12 Set 2023

Nuovi spari a Caivano: e se applicassimo il modello Scampia? – #789

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Torniamo a parlare della situazione a Caivano, il comune del napoletano teatro di recenti fatti di cronaca e diventato esempio di degrado e criminalità. Lo facciamo sia per aggiornarci sugli ultimi fatti di cronaca, sia perché ho trovato un contributo molto interessante che racconta la storia di quel luogo, fuori dagli stereotipi. Parliamo anche del terremoto in Marocco e del governo marocchino che sembra intenzionato ad accettare solo pochi aiuti, dell’uragano Daniel che potrebbe aver causato circa 2000 morti in Libia, del governo della Tanzania che rifiuta a una delegazione europea di visitare i territori Masai e del quartiere più ecologico d’Europa, a Friburgo.

Prima di cominciare, devo porgere delle sentite scuse al professor Paolo Pileri perché nella serie di messaggi concitati che ci siamo scambiati via Whatsapp sulla questione cementificazione in Emilia Romagna, mi sono perso un passaggio fondamentale. Non ho chiesto al Professore l’autorizzazione ad utilizzare un estratto di quella conversazione per la puntata di INMR. Ecco, visto che ieri parlavo anche di etica professionale, ecco, è un passaggio fondamentale, e la mia è stata una dimenticanza grave, di cui mi scuso profondamente.  

Oggi però parliamo di altro. Torniamo a parlare di Caivano, il comune a due passi da Napoli teatro di una serie di stupri di gruppo ai danni di due adolescenti. Ne parliamo perché sempre a Caivano, e sempre nel quartiere di Parco verde, principale piazza di spaccio d’Europa, nonché feudo camorrista, ci sono stati nuovi raid e sparatorie, ma anche perché abbiamo ricevuto un articolo molto interessante che spiega la situazione di quel territorio da un altro punto di vista.

Partiamo con i fatti di attualità. Dopo gli stupro di gruppo, Caivano è rimasta per molti giorni al centro della cronaca nostrana, perché improvvisamente la politica sembra essersi accorta di quel problema. Al punto che la Premier Giorgia Meloni si è recata personalmente a Parco Verde, ricevendo anche delle minacce,e che il governo ha approntato un decreto contro la criminalità minorile chiamato Decreto Caivano.

Al Parco Verde però, almeno per adesso, la situazione non sembra essere molto migliorata, anzi. Nella notte fra domenica e lunedì, e poi di nuovo ieri mattina sono stati esplosi molti colpi d’arma da fuoco nel corso di due raid che ha provocato terrore e paura nella zona. Non sembrano esserci feriti, ma ovviamente si respira un clima di tensione. 

Nella giornata di ieri il parroco del quartiere maurizio Patriciello ha dichiarato a Rtl 102.5: “Ci sono persone mascherate che arrivano in moto ad alta velocità con i kalashnikov sulle spalle e sparano all’impazzata. Il quartiere va nel terrore, basta poco per morire colpito da un proiettile vagante. È pericoloso, qualcosa di inconcepibile. Le forze dell’ordine in questi giorni si stanno facendo in quattro, ma queste persone volano alla velocità della luce, avviene tutto in fretta e poi scappano via. La gente è nuovamente entrata nel terrore, è la terza volta che accade un episodio simile da quando a Caivano è venuto il presidente del consiglio. Io leggo questa cosa come una sfida allo Stato. Come se volessero dire che non hanno paura dello Stato, questa è la chiave di lettura”.

Intanto il Ministero degli Interni fa sapere di aver previsto a breve un aumento del 20% delle  forze dell’ordine nel territorio di Caivano.

Ma come si è arrivati a questa situazione da far west? E quali possibili soluzioni abbiamo? E ancora, esistono esempi virtuosi nel quartiere al momento più citato come esempio di degrado? Se vi ricordate, ci facevamo le stesse domande qualche giorno fa. Le riprendo perché nel frattempo ci è arrivato, attraverso Barbara Pierro di Chi rom e chi no e Chiku a Scampia, un articolo illuminante da questo punto di vista della scrittore Maurizio Braucci, che scrive: 

“Trovo ipocrita che si parli adesso del Parco Verde di Caivano come di un luogo dell’orrore quando negli anni passati è già stato teatro di numerosi episodi di grande crudeltà, specie verso donne e bambini. Ma la speranza che la sofferenza di chi ci abita (non quella delle famiglie camorristiche o dei politici che ci vanno per nutrirsi di voti) si possa almeno ridurre, mi fa accettare persino la visita in quel quartiere di Giorgia Meloni. Certo, mi dico, al di là del suo ruolo istituzionale, è strano pensare a come il taglio del reddito di cittadinanza, le energie e la propaganda spese contro i migranti anziché contro la lotta alla povertà, le manovre finanziarie che creano agevolazioni per i più ricchi con la motivazione di far ripartire l’economia, insieme alla riduzione delle risorse per il Sud attraverso le autonomie differenziate, come queste politiche possano essere coerenti con la sua visita al Parco Verde. 

Il nome Parco Verde fu inventato a metà degli anni ’80 dalle famiglie trasferite qui a causa del grande terremoto di pochi anni prima, cittadini che si organizzarono in comitati di gestione, distrutti poi dall’intervento dei partiti che erano interessati solo al bacino di voti e che crearono divisioni (e corruzione) tra loro. Al Parco Verde (ma cosa dire del vicino Rione Iacp?), le cattive intenzioni hanno sempre trovano supporto e terreno fertile, quelle buone invece se la sono vista da sole e contro mille ostacoli. 

La piccola borghesia che lo abita vi racconterà che gli autobus ci passano di rado e che per ogni servizio pubblico devi andare altrove, tanto che per loro è diventata solo una zona dormitorio dove tornare la sera. Le scuole sono da sempre sottodotate, i loro progetti di inclusione ostacolati da mille cavilli burocratici, tanti insegnati accettano di venirci giusto il tempo per ottenere una nuova collocazione perché qui non ci vogliono stare. La buona volontà di alcuni non è mai mancata, ma ha prevalso la collusione tra la politica locale e la criminalità arricchita dagli introiti dello spaccio e che dà lavoro ai più miseri. Se il Parco Verde, e altre zone simili in Italia, sono così è perché qualcuno ne trae vantaggio, questo nessuno me lo toglie dalla testa. 

Mi ha colpito che il Prefetto di Napoli ha citato alla Meloni il “modello Scampia” come riferimento per il quartiere di Caivano che la Premier ha detto di voler “bonificare”. Quel supposto modello attuato nella periferia nord nacque all’indomani della guerra di camorra del 2005 ed effettivamente ha portato, fino a un certo punto, dei grossi risultati. Cosa lo ha caratterizzato? 

La riduzione del controllo criminale del potente clan Di Lauro, sterminato anche dalla faida oltre che dagli arresti, l’attenzione mediatica e l’analisi intellettuale costante, la presenza di un centro sociale come il Gridas che da 40 anni forma degli operatori sul campo, l’aver portato costantemente il resto della città in quella periferia per partecipare a iniziative socioculturali volute da associazioni e parrocchie del quartiere, la creazione di progetti di qualità che durano da quasi vent’anni rivolti agli adolescenti, il supporto istituzionale (ora purtroppo calato) a tutto questo. 

A Scampia tutti quelli dotati di buona volontà, soggetti anche molto diversi tra loro, avevano un obiettivo comune e lo hanno mandato avanti innanzitutto dal basso, ognuno a modo proprio, mossi da un grande ideale di cambiamento. Anche al Parco Verde serve questo, chi opera in questo quartiere sa già cosa fare, bisogna agevolare e potenziare le loro attività, creare rete, riaprire gli spazi abbandonati (l’auditorium ad esempio), portarci il resto della città e far partecipare la gente che lì oggi vive nel terrore, trasmettendo ottimismo e creando opportunità soprattutto per le generazioni più giovani. 

Tutto questo sarebbe il minimo, ma resterebbero ancora le questioni della grande disoccupazione giovanile e della povertà diffusa, flagelli che sono come benzina su un fuoco che già brucia”.

Su questo, magari, ci riaggiorniamo.

Intanto continua a peggiorare il tragico bollettino del terremoto in Marocco. Per la quarta notte consecutiva hanno dormito in strada i terremotati di Marrakech, mentre i soldati e le squadre umanitarie internazionali con camion ed elicotteri iniziano a riversarsi nei remoti villaggi di montagna più devastati. 

Il disastro ha ucciso almeno 2.500 persone – ma di nuovo tocca fare la stessa premessa di ieri, sul fatto che è una conta ancora parziale, purtroppo – e le Nazioni Unite hanno stimato che 300.000 persone siano state colpite dal sisma.

Gran parte dei decessi, spiega Avvenire, sono avvenuti nel distretto di Al Haouz, nelle montagne dell’Alto Atlante. Un villaggio, Tikht, che ospitava almeno 100 famiglie, praticamente non esiste più. E’ un groviglio di legno, detriti di muratura, piatti rotti, scarpe e tappeti dai motivi intricati. “La vita è finita qui”, ha detto Mohssin Aksoum, 33 anni, la cui famiglia vive in questo piccolo villaggio. “Il villaggio è morto”. Come molti villaggi duramente colpiti, era un piccolo insediamento con molti edifici costruiti in modo tradizionale utilizzando una miscela di pietra, legno e malta di fango. Per i soccorritori non è facile estrarre i corpi dalle macerie.

Nel frattempo le stesse aree sono state scosse nuovamente ieri da una scossa di assestamento di magnitudo 3,9. 

Intanto, mentre re Mohammed VI ha dichiarato 3 giorni di lutto nazionale chiedendo alle autorità e ai cittadini di pregare in tutte le moschee del Regno, monta la polemica per gli aiuti. Il Marocco avrebbe accettato squadre di soccorritori soltanto da quattro Paesi – la Spagna, il Regno Unito gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar – e tutte le altre persone che stanno aiutando sono volontarie. 

Da molti Paesi sono arrivate proposte di aiuti e solidarietà. Come raccontavamo anche ieri, l’Algeria ha proposto un piano urgente per fornire aiuti, qualora Rabat volesse accettarlo visto i difficili rapporti con i vicini. L’Ue ha stanziato un finanziamento iniziale di 1 milione di euro “per sostenere gli sforzi di soccorso messi in atto dai partner umanitari nel paese”. La Commissione Europea precisa che al momento il Marocco “non ha fatto richiesta di assistenza”.

I giornali riportano soprattutto dando una certa enfasi il fatto che il Marocco non abbia fin qui accolto la proposta della Francia, un paese che con il Marocco vanta uno stretto rapporto politico, storico e diplomatico per il fatto che per oltre quarant’anni è stato un protettorato francese, di fatto una colonia. Il presidente Emmanuel Macron dal G20 di New Delhi ha espresso la disponibilità del suo Paese a collaborare affermando che “la Francia è disposta ad offrire il suo aiuto al Marocco se il Marocco decide che è utile”, ricordando che milioni di cittadini francesi hanno radici marocchine e familiari nelle regioni colpite dal terremoto e si tratta di una “tragedia che tocca nel profondo il popolo francese”. Anche la Turchia, colpita recentemente da un terribile sisma che ha causato 60mila morti, ha offerto esplicitamente il proprio aiuto al Marocco senza ottenere risposta positiva.

Chissà se questa reticenza è in qualche modo collegata al crescente sentimento antifrancese e antioccidentale che negli ultimi mesi sta animando molti paesi africani. Va detto che parliamo normalmente del Sahel, quindi di un’Africa completamente diversa rispetto al Marocco, ma può darsi che questo sentimento sia più trasversale del previsto.

Le alluvioni in Libia orientale hanno ucciso almeno 150 persone,  ha detto a Reuters la Mezzaluna Rossa libica (l’equivalente della Croce Rossa). Ma i morti potrebbero essere molti di più e secondo alcune stime, anche riportate da autorità libiche, potrebbero essere oltre duemila: molte delle zone più colpite sono ancora isolate e i dispersi sono molte centinaia. 

Le città più colpite sono Bengasi, Susa, al Bayda, al Marj e Derna. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, imponendo un coprifuoco e la chiusura di scuole e negozi, nonché la sospensione di tutte le attività lavorative tranne quelle di emergenza. Derna è la città che ha subito i danni maggiori: è senza corrente, le comunicazioni sono bloccate e non si sa ancora quante persone siano morte o disperse, ha detto il ministro della Sanità libico. Le piogge sono state portate dalla tempesta Daniel, la stessa che ha causato le alluvioni in Grecia, Bulgaria e Turchia della scorsa settimana. Nei prossimi giorni dovrebbe spostarsi a est, verso l’Egitto.

Le aree più colpite sono quelle della parte est del paese, la cosiddetta Cirenaica, governata dal maresciallo Khalifa Haftar: la Libia infatti è divisa fra due diverse amministrazioni rivali dal 2014, che si sono scontrate militarmente fino all’armistizio del 2020. 

Alcune grandi città sono ancora isolate e con le comunicazioni ridotte al minimo: per questo la stima dei morti potrebbe salire anche in modo sensibile. Osama Hamad, primo ministro del governo orientale libico, ha detto in un’intervista televisiva di temere che i morti possano essere anche 2000: i dispersi sarebbero infatti molte centinaia.

Restiamo in tema rapporti Europa-Africa, cambiando però radicalmente contesto. Riporta un comunicato dell’organizzazione Survival International che “La Tanzania ha impedito a una delegazione di europarlamentari di visitare il paese, nonostante precedentemente avesse accettato di lasciarli andare ad indagare sugli abusi dei diritti umani commessi contro i Masai nel nome della conservazione”. 

Vi faccio un po’ di contesto. I Masai della Tanzania vivono da generazioni nell’ecosistema del Serengeti, il cui territorio hanno plasmato e protetto per secoli, salvaguardando la fauna selvatica e la biodiversità di aree come Loliondo, l’area di conservazione di Ngorongoro e quello che oggi è il Serengeti National Park. 

Tuttavia, negli ultimi anni, e in violazione dei loro diritti umani e costituzionali, i Masai sono stati sistematicamente emarginati e sfrattati violentemente dalle loro terre ancestrali per far spazio a progetti di presunta conservazione della natura (che niente hanno di ecologico), al turismo e alla caccia da trofeo. 

“Queste violazioni – riporta Survival – sono avvenute anche grazie al sostegno di ONG per la conservazione come la Frankfurt Zoological Society (FZS) e finanziamenti europei. Negli ultimi anni gli abusi dei diritti umani commessi contro i Masai sono aumentati, inclusi sfratti forzati dalle terre ancestrali mediante violenze e intimidazioni, sparatorie, arresti e detenzioni arbitrari, e torture. 

Per costringere i Masai ad abbandonare la loro terra ancestrale, il governo della Tanzania ha anche bloccato loro l’accesso a servizi sociali fondamentali, ad esempio ai servizi sanitari a Ngorongoro.

Come ha dichiarato ieri Joseph Oleshangay, avvocato masai per i diritti umani: “Ancora una volta, il governo della Tanzania ha sospeso la visita dei parlamentari europei”. “Nel maggio 2023, l’ambasciatore della Tanzania aveva promesso apertamente che non avrebbero fermato la visita degli europarlamentari come era accaduto con il Relatore Speciale ONU nel dicembre 2022. Ma tre mesi dopo lo hanno rifatto. Queste mancate promesse sono solo la punta dell’iceberg di quello che noi Masai stiamo subendo da parte di un regime repressivo che vuole espropriarci della terra per far spazio alla caccia sportiva di lusso e agli investimenti alberghieri. Ma ne sono una ennesima prova – hanno molto da nascondere! La situazione sul campo è indescrivibile. Acconsentono alle viste solo se possono usarle per coprire la situazione. Ringraziamo gli eurodeputati per aver agito secondo dei principi.” 

In tutto ciò, come denuncia ancora Survival, “I governi occidentali e le organizzazioni per la conservazione come la Frankfurt Zoological Society continuano con il loro comportamento razzista e coloniale, facendo finta che vada tutto bene. Ancora una volta, si fanno strada con i soldi e la “competenza”, mentre i diritti dei popoli indigeni vengono calpestati nel nome della ‘conservazione della natura’.” 

Aggiungo, una conservazione della natura fittizia, dato che è risaputo e testimoniato da ormai moltissimi studi e ricerche che le popolazioni indigene sono le migliori custodi della biodiversità.

Il Post pubblica un articolo molto interessante in cui racconta la storia di un quartiere della città tedesca di Friburgo che p considerato un esempio mondiale di urbanismo ecologico. Ve la riassumo, perché mi sembra che offra diversi spunti di riflessione. 

Friburgo è una città di 230mila abitanti nel sud-ovest della Germania, con più ciclisti che automobilisti, chiamata “la città verde” della Germania. Tutta la città è particolarmente virtuosa, tant’è che ambisce a ottenere la neutralità carbonica entro il 2038, sette anni prima dei termini fissati dal governo tedesco. Ma pochi chilometri a sud del centro c’è un quartiere in cui già da tempo tutto è pensato per avere il minore impatto ambientale possibile: si chiama Vauban, è considerato un modello di sviluppo urbano sostenibile e la sua caratteristica principale è quella di essere un’area in cui il traffico automobilistico è quasi completamente assente.

La storia di Vauban come esperimento ecologico risale agli anni 90, quando l’area ex militare fu occupata da gruppi di anarchici e hippy. Fu allora che alcune organizzazioni di cittadini cominciarono a discutere della riqualificazione della zona assieme alle istituzioni, insistendo affinché si seguissero specifiche proposte sia in termini di accessibilità a tutte le fasce della popolazione che in termini di tutela ambientale. L’idea era che il nuovo quartiere dovesse avere edifici a basso consumo energetico, in cui vivere, lavorare e passare il tempo libero spostandosi facilmente a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici.

Oggi Vauban ha una sua centrale termoelettrica che produce calore ed energia elettrica bruciando materie prime rinnovabili, come gli scarti del legno, e la gran parte dei suoi edifici è dotata di pannelli fotovoltaici, che permettono quindi di produrre energia elettrica attraverso la luce solare. 

Ogni edificio è stato costruito secondo i rigidi criteri fissati dal piano di sviluppo urbanistico della città. Tra le altre cose, le case sono a una certa distanza l’una dall’altra, in modo da fare spazio a parchi e aree per il tempo libero. Ci sono una scuola, asili nido e un centro polifunzionale, e poi negozi e dormitori per gli universitari. Ma soprattutto il quartiere è pensato per limitare il più possibile l’uso delle automobili: ci si gira tranquillamente a piedi e in bicicletta e il centro si raggiunge nel giro di pochi minuti con due linee di bus o con il tram.

Il traffico, poi, è altamente ridotto e scoraggiato. Le strade principali hanno un limite di 30 km/h, mentre la gran parte delle zone residenziali è a traffico limitato.  Nella gran parte delle vie residenziali tra l’altro è vietato parcheggiare, sia perché non ci sono posteggi in strada, sia perché le case non sono dotate di garage. I residenti che hanno un’automobile possono parcheggiarla in una delle due autorimesse ai confini del quartiere: per farlo però devono acquistare un posto auto, che può costare anche più di 20mila euro.

Secondo le statistiche del comune, alla fine del 2020 le auto dei residenti del quartiere erano 1.132: vuol dire circa 21 auto ogni 100 abitanti, contro le 39 ogni 100 abitanti dell’intera Friburgo. Per fare un confronto, è stato stimato che a Milano ci siano 49 auto ogni 100 abitanti: con 675 automobili ogni mille persone l’Italia è il terzo paese più “motorizzato” dell’Unione Europea, dietro solo a Polonia e Lussemburgo.

Insomma, Vauban rappresenta in tutto e per tutto un’esempio virtuoso. L’unico problema è che vivere a Vauban è particolarmente costoso, perché queste sue caratteristiche lo hanno trasformato negli anni in un quartiere molto richiesto. Se inizialmente la popolazione del quartiere era molto eterogenea, col tempo solo persone benestanti, con un livello alto di istruzione o molto attente alle questioni ambientali. Una sorta di gentrificazione ecologica. È anche vero però, aggiungo, che se una progettazione di questo tipo diventasse la norma, questo pericolo verrebbe evitato, e che il fatto che il quartiere sia molto richiesto dimostra che in molti preferiscono vivere in un ambiente sano ed ecologico, anche rinunciando all’auto privata.

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