Salute mentale in Calabria: il Progetto Gedeone rompe gli schemi di chi non ha schemi
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Catanzaro - Gedeone è un antico soprannome ebraico usato dagli israeliti per alludere a un difetto fisico – e infatti significa “monco” –, ma per altre fonti potrebbe significare “che spezza, che abbatte”. Il progetto che porta questo nome è nato nel 1991 a Lamezia Terme per cercare di dare una risposta ai bisogni dei minori tra gli 8 e i 16 anni che vivono in una realtà sociale ed economica particolarmente degradata.
Fondato dall’’Associazione di Volontariato Comunità Santi Pietro e Paolo, Gedeone ha come obiettivo la creazione di una impresa sociale che rivesta una duplice funzione. La prima è offrire opportunità di inserimento lavorativo a persone che vivono in situazioni di disagio economico-sociale e/o psichico sperimentando nuovi percorsi lavorativi, in agricoltura forestazione, turismo sociale e valorizzazione beni ambientali. Ma soprattutto vuole essere un luogo di integrazione e di riferimento per la collettività dove i soggetti disagiati svolgano un ruolo da protagonisti, abbattendo così i pregiudizi inerenti il disagio.
Il criterio guida per questi volontari è stata sempre la consapevolezza che «un percorso di recupero riabilitativo sociale, non può limitarsi solo alle fasi acute del disagio», spiega il presidente Antonio Mangiafava, che preferisce essere chiamato “animatore sociale” della sua associazione. «Dopo aver risolto le esigenze “primarie”, l’inclusione e quindi anche il lavoro sono un passaggio obbligato per un inserimento nella vita collettiva perché essendo la società attuale molto competitiva – avendo sposato un modello consumistico – costringe chi è senza lavoro all’esclusione sociale alimenta la spirale che è causa del disagio».
E proprio per spezzare questa spirale il progetto ha messo in piedi la Fattoria Laboratorio Sociale Gedeone, racconta Mangiafava, «per sensibilizzare la comunità, superare stigma e pregiudizio, diffondere una corretta informazione, favorire la prevenzione e l’orientamento alla cura e sostenere le persone che soffrono di disturbi della salute mentale e le loro famiglie nel percorso di recupero del benessere e della pienezza di vita».
L’avvio risale a ormai dieci anni fa, quando grazie alla disponibilità iniziale di piccoli appezzamenti di terreno di alcuni volontari viene identificata un’area a Decollatura, in montagna, a 25 chilometri dalla città. L’area è l’Abbazia di Corazzo: otto ettari nel cuore della Sila piccola catanzarese, nel Comune di Carlopoli, in provincia di Catanzaro. Un luogo storico, in cui Gioacchino da Fiore ha avuto la sua prima vocazione e successivamente ne è diventato abate, ha scritto le sue opere più importanti e ha maturato l’idea di fondare la nuova congregazione di San Giovanni in Fiore, ovvero l’ordine florense.
Per dieci anni, con l’obiettivo di avviare un’impresa sociale e riqualificare l’abbazia, il progetto ha preso la forma di una foresteria capace di accogliere 30 persone, di orti con piante officinali e di iniziative di turismo sociale e culturale, sperimentando alcune coltivazioni come lo zafferano, percorsi di escursionismo e l’allevamento di asini. «Non si tratta di un modo per avere operai gratis per un agricoltore!», scherza Antonio. «La multidisciplinarità dell’agricoltura riabilita in maniera naturale, perché è la realtà che ti aiuta a uscire dalla malattia. E questo progetto fa dell’accoglienza mista, turistica e riabilitativa, la sua caratteristica».
Una bellissima storia che nel 2017 incontra però un grosso ostacolo quando l’ASP decide di riprogrammare i servizi e chiude il Centro di salute mentale di Decollatura. È una vicenda, questa, collegata a quella dei lavoratori reggini che vi abbiamo raccontato qualche settimana fa. Quando la Regione rimodula la programmazione 2012-2019 decide di chiudere alcuni centri diurni per aprirne sei nel reggino, dove non ce n’era nessuno, ma tra quelli chiusi c’è anche Decollatura. Per la cronaca, a Reggio nessun centro diurno è stato aperto e l’assistenza psichiatrica continua a pesare sule spalle delle cooperative, nonostante il sacrificio di Decollatura e delle altre province.
«A quel punto abbiamo cercato di replicare l’esperienza a Lamezia, dove abbiamo dovuto ricominciare a scontrarci con la formalità. Pensa che a Decollatura il direttore del Centro non indossava nemmeno il camice!», continua Antonio. «L’inclusione sociale è molto informale, specie se parliamo di salute mentale. «Qui in città stiamo innestando uno sportello per adulti del disagio e del ritardo mentale, sono perlopiù cinquantenni, ma siamo consapevoli che bisogna attenzione anche i minori: i bambini autistici di oggi, per esempio, domani saranno adulti che tra 5/6 anni troveranno il deserto».
Sabato 10 febbraio a Lamezia, in via Milite Ignoto 53, è stato infatti inaugurato lo sportello Gedeone Empowerment, un progetto che unisce differenti realtà associative e professionali per creare un ponte tra le istituzioni e i beneficiari dei servizi. «Dopo dieci anni di presenza sullo stigma della salute mentale abbiamo deciso di intervenire sulla prevenzione, in particolare sull’esordio della malattia con particolare riferimento alla comorbilità e cioè a quei casi in cui sono presenti doppie diagnosi e che sono sempre più frequenti».
Chiedo ad Antonio di farci un esempio. «Per esempio la dipendenza da giochi – risponde – spesso è anche legata a piccole depressioni o incapacità relazionali, la stessa cosa si può dire sull’alcolismo che spesso matura in presenza di altre forme di disagio. Vogliamo aiutare le famiglie a comprendere che prima iniziano a occuparsene, a leggere i segnali, prima riusciamo a intervenire. Noi vorremmo offrire questo ponte per dialogare e costruire una filiera, perché siamo convinti che se creiamo “economia civile”, lo Stato ci guadagna e le nostre città migliorerà il benessere».
Da decenni il Progetto Gedeone offre supporto alla comunità lametina, eppure non sono poche le difficoltà. Tanto per cominciare tutte le attività vengono svolte senza finanziamenti, eccezion fatta per i circa 3000 euro raccolti grazie al 5×1000, poi il resto è costituito da risorse proprie. «Non abbiamo nessun collegamento diretto con l’ASP, tantomeno un sostegno», precisa Mangiafava.
«E poi il Covid ha rallentato tutto, per noi è stato come uno “scollamento” perché la nostra progettazione è completamente saltata. Quello che avevamo pensato nel 2019 era da cancellare, non bastava rimodulare. E non solo per gli effetti della pandemia, ma anche perché il contesto calabrese sta cambiando. Adesso non siamo i soli a parlare di integrazione socio-sanitaria, lo fa anche la politica e – anche se spesso non sa di che parla – registriamo un cambiamento, fermi restando i problemi di sempre, come la carenza di personale e risorse».
Ma c’è un aspetto più profondo che rende complicata la vita dei volontari nel settore della salute mentale: «L’amministrativo continua a prevalere sul sociale, non fosse altro perché assorbe di più. L’urgenza non ci permette di programmare, facciamo cose bellissime in emergenza, ma non riusciamo a costruire una filiera», confessa il presidente. «Occorre rompere gli schemi di chi non ha schemi, del resto le scoperte scientifiche si fanno uscendo dagli schemi, andando oltre lo stigma del ruolo».
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