12 Mag 2023

Elezioni in Turchia: finirà il regno di Erdogan? – #726

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La Turchia va al voto domenica, un voto importante, forse storico, che potrebbe porre fine al dominio incontrastato di Erdogan degli ultimi vent’anni. Parliamo anche del governo francese che ha detto che è intenzionato a rimandare la realizzazione del Tav Torino Lione per quanto riguarda la tratta di sua competenza perché costa troppo e del caos al confine fra Messico e Stati Uniti.

Ci siamo. Domenica 14 maggio si vota in Turchia per eleggere il nuovo presidente e rinnovare il parlamento. Sono delle elezioni particolarmente significative, per parecchi motivi. Innanzitutto perché per la prima volta dopo decenni di dominio politico del paese il presidente uscente Erdogan è dato come sfavorito, almeno in partenza. Poi perché ci sono diverse ricorrenze che rendono il tutto ancora più simbolico, come spiega Futura D’Aprile su Valigia Blu. 

“Nel 2023 ricorre il centenario della Repubblica turca, nata dalle ceneri dell’Impero ottomano dietro spinta del generale Mustafa Kemal Atatürk (letteralmente padre dei turchi). Il 14 maggio, poi non è una data casuale. L’ha scelta Erdogan stesso perché il 14 maggio 1950 il Demokrat Parti, di orientamento conservatore e islamista, vinse per la prima volta le elezioni sconfiggendo il Chp, il partito repubblicano e laico fondato dallo stesso Atatürk. Dieci anni più tardi però il suo leader, Adnan Menderes, fu impiccato per ordine del Tribunale speciale istituito a seguito del colpo di Stato organizzato nel 1960 dal generale Cemal Gursel, mettendo fine al governo di stampo conservatore e aprendo la strada a ulteriori interventi militari nella fragile democrazia turca. 

Nei piani e nella narrazione del presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, il 14 maggio 2023 il popolo turco tornerà a dire “basta” agli ideali laici dei kemalisti e a sostenere ancora una volta chi, come lui, si è invece fatto portavoce di quei valori religiosi e conservatori che Menderes aveva portato per la prima volta al governo 73 anni prima. 

E la sfida in fin dei conti è rimasta un po’ quella. La visione religiosa e islamista di Erdogan contro quella laica del suo princoipale sfidante. Ma andiamo un po’ più a fondo. L’articolo di Valigia Blu ci aiuta a ricostruire meglio la figura di Erdogan e cosa ha significato per la Turchia in questi anni.Ve ne leggo qualche estratto:

“Sotto la guida di Erdoğan in Turchia è emersa una nuova classe borghese conservatrice e nazionalista, proveniente per lo più dall’entroterra anatolico e precedentemente marginalizzata, mentre si è assistito a una limitazione costante dei diritti e a un aumento della repressione del dissenso. Il numero di giornalisti, avvocati, attivisti, politici dell’opposizione, ma anche di attori, professori finiti in carcere o sotto processo è aumentato, mentre nuove leggi hanno progressivamente ridotto il diritto a manifestare e a criticare la figura del presidente. 

Tutto ciò è coinciso con un accentramento dei poteri nelle mani del presidente, soprattutto a seguito del fallito golpe del 2016 e della riforma costituzionale del 2017 che ha trasformato il paese in una Repubblica presidenziale. Erdoğan è così riuscito a marginalizzare il parlamento, a controllare stampa e magistratura, e a imporre le sue politiche economiche, rivelatesi però disastrose per il paese. Il rafforzamento della figura del presidente è coinciso anche con una politica estera più assertiva al fine di rendere la Turchia una potenza regionale in grado di dettare le regole del gioco in Medio Oriente e in altre parti del globo. Un progetto sostenuto anche grazie al costante aumento delle spese militari e all’espansione dell’industria bellica, diventata strumento di politica estera nonché cavallo di battaglia in quest’ultima campagna elettorale”.

Se questo è il passato di Erdogan, qual è il presente? Su cosa ha puntato per chiedere agli elettori di riconfermarlo? Nella ricerca di un nuovo mandato Erdoğan ha anche puntato su energia e ricostruzione post-terremoto. Il presidente ha promesso gas gratis per un mese e un abbassamento dei costi delle bollette – saliti del 55% – grazie alla messa in funzione di un nuovo giacimento nel mar Nero, e ha annunciato la costruzione di 650mila abitazioni – 300mila entro il 2023 – nelle zone terremotate. L’intento è di dimostrare agli elettori che solo la sua rielezione può garantire un futuro prospero al paese e una rapida ripresa dal sisma”. 

Ma Erdogan ha giocato anche un gioco più sporco, ovvero quello di impedire ai suoi oppositori di esprimersi. “La sua campagna elettorale è stata costellata da arresti ai danni di giornalisti e politici dell’opposizione, soprattutto nel sud-est a maggioranza curda, come già successo in occasione delle passate tornate elettorali”. 

Del principale sfidante di Erdogan avevamo già parlato in una puntata di qualche settimana fa, ma rivediamo insieme gli elementi principali che ci è utile sapere. Lui si chiama Kemal Kılıçdaroğlu ed è sia Segretario del partito repubblicano (Chp) dal 2010, che il rappresentante della strana coalizione che corre contro Erdogan. Strana perché si chiama Tavolo dei Sei e riunisce partiti che vanno dal centro-sinistra alla destra conservatrice, tenuti assieme principalmente dall’antagonismo verso Erdoğan.

Kılıçdaroğlu è criticato per essere un leader poco carismatico, ma al tempo stesso questo aspetto lo differenzia molto da Erdogan, che ha costruito un vero e proprio culto della persona in questi anni. Kılıçdaroğlu invece ha puntato su una retorica inclusiva, accattivandosi la simpatia delle minoranze del paese, fra cui quella della numerosa minoranza curda, grazie al sostegno dell’Hdp, la formazione filo-curda che secondo i sondaggi, dovrebbe ottenere almeno il 10% delle preferenze, giocando così un ruolo decisivo per il futuro del paese. 

Se storicamente il Chp, il partito di Kılıçdaroğlu, di ispirazione kemalista, quindi laico e nazionalista, ha storicamente messo da parte le richieste delle minoranze del paese e in particolare quelle dei curdi, il suo nuovo leader ha riconosciuto l’importanza della questione curda e promesso che questa sarà risolta dal Parlamento e non più affrontata come un problema unicamente di sicurezza. Un approccio ben diverso rispetto a quello promosso dal 2015 in poi dal presidente uscente, che continua a puntare sulla criminalizzazione dei curdi e sulla repressione di ogni forma di opposizione. 

Lo slogan di Kılıçdaroğlu è “Diritto, legge, giustizia” (hak, hukuk, adalet) gridato dalla folla durante i comizi elettorali. Uno dei primi obiettivi è il ritorno al sistema parlamentare, a cui farebbero da corollario la tutela delle libertà civili e politiche, la fine del controllo governativo su media e magistratura e il ripristino dell’indipendenza della Banca centrale. 

Tutte misure ritenute indispensabili per riportare la Turchia sulla strada della democrazia e per sanare quella frattura sociale ampliatasi sotto la presidenza Erdoğan. Sul piano economico, l’opposizione ha promesso di  abbandonare il modello del partito di governo, basato su tassi di cambio tenuti forzatamente bassi per preservare la crescita economica, ma che ha comportato un aumento costante dei prezzi dei beni primari; mentre in politica estera ci si attende una postura meno aggressiva e più conciliante nei confronti dell’occidente. 

Ovviamente il fatto che i partiti della coalizione siano così diversi comporta il rischio che in caso di vittoria non è sicuro come poi il programma verrà realizzato e c’è una buona probabilità di scontri interni. 

Veniamo agli spoiler. Come andrà a finire? I sondaggi danno una partita molto tirata, con Kılıçdaroğlu in lieve vantaggio. Il sistema elettorale turco prevede, per l’elezione del presidente, il ballottaggio in caso che nessun candidato superi il 50% delle preferenze al primo turno, scenario dato come il più probabile. In tal caso il secondo turno è previsto per il 28 maggio. Comunque sono molte le incognite. I sondaggi parlano di un 11% di indecisi, una percentuale altissima, e poi ci sono 5 milioni di giovani che si recheranno per la prima volta alle urne, in un paese di circa 85 milioni di abitanti.  

Poi c’è un’altra domanda che aleggia nell’aria, e che si chiede la giornalista alla fine dell’articolo. “Erdogan rinuncerà davvero al potere in caso di sconfitta? Già nel 2019 il presidente uscente non ha accettato il risultato a lui sfavorevole delle elezioni locali, facendo ripetere il voto a Istanbul e usando la magistratura per sostituire più di cento sindaci dell’opposizione in diverse parti del paese. Ad aumentare i timori di una transizione per nulla tranquilla dei poteri sono anche le affermazioni fatte da Erdogan e dai alcuni suoi ministri nelle settimane precedenti le elezioni e che indicavano l’opposizione come un burattino nelle mani dell’occidente e come un pericolo per la stabilità del paese. 

Insomma, non possiamo dire come andrà a finire, quello che possiamo dire è che ci teniamo aggiornati. Non so dire – perché non conosco a sufficienza il sistema di spoglio e di voto in Turchia – quando avremo i risultati definitivi, se già lunedì in giornata oppure nei giorni successivi. Ma quando ci saranno, non appena ci saranno, ne parleremo.

I giornali di oggi parlando di una novità importante sul fronte della Torino Lione, la contestatissima nuova linea che dovrebbe collegare la città italiana con quella francese con un treno ad alta velocità, che ha dato origine in Italia al movimento No Tav.

Leggo dal sito del Corriere che “La Francia vorrebbe rinviare la sua tratta della Tav Torino-Lione a dopo il 2043 perché «troppo cara». Parigi, infatti, intenderebbe «realizzare una delle tratte di accesso della Tav in Francia soltanto dopo l’entrata in funzione del tunnel del Moncenisio, tra la fine del 2032 e l’inizio del 2033». In pratica l’alta velocità sul tratto francese arriverebbe 10 anni dopo, nel 2043: nel frattempo, per risparmiare sui costi, la galleria di confine che corre sotto le Alpi per 57,5 chilometri verrebbe soltanto adattata, non rifatta. Le ipotesi e il cronoprogramma «sono stati elaborati dal Coi, il Conseil d’orientation des infrastructures» e «grafici e valutazioni ora sono sul tavolo del governo francese, giusto in tempo per la prossima Conferenza intergovernativa Italofrancese, fissata per il 22 giugno a Lione».

Questa notizia ha scatenato un polverone in Italia, con dichiarazioni avvelenate sia di Matteo Salvini, vice premier e ministro delle Infrastrutture, che di Confindustria. Detto ciò, non sono espertissimo del tema e mi riprometto nei prossimi giorni di dare voce a persone più esperte di me, ma già dieci anni si parlava del fatto che, oltre ai danni ambientali causati dalle trivellazioni, il progetto fosse destinato al fallimento perché troppo costoso rispetto alla sua reale utilità, che è abbastanza scarsa considerando che già l’attuale tratta – perlomeno ai tempi era – sottoutilizzata. 

C’è il caos al confine fra Messico e Stati Uniti, con migliaia di messicani e messicane che si sono accalcati al confine per provare a varcarlo in concomitanza con la scadenza di una legge voluta da Trump sui respingimenti e con l’introduzione delle nuove regole volutute da Biden. 

Racconta il Post che “Tra mercoledì e giovedì più di 10mila persone migranti sono state fermate al confine tra Messico e Stati Uniti, a causa della modifica che entrerà in vigore oggi, venerdì. Da oggi infatti non sarà più applicato il “Title 42”, una parte della legge sull’immigrazione che consentiva di effettuare rapidamente i respingimenti, pur mantenendo qualche flessibilità sul numero di tentativi che potevano essere svolti per superare il confine.

Nelle principali città di confine come El Paso in Texas, migliaia di persone sono state radunate in campi di accoglienza di fortuna in attesa di avere notizie sulle nuove regole. Le autorità locali hanno segnalato una situazione molto difficile, con un aumento dei flussi che potrebbe proseguire nelle prossime ore ingolfando gli uffici che si occupano di gestire i nuovi arrivi. Biden ha inviato 1500 militari, di cui diversi Marines, per gestire la situazione fuori controllo. 

Ma che cos’è questo Title 42, che cessa di essere in vigore? Si tratta di un Titolo del Public Health Service Act, una legge statunitense del 1944, che permette al governo di bloccare gli ingressi al confine nel caso in cui ci siano rischi legati alla diffusione di una malattia contagiosa. A marzo del 2020 l’allora presidente Donald Trump aveva attivato la regola, sostenendo che fosse necessaria per impedire la diffusione del coronavirus, ma secondo molti osservatori la decisione era derivata dalla volontà di bloccare i flussi migratori lungo il confine con il Messico. Il Title 42 prevede che le autorità di confine possano espellere velocemente le persone migranti arrivate illegalmente nel paese, con una procedura molto più rapida di quella applicata di solito e che consiste in maggiori accertamenti e verifiche su eventuali categorie tutelate in cui potrebbe rientrare ogni persona migrante.

Dopo essere stato eletto, Biden aveva cercato di eliminare il Title 42, ma la decisione era stata sospesa in seguito all’aumento dei flussi migratori nel corso del 2021. Le regole permettevano di fatto di gestire molto rapidamente enormi quantità di persone migranti, evitando sovraffollamenti lungo il confine perché le pratiche potevano essere svolte in pochi minuti seppure con respingimenti che non tutelino quasi mai i diritti dei richiedenti. 

Due mesi fa, il governo statunitense aveva infine annunciato novità per l’11 maggio, introducendo una nuova serie di regole tese a favorire l’immigrazione legale e a punire quella non regolare. Questo nuovo programma, in parte già attivo da inizio anno, prevede che siano accolte 30mila persone migranti al mese da Haiti, Venezuela, Cuba e Nicaragua a patto che facciano richiesta tramite un’applicazione, evitando di effettuare un ingresso illegale al confine. 

A queste si aggiungono 100mila persone al mese da Guatemala, Honduras ed El Salvador che potranno entrare nel paese attraverso un programma di ricongiungimenti familiari. Il Title 42 sarà poi sostituito dal Title 8, la serie di regole normalmente applicata per gestire l’immigrazione. Prevede che a chiunque provi a entrare negli Stati Uniti illegalmente sia vietato di riprovarci per cinque anni, a differenza di quanto avveniva negli scorsi anni dove sostanzialmente le persone migranti potevano tentare più volte il loro ingresso senza particolari conseguenze.

L’annuncio delle nuove regole ha portato a una certa confusione lungo il confine e spiega le lunghe file e gli accampamenti, soprattutto a El Paso e nelle altre città confinanti tra Messico e Texas. E sembra che si stiano per così dire accavallando sia le persone che vogliono fare un tentativo approfittando delle ultime ore del Title 42, che comporta meno conseguenze, e quelli che invece vogliono essere tra i primi a provare con le nuove regole, confidando in un processo più equo per le richieste di asilo, per esempio.

Gli Stati Uniti faticano comunque a gestire la grande quantità di richieste e hanno ormai da tempo un problema nella gestione dei flussi migratori. La quantità di persone che vogliono raggiungere il confine meridionale del paese è in forte crescita. Dal 2018 a oggi si stima che siano state fermate o respinte al confine almeno 2,4 milioni di persone migranti, a dimostrazione di come le regole più rigide provate negli anni non siano un valido deterrente.

Va bene, prima di chiudere due segnalazioni. La prima è che la scorsa settimana è uscita la nuova puntata di A Tu per Tu, dedicata a uno dei temi centrali della nostra epoca – mi rendo conto che è un’espressione che uso per presentare forse ogni singola puntata, ma in questo caso vale forse più che in altri – ovvero il lavoro. 

Daniel Tarozzi ci accompagna in un viaggio vero e proprio, assieme a molti esperti, che vanno dalla “pecora nera” Devis Bonanni ad Antonio Perdichizzi, imprenditore e founder di isola Catania, a Daniele Forte, esperto di economia etica, a Michel Cardito di Mdf (e all’immancabile Giorgio Gaber), alla scoperta del significato del lavoro, del senso che ha il lavoro oggi nelle nostre vite, degli enormi cambiamenti che il mondo del lavoro sta affrontando e affronterà, dall’avvento dell’AI alle dimissioni di massa e così via. 

Vi leggo come Daniel ci ha presentato questa puntata nel nostro gruppo di redazione: “Quando ero bambino, circa 10-12 anni, sentivo in macchina Gaber parlare di lavoro, dell’ingranaggio che ci soffoca e ci blocca- E piangevo. piangevo, piangevo. Mi giuravo che MAI sarei finito in quell’ingranaggio. Ma è una lotta quotidiana…. sono FELICE di aver prodotto questo podcast con ospiti eccezionali”.

La seconda segnalazione è che domani esce invece la nuova puntata del podcast sempre per abbonati INMR+, dedicata ad un paese di cui si parla pochissimo, un paese africano, il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo ma dalla storia e dalla cultura importanti, patria fra gli altri di una delle figure politiche più influenti della storia africana, Thomas Sankara. 

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