guerra in Ucraina si colloca. Se non per altro, almeno per lo scopo di comprenderlo, correggerlo ed evitare che si ripeta.

ucraina
Foto Radio Popolare

I mass media danno il loro triste contributo alimentando faziose polarizzazioni che non aiutano certo l’analisi e la comprensione di ciò che sta succedendo. Un esempio? Repubblica coglie al balzo l’assist della Columbia University che ha fatto un’analisi dei “Putinversteher”, ovvero i sostenitori del Presidente russo. Ne viene fuori un grottesco profilo di sovranista trumpiano, grossolana generalizzazione che fa il paio con l’immagine dei “nazisti drogati” d’Ucraina con cui lo stesso Putin ha etichettato i suoi avversari.

Inevitabilmente, chiunque tenti di analizzare le cause dell’azione russa – non già con la pretesa di giustificarla, bensì allo scopo di comprenderla e collocarla in un contesto complesso – viene accusato di essere un Putinversteher, così come chi semplicemente empatizza con sfollati e povera gente dell’Ucraina investita dalla guerra deve sopportare le accuse di essere un “servo della NATO”.

Accusa curiosa, se consideriamo che giunge da un paese che ospita circa 120 basi militari NATO e/o dell’esercito americano, fra cui la principale base aerea del Mediterraneo – Aviano –, uno dei principali depositi di ordigni nucleari in Europa – Ghedi –, l’aeroporto militare con il più alto numero di decolli e atterraggi in Europa – Decimomannu –, il più grande deposito di munizioni dell’esercito americano in Europa – Camp Darby – e il quartier generale della NATO nell’area mediterranea – Ederle –, solo per citarne alcune. 

E ancora: non è facile analizzare la situazione interna in un paese – la Russia – che Reporter Senza Frontiere ha collocato in 150° posizione nella classifica mondiale relativa alla libertà di stampa. Alcune fonti parlano di più di 6000 arresti di manifestanti contrari alla politica militare di Putin. Il tutto mentre oltreoceano trionfa la più classica retorica americana, con cui Biden condisce il suo discorso al Congresso puntando forse – passatemi la malizia – più a risollevare l’indice di popolarità interna che a spaventare gli avversari esterni.

È il momento di crescere come opinione pubblica, acquisire consapevolezza e spirito critico, andare oltre la narrazione di facciata

Nel frattempo, prive della grande attenzione che invece meriterebbero, si susseguono molte notizie sugli “effetti collaterali” della situazione in Ucraina, come le scelte di politica energetica italiana o le modalità attraverso cui fronteggiare la crisi umanitaria e migratoria che si sta configurando in questi giorni. 

In conclusione, segnalo la lucida analisi del docente universitario e attivista per la pace Patrick Boylan, che spiega che «per fermare questa guerra, subito e senza sparare un colpo basterebbe che i politici e i generali pronunciassero le sei parole “Stop all’espansione NATO all’Est!”», centrando il punto e individuando quella che, con tutta probabilità, è stata la scintilla che ha fatto divampare l’incendio che arde oggi in Ucraina. 

Lungi dall’essere un Putinversteher – nel suo articolo specifica che «invadere un paese terzo, come ha fatto Putin, costituisce senz’altro una flagrante violazione del diritto internazionale e un attentato alla sovranità di uno Stato, da punire sì con severità» – Boylan offre al tempo stesso una chiave di lettura ragionata, una previsione plausibile di ciò che potrebbe accadere e una proposta di soluzione al conflitto. 

Deponiamo dunque le armi, siano esse un fucile o la tastiera di un computer. È il momento di crescere come opinione pubblica, acquisire consapevolezza e spirito critico, andare oltre la narrazione di facciata. Lo possiamo fare ripartendo dall’Ucraina. E se non lo facciamo, la parola più abusata di questi giorni rimarrà solo uno slogan vuoto e ipocrita, buono al massimo per un selfie in piazza con un colorato sfondo arcobaleno. 

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