2 Mag 2022

L’urlo di dolore di Taranto, ostaggio dell’ex Ilva: “Diciamo ai nostri bambini di non respirare”

Sono passati gli anni, sono cambiati i Governi, sono state disattese troppe promesse. A Taranto l'ex Ilva continua a uccidere e far ammalare la gente e le poche azioni di sostegno e assistenza non arrivano dallo Stato, che ha lasciato soli i cittadini. Tutto si svolge in base a un drammatico ricatto: lavorare per vivere. Ma la conseguenza è morire per lavorare.

Salva nei preferiti

Taranto, Puglia - “Nei giorni di vento nord/nord-ovest veniamo sepolti da polveri di minerali e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale Ilva; per tutto questo, gli stessi ‘maledicono’ coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare”. Firmato: i cittadini di via Lisippo, De Vincentis, Troilo, Savino. Agosto 2001.

Su una targa affissa in una zona del quartiere Tamburi, a Taranto, si leggono queste parole per ricordare quotidianamente lo scempio politico e ambientale che questa città vive da anni. Solo nel 2021 infatti è arrivata la sentenza di primo grado per il processo Ambiente Svenduto che ha condannato a 22 anni di reclusione Fabio Riva e a 20 anni Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva, per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

Sono tante le storie di dolore e di morte in questo quartiere. Italia che Cambia ha incontrato più volte i volti di coloro che portano avanti questa lunga e faticosa battaglia per rivendicare il diritto alla vita. Alcuni di loro sono stati anche protagonisti della puntata di Che ci faccio qui andata in onda sabato scorso, alla vigilia della festa dei lavoratori, su Rai3.

Il 1° maggio è appena passato. Come ogni anno si è parlato e manifestato per i diritti dei lavoratori. Nel caso dell’Ilva di Taranto è lecito chiedersi: di quali diritti stiamo parlando? Un lavoro che uccide può essere considerato un lavoro? Quali sono i provvedimenti che lo Stato italiano ha promosso per rimediare e tutelare i lavoratori e i cittadini di questa città?

«A Tamburi conta più l’acciaio che la salute, nessuno ci ascolta». Queste parole ben rappresentano lo stato d’animo e lo sconforto di chi vive da sempre quei luoghi. «Nessun Governo è stato mai dalla nostra parte – continuano gli abitanti – e attraverso numerosi decreti salva-Ilva è stata sempre bypassata la stessa legge nazionale, permettendo di mantenere l’attività dello stabilimento nonostante fosse ormai risaputo l’impatto sulla salute». Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia nel 2019.

Taranto vista sullIlva dal Mare Piccolo 2 1

Taranto è l’esempio di quel fenomeno definito all’estero come “razzismo ambientale”: molti ghetti neri di città americane sono stati scelti come luoghi dove costruire industrie altamente impattanti o discariche che i bianchi non avrebbero voluto. Allo stesso modo, a Taranto è permesso ciò che in altre città italiane non è più tollerato.

Grazie ad Alessandro Marescotti, insegnante di letteratura e storia, a metà degli anni ’90 si è cominciato a prendere coscienza di cosa fosse l’Ilva. Le foto di un operaio del piano della cokeria, il reparto più inquinante e inquinato dell’industria, diventano le prime prove di un processo che portò alla luce l’inquinamento da idrocarburi policiclici aromatici (IPA) diffuso nella città. In un turno di 8 ore, gli operai respiravano quantità di benzopirene – un IPA classificato nel gruppo 1 come cancerogeno per l’uomo – equivalente al fumo di 6-7000 sigarette. Ai tempi della gestione pubblica di Italsider equivaleva a 60.000 sigarette.

Marescotti e l’associazione Peacelink hanno cominciato a rendere note informazioni che fino ad allora non erano mai state fornite. Nel 2005 scoprono che il livello di diossina a Taranto corrisponde all’8,8% di tutta la diossina europea e al 90,3% della diossina emessa in Italia. Indagano per capire le conseguenze di livelli così assoluti. Analizzando il pecorino – molte greggi di pecore pascolavano nei dintorni dell’Ilva – si scopre che la contaminazione raggiunge livelli al di sopra di quelli previsti dalla legge anche nella catena alimentare. È necessario uccidere migliaia di animali e vietare il pascolo nel raggio di 20 chilometri dall’area industriale.

C’è una correlazione empirica precisa di causa effetto: se la fabbrica lavora meno si riscontrano meno patologie

Si comincia a fare luce su una verità tragica. Dal camino F112, il più grande d’Europa, fuoriesce una quantità di diossina paragonabile a quella emessa da 300 inceneritori, negli anni passati anche a 10.000 inceneritori. Una verità scomoda per molti tarantini cresciuti con l’orgoglio di avere nella propria città una delle acciaierie più grandi e importanti. Convinti che il contatto quotidiano con certi materiali non avrebbe provocato loro nessuna complicazione, non pensavano – o meglio non sapevano – che il processo di bioaccumulazione (l’esposizione a piccole dosi continuative) sarebbe stato letale nel tempo, provocando un avvelenamento silenzioso.

È così è stato. Come racconta Ignazio D’Andria, proprietario di un bar nella piazza di Tamburi, «si vedono più funerali che matrimoni. Al bar si parla di calcio, ma soprattutto di malattie. Ognuno di noi in famiglia ha qualcuno che soffre a causa dell’Ilva. Ormai non chiedo più: chi ha il dolore in casa capisce, non serve chiedere».

Si può vivere il lavoro come ricatto? Si può scegliere tra diritto al lavoro e diritto alla salute? Si può accettare di lavorare in uno stabilimento che provoca decessi per infortuni e/o per inquinamento? Si può accettare di pagare le cure per i propri familiari con i soldi guadagnati svolgendo un lavoro che causa ogni giorno lutti, dolori e malattie negli abitanti del quartiere?

Come riporta lo studio dell’equipe del professor Lucchini, i bambini che vivono vicino all’impianto dell’Ilva hanno un quoziente intellettivo più basso e una minore capacità di attenzione. Sono rallentati e hanno bisogno di maggior tempo per sviluppare determinate competenze. A Taranto si registra un +54% di tumori infantili rispetto ai dati della regione.

Impossibile credere che Tamburi, prima dell’Ilva, fosse il quartiere di Taranto con l’aria più salubre, con una distesa infinita di ulivi, dove si veniva a respirare aria pulita. Impossibile credere, come racconta Renato Vaccaro, che in passato ci si faceva raccomandare per essere assunti all’Ilva. Oggi si prega perché in ogni famiglia c’è un morto, malformazioni dei bambini alla nascita, malattie respiratorie, asme – anche in bambini con meno di un anno –, riniti, patologie gravi oncologiche, tumori cerebrali e leucemie.

A suo figlio Francesco, all’età di 6 anni è stata diagnosticata un’anemia emolitica autoimmune. È morto a 20 anni senza che nessuno sottoscrivesse la causa della malattia, ovvero l’inquinamento, nonostante fosse stata confermata in maniera implicita. Il dolore di questa famiglia è lo stesso di molte altre della zona. Una tragedia nella tragedia. Renato si sente colpevole per aver contribuito a questo scempio. Come un topo in gabbia rimasto intrappolato, non può permettersi di lasciare Taranto. Nessuno comprerebbe il suo appartamento a Tamburi valutato appena 19 mila euro.

ilva taranto
Il quartiere Tamburi

Molti bambini pagano il prezzo di una politica scellerata e di un sistema che mette al primo posto l’acciaio alla salute. Durante i giorni in cui soffia vento di tramontana è impossibile respirare al quartiere Tamburi. Grazie alle continue ricerche e alle analisi condotte da Marescotti e Fabio Matacchiera del Fondo Antidiossina – che hanno fornito i livelli di idrocarburi policromi presenti nell’aria senza mai essere smentiti – sono stati istituiti i wind days, ovvero i giorni in cui per la presenza di vento proveniente da nord/nord-ovest viene limitato il traffico, l’uscita dalle proprie case, la possibilità di recarsi a scuola.

La pediatra Giorgia Parisi racconta di «bambini di 8/10 anni che hanno la fobia del vento perché capiscono che può essere pericoloso. Visito bambini con depositi di minerali tra le dita delle mani o dei piedini. Anche nelle pieghe di un solo orecchio. All’inizio non capivo come mai si depositasse solo da un lato. Col tempo ho compreso quanto potesse essere dannoso camminare controvento. Mi chiedo che futuro possano avere i bambini nati, cresciuti e svezzati con un latte materno inquinato di diossina, in un quartiere dove non possono giocare, non possono andare a scuola».

«A volte diciamo loro di non respirare», continua la pediatra. «Intere generazioni distrutte. Dati scientifici accreditati parlano di una grande vulnerabilità psichica, mentale e fisica con malattie di vario tipo. C’è una correlazione empirica precisa di causa effetto: se la fabbrica lavora meno si riscontrano meno patologie. Siamo un caso di vergogna mondiale. Il nostro nemico è più forte di noi. È utile parlare e informare, ma a cosa serve? Serve a liberarci? Il senso di sconfitta è lancinante».

Rispetto ai primi anni sono migliaia gli abitanti che scendono in piazza a manifestare. Qualcosa è cambiato. Alessandro Marescotti non si è mai tirato indietro, neanche quando ha vissuto momenti difficili – fu tra i primi a fare analizzare le cozze tarantine che riportarono valori altissimi di diossina bloccando, tra le ire del sindaco di allora, le vendite del prodotto. Insieme a lui, Francesco Rizzo, Piero Mottolese – tutti i genitori che hanno perso i propri figli – ma anche Jorit, uno street artist che ha dipinto il volto di Giorgio, un ragazzino di 15 anni morto a causa dell’Ilva, diventato il simbolo di tutti i bambini di Tamburi.

taranto ilva
Lo street artist Jorit al lavoro

Grazie al progetto Ie Jesche pacce pe te (Io sono pazzo di te) di Ignazio D’Andria e dell’associazione Arcobaleno sono state vendute 70.000 magliette che hanno permesso l’apertura del reparto oncoematologico pediatrico all’ospedale di Taranto nel 2017. Un reparto che è diventato anche un presidio di democrazia in cui i genitori e i bambini si sentono accolti e possono confrontarsi.

Valerio Cecinati, primario del reparto, aiuta e sostiene quotidianamente numerose famiglie che vengono proprio dal quartiere vicino l’Ilva, dando loro speranza e conforto. «Questo reparto esiste grazie a una iniziativa popolare. A questa città è stato tolto tanto. Vivere qui e svolgere questo lavoro significa accettare sconfitte, ma tutte le volte che c’è una vittoria è una grande vittoria. Io ho deciso di fermarmi qui e di far crescere qui i miei figli perché è giusto così», racconta Cecinati.

Immaginate di non poter passeggiare per le vie del proprio quartiere a causa di un’aria malsana, di non poter affacciarsi al balcone ricoperto di polveri provenienti dall’Ilva, di vietare ai bambini di giocare perché la terra sotto ai propri piedi è perlopiù deposito minerario dello stabilimento vicino. A Tamburi questa realtà subentra all’immaginazione. Quante vite dovranno essere ancora sacrificate affinché tutto questo non faccia più parte del nostro presente?

Per commentare gli articoli abbonati a Italia che Cambia oppure accedi, se hai già sottoscritto un abbonamento

Articoli simili
Quanto inquinano web e digitale? – A tu per tu + #15
Quanto inquinano web e digitale? – A tu per tu + #15

Navi da crociera: ecco cosa è emerso dall’inchiesta sul loro impatto
Navi da crociera: ecco cosa è emerso dall’inchiesta sul loro impatto

Contro fast fashion e sfruttamento, a Cagliari un guardaroba gratuito, aperto e popolare
Contro fast fashion e sfruttamento, a Cagliari un guardaroba gratuito, aperto e popolare

Mappa

Newsletter

Visione2040

Mi piace

La Grecia vieterà la pesca a strascico, primo paese in Europa – #920

|

L’assalto eolico è ingiustizia climatica: le conseguenze sul patrimonio culturale sardo

|

Franco D’Eusanio e i vini di Chiusa Grande: “È un equilibrio naturale, noi non interveniamo”

|

L’arte collettiva del sognare: il social dreaming arriva in Liguria

|

Quanto inquinano gli aerei? Ecco cosa dicono i dati e le leggi

|

No border books, un kit di benvenuto per i piccoli migranti che approdano a Lampedusa

|

Intelligenza artificiale in azienda: ci sostituirà o ci renderà il lavoro più facile?

|

HandiCREA e il sogno di Graziella Anesi di un turismo accessibile e inclusivo

string(9) "nazionale"