14 Mar 2023

Banche, effetto domino? – #688

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Il fallimento della Silicon Valley bank negli Usa, seguito da quello di altri due istituti sta trascinando in basso i mercati finanziari di tutto il mondo occidentale. Siamo di fronte a una situazione simile a quella del 2008? Oppure no? Cerchiamo di capirlo. parliamo anche della scelta di Biden sul petrolio, dei profitti record della compagnia petrolifera Saudi Aramco nel 2022 e infine della Scozia che bandisce una secolare tradizione di caccia alla volpe.

Ne accennavamo ieri, più come dubbio che come certezza. Vuoi mica che succede di nuovo? Vuoi mica che il fallimento di una banca negli Stati Uniti genera una slavina su tutto il settore finanziario mondiale?

Premetto che ancora è presto per dirlo, però il fallimento della Silicon Valley Bank, seguito da quello di Silvergate e di Signature Bank sta già causando parecchie ripercussioni sui mercati internazionali e sul settore bancario.

Vediamo meglio che cosa è successo, ripercorrendo la vicenda dal principio. Scrive Valentina Neri su Valori:

“È successo tutto nell’arco di pochi giorni, anzi, di poche ore. Silicon Valley Bank (SVB), la banca delle startup californiane, si è trovata a corto di liquidità. Prima ha svenduto parte del suo portafoglio, poi ha messo sul mercato azioni proprie per 2,25 miliardi di dollari. Manovre che hanno scatenato un fuggi fuggi dei risparmiatori, facendo crollare il valore delle sue azioni. Così, nella giornata di venerdì 10 marzo, le autorità statunitensi hanno chiuso l’istituto, decretando il suo fallimento. Il più rilevante dai tempi della crisi finanziaria globale del 2008.

La sede centrale di Silicon Valley Bank e le sue 17 filiali tra California e Massachussetts riapriranno regolarmente, così come i servizi di home banking. La differenza sta nel fatto che a gestirle sarà un istituto creato ad hoc, chiamato Deposit Insurance National Bank of Santa Clara (DINB). L’agenzia ha il mandato di assicurare i depositi bancari fino a 250mila dollari. Circa il 90% dei depositi di SVB supera tale soglia: ma lo Stato americano proteggerà anche loro. Nessun salvagente in vista, invece, per chi detiene azioni o obbligazioni non garantite.

Tutto questo avverrà senza pesare sui contribuenti americani, assicurano la Federal Reserve, la FDIC e il dipartimento del Tesoro attraverso un comunicato congiunto. A coprire i costi sarà infatti il Deposit Insurance Fund, finanziato attraverso gli interessi sui fondi investiti in titoli di Stato e le commissioni trimestrali pagate dagli istituti finanziari assicurati dalla FDIC. Insomma, stavolta sono le banche a pagare, non i cittadini.

Al 31 dicembre 2022, Silicon Valley Bank disponeva di asset per 209 miliardi di dollari e di depositi per 175,4 miliardi. Bisogna tornare indietro fino al 2008 per risalire a un precedente di questo calibro. All’epoca a fallire era stata Washington Mutual e i suoi asset ammontavano a 307 miliardi di dollari. Peraltro, il tracollo di SVB arriva praticamente in contemporanea con quello di altre due banche, entrambe legate a doppio filo al mondo delle criptovalute. Prima è stato il turno di Silvergate, dopo pochi giorni quello di Signature. Per quest’ultima le autorità americane hanno scelto lo stesso approccio: tutelare tutti i depositi, indipendentemente dall’importo.

Siamo quindi di fronte a una preoccupante replica del tracollo di Lehman Brothers, lo stesso che ha mandato a gambe all’aria il sistema finanziario globale per anni? Fed, FDIC e dipartimento del Tesoro assicurano che non è così. «Il sistema bancario statunitense rimane resiliente e basato su solide fondamenta, in gran parte grazie alle riforme apportate dopo la crisi finanziaria che hanno garantito migliori tutele per il settore bancario», scrivono”.

Insomma, il governo americano sta facendo di tutto per rassicurare i mercati sul fatto che non siamo di nuovo di fronte all’inizio di una crisi finanziaria come quella del 2008. E i mercati? Come stanno reagendo?

Vi leggo qualche titolo di Repubblica.it di ieri: “Crollano le banche in Europa. Milano la peggiore -4%, su lo spread. Il caso oggi all’Eurogruppo”, “Valanga di vendite sulle banche europee. Come si stanno muovendo gli investitori”, “Il forte intervento del governo Usa sulla Svb non è bastato a scongiurare il timore dei mercati”.

Ora, proviamo a fare qualche ragionamento e capiamo quello che sappiamo. L’innesco è simile a quello di Lehman Brothers. Una banca importante (meno di Lehman Brothers, ma comunque importante) va in crisi e fallisce. Quello che successe allora, e che in parte sta succedendo anche adesso, è che quando fallisce una banca chi ha delle azioni o obbligazioni di quella banca si trova con in mano della carta straccia. E visto che spesso sono altre banche le principali investitrici di una banca, è possibile che altre banche si trovino con dei grossi scompensi interni. E che quindi anche le loro azioni perdano di valore, generando un effetto domino. 

Questo effetto poi, spesso, viene aggravato da un’altra tendenza che si verifica in questi casi, che è la cosiddetta corsa agli sportelli. Se io ho dei risparmi in una banca e ho il sospetto che quella banca stia entrando in crisi, corro a prelevare il più possibile, innescando una crisi di liquidità nell’istituto (perché le banche non hanno mai, fisicamente, tutti i soldi che vengono depositati, ne tengono solo una piccola percentuale). Ora, il governo Usa ha voluto evitare l’effetto di corsa agli sportelli assicurando tutti i correntisti, ma non può fare molto nei confronti dell’esposizione delle altre banche.

Il nostro problema, al momento, è che nessuno sa quali e quante sono queste esposizioni. Dopo la crisi del 2008 si è parlato a lungo della fragilità di un sistema bancario troppo interconnesso, ma si è fatto davvero qualcosa per migliorarlo? È diminuita, e di quanto, l’esposizione reciproca del sistema bancario? Ecco, questo non lo sappiamo, e non lo sanno nemmeno i mercati che quindi reagiscono con questo panico immediato. I prossimi giorni ci diranno se e quanto il sistema bancario mondiale (perlopiù occidentale) terrà botta.

Torniamo a parlare di petrolio, dove Joe Biden è atteso a una sorta di prova del nove del suo impegno climatico. Domenica sera Biden ha annunciato nuove misure per vietare le trivellazioni di petrolio e gas nell’Oceano Artico e limitare le trivellazioni terrestri in Alaska.

C’è però una questione molto pratica in ballo che mostrerà se le intenzioni di Biden sono serie oppure no. Infatti è attesa in questi giorni la decisione finale sull’approvazione, o meno, del progetto di estrazioni di petrolio da un nuovo enorme giacimento, proprio nello Stato dell’Alaska.

Riporta il Guardian che “I piani annunciati domenica sera da Biden impediranno le trivellazioni in quasi 3 milioni di acri del Mare di Beaufort – chiudendolo all’esplorazione petrolifera – e limiteranno le trivellazioni in più di 13 milioni di acri in una vasta fascia di terra conosciuta come Riserva Petrolifera Nazionale dell’Alaska.

Queste mosse arrivano mentre le autorità di regolamentazione si preparano ad annunciare una decisione finale sul progetto Willow da 8 miliardi di dollari, un controverso piano di trivellazione petrolifera spinto dalla ConocoPhillips all’interno di quella stessa riserva petrolifera. Gli attivisti per il clima si sono scagliati contro il progetto, definendolo una “bomba di carbonio” che tradirebbe le promesse fatte da Biden in campagna elettorale di limitare le nuove trivellazioni di petrolio e gas.

Nel frattempo, i legislatori, i sindacati e le comunità indigene dell’Alaska hanno fatto pressione su Biden affinché approvasse il progetto, affermando che avrebbe portato posti di lavoro necessari e miliardi di dollari in tasse e fondi di mitigazione. 

La decisione di Biden su Willow sarà una delle sue decisioni più importanti in materia di clima e arriva mentre si prepara a una probabile rielezione nel 2024. La decisione di approvare Willow rischia di allontanare i giovani elettori che hanno sollecitato un’azione più incisiva sul clima da parte della Casa Bianca e hanno inondato i social media con richieste di fermare il progetto Willow. L’approvazione potrebbe inoltre scatenare proteste simili a quelle contro il fallito oleodotto Keystone XL durante l’amministrazione Obama.

Il rifiuto del progetto incontrerebbe una forte resistenza da parte della delegazione bipartisan del Congresso dell’Alaska, che nei giorni scorsi si è incontrata con alti funzionari alla Casa Bianca per fare pressione a favore del progetto.

Insomma, come al solito seguiremo la questione. Se nel frattempo incontrate Biden per strada, ditegli “Io non mi rassegno”. Lui capirà e farà la cosa giusta.

Diversi giornali in questi giorni riportano la notizia dei profitti record di Saudi Aramco, l’azienda di proprietà perlopiù statale dell’Arabia Saudita, che nel 2022 ha registrato un utile record di 161 miliardi di dollari. Di utile, non di fatturato. Si tratta del più grande profitto annuale mai registrato da una compagnia petrolifera nella storia.

Spiega sempre il Guardian, stavolta l’articolo è firmato da mark Sweney, che “I profitti dell’azienda sono aumentati del 46% rispetto all’anno precedente e hanno superato i recenti risultati record di Shell, BP, Exxon e Chevron messe insieme.

Le origini di questo record vanno ricercate nell’aumento dei prezzi del petrolio dovuto all’aumento della domanda in tutto il mondo, alla guerra in Ucraina, all’impennata dei prezzi dell’energia.

Il trend positivo è comune a tutte le compagnie petrolifere, ma i numeri di Saudi Aramco sono impressionanti. I profitti dell’azienda per l’anno scorso sono quasi il triplo di quelli di Exxon (56 miliardi di dollari) e più di quattro volte quelli di Shell (39,9 miliardi di dollari), Chevron (36,5 miliardi di dollari) e BP (27,7 miliardi di dollari), la maggior parte delle quali sta registrando livelli record.

Attualmente Saudi Aramco è la seconda società quotata in borsa di maggior valore al mondo dopo Apple. La società ha ribadito che continuerà a investire per aumentare la sua capacità produttiva massima potenziale a 13 milioni di barili al giorno entro il 2027.

Ovviamente tutto ciò ha sollevato una pioggia di critiche e tante polemiche sul fatto che una società faccia profitti così alti in un settore che è la principale causa della crisi climatica, che a sua volta è al momento la principale minaccia alla sopravvivenza della nostra specie su questo pianeta. 

Il che è del tutto condivisibile, al tempo stesso l’aumento della domanda non l’ha decisa l’Arabia saudita. L’ha generata il resto del mondo. E non si tratta solo delle sanzioni alla Russia. Temo, non ne ho la certezza ma temo, che la nuova corsa agli armamenti stia giocando un ruolo importante in tutto ciò. Sappiamo che l’industria bellica è molto impattante dal punto di vista climatico.

Ad ogni modo, sarà interessante seguire Cop28 negli Emirati Arabi, per vedere come i paesi del golfo intendono posizionarsi a livello di politiche di decarbonizzazione. 

Chiudiamo con una notizia interessante che ci arriva dalla Scozia. Ne scrive Rosita Cipolla su GreenMe. “In Scozia si è appena chiusa l’era di uno degli eventi più controversi e sanguinari di sempre: Lanarkshire & Renfrewshire Hunt, la caccia alla volpe che si teneva da ben 252 anni nelle due contee centro-occidentali del Paese. I membri del club hanno organizzato l’ultima battuta lo scorso 4 marzo nei boschi della città scozzese di Houston.

Ma si è trattato più di un evento simbolico, gli stessi organizzatori hanno infatti rassicurato che nessun animale è stato ucciso. Per le associazioni animaliste che da tempo si opponevano a questa crudeltà si tratta di una grande battaglia vinta.

Questa vittoria sismica arriva solo un mese dopo che la legge di Hunting with Dogs Scotland Bill è stata approvata. – commenta l’Ong Glasgow Hunt Sabs, che da anni porta avanti azioni di sabotaggio nei confronti dell’attività venatoria.

La storica legge Hunting with Dogs Bill è entrata in vigore in Scozia proprio negli scorsi giorni dopo essere stata approvata a gennaio. La nuova normativa ha messo al bando l’utilizzo di più di due cani per cacciare, salvo eccezioni che richiederanno una licenza. Inoltre, è stato vietata la pratica legata allo sfruttamento di una muta di cani che seguono le tracce della volpe o di un tampone impregnato dell’urina dell’animale. Ciò ha rappresentato il colpo di grazia per quei club che erano soliti impiegare da decenni branchi di segugi per trovare e uccidere animali selvatici come le volpi.

L’associazione Glasgow Hunt Sabs ha fatto sapere che anche un’altra popolare battuta di caccia – la Fife Foxhounds  – non avrà più luogo in Scozia. Non ci fermeremo finché la caccia alla volpe in Scozia non sarà consegnata ai libri di storia una volta per tutte. – annunciano gli attivisti.

Insomma, il Regno Unito si conferma all’avanguardia nelle leggi a tutela della fauna selvatica, e sembra che queste leggi stiano iniziando a dare i loro frutti. Possono sembrare piccole cose, a sono il segno dei tempi che cambiano. In fretta.

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