2 Feb 2024

La missione di Michael Plant: “La felicità è una cosa seria. E io la misuro”

Scritto da: Fabrizio Corgnati

Un ricercatore in Filosofia a Oxford ha fondato lo Happier Lives Institute, un centro studi che si pone l’obiettivo di rispondere scientificamente alla domanda più antica ma anche più difficile del mondo: come facciamo a diventare tutti più felici? Lo abbiamo chiesto direttamente a lui, Michael Plant. Ecco cosa è venuto fuori.

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Agli inizi dell’800 il giurista e filosofo illuminista Jeremy Bentham ideò una corrente etica che sarebbe passata alla storia con il nome di utilitarismo. Al centro della sua dottrina stava il concetto del cosiddetto “calcolo felicifico”. In pratica, sosteneva l’inglese, prima di decidere di compiere qualsiasi azione bisogna porsi una semplice domanda: quello che sto per fare renderà le persone più o meno felici? La domanda è semplice in effetti, ma la risposta lo è molto meno: come si fa infatti a calcolare matematicamente la felicità? Chi deve prendere la decisione, sulla base di quale criteri, e come può fare questi conti in maniera precisa?

Due secoli più tardi, a risolvere questo problema ha deciso di provare un suo giovane collega e connazionale: Michael Plant, ricercatore in Filosofia dell’Università di Oxford con un’esperienza passata anche al parlamento britannico, che per studiare questi temi cinque anni fa ha fondato un istituto di ricerca di cui è anche direttore, l’Happier Lives Institute. «Le nostre ricerche combinano due idee piuttosto semplici», spiega ai microfoni di Italia che cambia. «Primo: che la felicità è una cosa seria, dobbiamo capire che è importante e cercare di misurarla. Secondo: che personalmente dobbiamo fare la maggior quantità di bene possibile nelle nostre vite. A quanto ne so, nessuno ha mai pensato di mettere insieme questi due concetti».

michael plant felicita
Michael Plant

Il principale metodo empirico per misurare la felicità è anche il più elementare che possiamo concepire: consiste nel domandare direttamente alle persone, attraverso un sondaggio, quanto si sentano soddisfatte della propria vita da 0 a 10. «Non è perfetto – mette le mani avanti Plant – ma coglie comunque degli aspetti significativi ed è scientificamente affidabile. Il World Happiness Report utilizza proprio questa metrica: l’Italia in particolare attualmente fa registrare 6,5 punti, due in meno della Danimarca». Un risultato appena sufficiente: sicuramente abbiamo molto margine di miglioramento.

Partendo da questo singolo dato grezzo si può poi sviluppare una lunga serie di considerazioni. In quali parti del mondo le persone si dichiarano più felici, ad esempio? Come varia la loro soddisfazione nel corso degli anni? E soprattutto, quali cambiamenti allo stile di vita degli individui producono un maggior impatto sulla loro felicità?

Domande alle quali Michael cerca una risposta ormai da quando era un ragazzino; per la precisione dai tempi del liceo, quando per la prima volta rimase folgorato dalle teorie di Bentham, che lesse su un manuale: «Mentre ero ancora a scuola scrissi un tema dal titolo: “I soldi fanno la felicità?”. Quello che scoprii fu che in realtà il denaro non sembra fare una grossa differenza. Quanto al mio professore di Economia invece, lui quando lesse il mio elaborato non mi sembrò particolarmente felice…».

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Già, i soldi. La nostra società contemporanea è tutta costruita sul presupposto culturale secondo cui la crescita economica equivalga automaticamente a un maggior benessere per tutti, dunque sia il principale obiettivo che ogni nazione è chiamata a inseguire – come ogni individuo, d’altra parte. Eppure, proprio come aveva intuito il giovane Plant, gli studi più recenti hanno messo seriamente in discussione questo paradigma. «Una delle formulazioni che più mi hanno colpito – racconta oggi – è il cosiddetto paradosso di Easterlin: di media gli individui e le nazioni più ricche sono più felici di quelli più poveri. Eppure nel tempo, pur continuando ad arricchirsi, la loro felicità non sembra variare di molto». 

Migliorare le proprie condizioni materiali è sicuramente un risultato desiderabile, ma il punto è che da solo non è sufficiente. Non basta raddoppiare il nostro estratto conto in banca o il fatturato della nostra azienda per raddoppiare il livello della nostra felicità. Una consapevolezza che, magari gradualmente ma comunque irreversibilmente, si sta diffondendo non solo nella ristretta cerchia dei ricercatori come Michael, ma anche nel grande pubblico, persino tra le classi dirigenti. «Mi sembra che stia avvenendo un cambiamento autentico, un allontanamento dalle questioni legate al Pil – spiega –, le persone si stanno rendendo conto che l’attenzione esclusiva alla ricchezza non sta contribuendo granché alla loro felicità».

E allora – si chiede Michael – se arricchirci non basta, su cos’altro dovremmo concentrarci? Quali sono le misure concrete più efficaci per aumentare la felicità collettiva? «Sono domande che l’umanità si pone dai tempi di Aristotele, l’aspetto entusiasmante è che ora siamo sul punto di misurarlo scientificamente». Questo è esattamente il compito di cui si è incaricato il suo istituto: «L’Happier Lives Institute cerca proprio di valutare l’impatto degli interventi pubblici in termini di soddisfazione di vita. Non so cosa stia accadendo in Italia, ma in Gran Bretagna il ministero del Tesoro ha recentemente approvato, almeno in linea di principio, il progetto di introdurre questa misurazione nei conti pubblici. Lo ritengo un passo nella direzione giusta».

Quali sono le scoperte a cui è giunto l’istituto all’esito di questi suoi primi – e inevitabilmente ancora incompleti – anni di studi? «Non siamo ancora arrivati a elaborare un piano strutturato, ma posso dare alcune suggestioni. Ad esempio, prestare più attenzione alla salute mentale, che ha ricadute molto gravi. Se si tiene in considerazione solo il reddito non si coglie per niente questa sofferenza silenziosa. Dai numeri abbiamo scoperto che curare la depressione delle persone si è rivelato sei o sette volte più efficace rispetto a donare loro dei soldi, persino quando a riceverli è un povero che vive in un Paese in via di sviluppo. Anche a me sembra difficile da credere, eppure i dati di fatto ci dicono questo».

fiori felicita

C’è poi il tema della disoccupazione, uno dei fattori più importanti per la soddisfazione di vita: «Non si tratta solo di trovare un lavoro qualsiasi – precisa Plant –, bensì anche della sua qualità: l’autonomia, la competenza, lo scopo. Non ha senso forzare le persone a lavorare purchessia, semmai occorrerebbe accompagnarle alla ricerca del lavoro giusto per loro. Poi abbiamo notato il valore importante del volontariato, degli spazi verdi, e potrei andare ancora avanti».

Dunque, se siete i primi ministri di una grande nazione industrializzata – e se avete autenticamente a cuore il benessere dei vostri cittadini, un punto che quando si tratta dei nostri politici non possiamo sempre dare per scontato –, prendete appunti: magari stanziare nella manovra del prossimo anno qualche milione di euro in più per il finanziamento di programmi di cure psicologiche o di orientamento al lavoro – quello vero – potrebbe non essere una cattiva idea. Ma anche se non ricoprite una carica pubblica, da ciò che ha scoperto Michael con il suo istituto potete trarre qualche spunto interessante: magari non per cambiare il mondo, ma il vostro mondo certamente sì.

Una delle formulazioni che più mi hanno colpito è il cosiddetto paradosso di Easterlin

Qualche semplice regoletta pratica che lo stesso ricercatore ha imparato in questi anni ad applicare alla sua vita quotidiana c’è: «Uno degli aspetti che mi hanno colpito di più è lo straordinario potere di adattamento degli esseri umani. Un grosso colpo di fortuna o di sfortuna, diciamo una vincita alla lotteria o un incidente che provoca una disabilità, ha un enorme impatto iniziale sulla  felicità, ma poi questo effetto tende a ridursi nel tempo, proprio perché ci adattiamo. Quello a cui non ci abituiamo mai invece sono le relazioni, le attività che svolgiamo, ciò a cui dedichiamo il nostro tempo».

«Ecco perché incoraggio sempre le persone a prestare attenzione alle proprie esperienze», conclude Michael Plant. «Magari abbiamo accettato un posto di lavoro perché ci piace lo status sociale che ci garantisce o frequentiamo un amico solo perché ormai lo conosciamo da anni, ma non ci soffermiamo quasi mai a chiederci quanto veramente queste scelte ci rendano più o meno felici. Durante una lezione all’università mi diedero questo consiglio: fai più cose che ti piacciono e meno cose che non ti piacciono. Appena ho sentito questa banalità stavo per chiedere il rimborso della quota d’iscrizione. Poi mi ci sono soffermato più a fondo e mi sono reso conto che, pur non essendo un’idea straordinariamente innovativa, era proprio vera».

Leggi anche la nostra intervista al direttore del Gross National Happiness Centre.

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