6 Set 2023

In Emilia-Romagna torna il partito del cemento – #785

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In Emilia, nel frivolo silenzio d’agosto è passata una legge che apre le porte a una nuova ondata di cementificazione. In Friuli invece una iniziativa di cittadini e associazioni ambientaliste ha favorito l’annullamento del progetto di costruzione di una grande acciaieria. Parliamo anche della demolizione del muro della vergogna che a Lima, in Perù, divideva i ricchi dai poveri.

Dall’Emilia Romagna post alluvione arriva una novità non tanto nuova ma decisamente preoccupante. Non tanto nuova perché stiamo parlando di una delibera arrivata, non a caso il 7 agosto, e come spesso avviene per cose del genere in momenti del genere passata abbastanza sotto traccia sui giornali principali, impegnati a rincorrere gli scontrini estivi più cari. 

Preoccupante perché ora ve lo spiego. La Giunta Bonaccini ha approvato una delibera regionale che toglie competenza all’Agenzia ambientale regionale (Arpae) di pronunciarsi sulle Valutazioni ambientali strategiche (VAS) dei piani urbanistici comunali (Valsat).

Che vuol dire? Un piano urbanistico o una modifica a un piano urbanistico, prima di essere approvato, è soggetto a una procedura di valutazione ambientale chiamata appunto Valutazione ambientale strategica (Vas). Un elemento fondamentale per capire se un piano è sostenibile e non impatta negativamente sulla salute degli ecosistemi. (fra l’altro c’è una puntata di Rifiuti: ri-evoluzioni in corso che parla proprio della Vas e di altre procedure simili, ve la lascio sotto FONTI E ARTICOLI). 

Fino al mese scorso ad questa procedura veniva supervisionata e approvata dall’Agenzia ambientale regionale, un ente che mette assieme esperti in tutti gli ambiti scientifici che hanno a che fare con l’ambiente. Adesso non più, e in molti sospettano che questa cosa sia il preludio a un ennesimo tentativo di cementificazione selvaggia, post alluvione. 

Per fortuna, a sollevare la questione tirandola fuori dall’oblio estivo ci ha pensato Paolo Pileri, professore ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano, che abbiamo spesso intervistato qui su ICC (da ultimo per la puntata di A tu per tu dedicata al suolo). 

Commenta Pileri: “Hanno messo il lucchetto all’agenzia ambientale dove lavorano geologi, agronomi, biologi, ecologi, climatologi, fisici dell’ambiente, insomma tutte quelle competenze preziose per la transizione ecologica che mancano a Province e Comuni e che quindi possono accompagnare, correggere e/o, se occorre, respingere le proposte di trasformazione del suolo fatte dai Comuni”.

Un vero e proprio bavaglio, anche umiliante per tutti quegli esperti pubblici che dovrebbero essere valorizzati e ai quali, anzi, andrebbe dato più spazio proprio nelle fasi in cui il piano si forma, per limitare i danni che l’uomo-betoniera continua a fare. La decisione di azzerare la funzione di Arpae è ancor più grave perché avviene qualche mese dopo lo sfascio alluvionale che, sappiamo bene, è stato aggravato di parecchio a causa proprio del super consumo di suolo in questa Regione, nonostante la millantata legge 24/2017 che, solo a detta di quel governo regionale, è la migliore di sempre (ma non è affatto così). 

Italia Nostra regionale, onorando la sua missione statutaria e il suo buon nome, ha scritto pochi giorni fa una lettera al presidente Stefano Bonaccini invitandolo ad annullare quella delibera (lo farà? Ne parlerà? Altre associazioni ambientaliste si uniranno alla richiesta di Italia Nostra? Le voci della cultura si faranno sentire?). 

Nell’attesa Pileri ci invita ad andare a vedere nel dettaglio i fatti. Che sono questi:

Partiamo dalla legge regionale 24/2017 e per la precisione dall’art. 19 comma 4 (scritto in burocratese) nel quale, traduco, si legge che chi fa un piano urbanistico (ad esempio un Comune) deve acquisire il parere di Arpae proprio sui temi della sostenibilità ambientale riguardanti le previsioni di piano. In soldoni, la legge obbliga gli enti locali a tener conto, come è corretto che sia, del parere esterno e qualificato in materia ambientale dell’Agenzia. Se gli enti locali non sono d’accordo con le valutazioni di Arpae devono prendere carta, penna e responsabilità tecnica e politica per motivare il disaccordo. Un atto che obbliga il valutato a prendersi una forte responsabilità qualora voglia opporsi. Tutto questo che, come vedete, è già poca roba per incamminarsi nell’era della conversione ecologica, è stato spazzato via d’imperio dalla Giunta regionale il 7 agosto 2023 con la delibera 1407.

Nel concreto, i punti uno e due della delibera dicono (sempre in burocratese) che gli eventuali pareri di Arpae su piani e varianti non devono comprendere la “valutazione circa la positività o negatività” dei pareri dati da Province e dalla Città metropolitana di Bologna le quali, purtroppo, hanno meno “expertise” ecologico-ambientali rispetto ai tecnici di Arpae e, sappiamo tutti, sono affaticate da un processo di depotenziamento amministrativo dopo l’infelice riforma del Governo Renzi. Insomma: non ce la fanno. La valutazione di Arpae era quindi ancor più fondamentale e, invece, viene silenziata.

L’Agenzia non può dire né sì né no, il che equivale a non dire più nulla. Ma la spallata decisiva arriva al punto tre, dove espressamente si mette fuori gioco Arpae dicendo che “nei procedimenti di approvazione dei piani urbanistici comunali e delle loro varianti attivati ai sensi della L.R. n. 24/2017, la previa istruttoria di Arpae ai fini del rilascio del parere motivato di Valsat da parte della Città metropolitana di Bologna e delle Province non è dovuta”. Disastro: fine dell’esistenza di Arpae, fine dell’esistenza di un controllore qualificato e indipendente (e già faticava a esserlo per le pressioni politiche a cui era sottoposto), via libera ai pruriti di cemento locali. Se non è grave questo non so più che cosa lo sia.

A onor del vero una piccola porta l’hanno lasciata aperta: se le Province e la Città metropolitana fanno una convenzione onerosa (tradotto, soldi) con Arpae, allora l’Agenzia può dare dei pareri. Ma sappiamo tutti che le Province sono in sofferenza finanziaria e che ci vogliono mesi per avviare una convenzione. Insomma, è come dire a un indigente che se vuole trovare una casa deve pagare un consulente e pagare pure chi redige la convenzione con il consulente. 

Poco più avanti Pileri prosegue: “c’è da chiedersi che cosa spinga una Regione come l’Emilia-Romagna a uccidere l’ultimo baluardo ambientale che ancora abbiamo.Come possono andare in giro a farci lezioni di transizione ecologica, di leggi perfette e di non consumo di suolo? Anziché usare la loro storia infelice di disastri romagnoli per far girare pagina al governo del territorio ed essere di esempio per tutti, gettano in una stanza buia quel poco di argine al declino che avevano e buttano pure le chiavi a mare. In fondo è proprio vero che il cemento è una livella politica: rende uguali i governi della Lega a quelli del Partito democratico, quelli della destra a quelli della sinistra (o centrosinistra, o come li si chiami). Ultimissima cosa: perché non discutere un fatto di tale grave portata in Consiglio regionale? Vuoi dire che in tutto questo possiamo leggere anche un’erosione della democrazia?

Scusate se mi sono soffermato un po’ di più nel leggere questa notizia, ma il commento di Pileri mi pare prezioso. Aggiungo solo che eventi tragici come un’alluvione o un cataclisma climatico possono assumere un senso (nel nostro bisogno di avere un senso) sol ose ne traiamo insegnamento. 

Qui l’unico insegnamento che la politica locale sembra averne tratto è cementificare più di prima. Creare nuovi presupposti per nuove sciagure, in vista di un clima sempre più generoso di nubifragi ed eventi estremi. Le valutazioni ambientali oggi dovrebbero essere la base di ogni nostra pianificazione. Non l’intoppo o il fastidioso fardello che impedisce facili affari.

Una storia per alcuni versi opposta è quella che arriva dal Friuli e ha a che fare con un’acciaieria che si doveva fare e invece non si farà, per via dell’opposizione dei comitati cittadini. Scrive Valeria Casolaro su L’Indipendente: “L’acciaieria da due miliardi di euro che sarebbe dovuta sorgere nella laguna di Grado, in Friuli, con un progetto degli ucraini di Metinvest B.T. e del gruppo friulano Danieli, non si farà. 

Come ha scritto l’assessore regionale alle attività produttive e turismo, Sergio Bini «In seguito agli approfondimenti svolti e vista anche la complessità della manifestazione di interesse pervenuta, è emerso come nell’area industriale Aussa Corno sia opportuno prediligere altre tipologie di investimento, in un’ottica di maggiore compatibilità con il territorio interessato». 

Contro la realizzazione del progetto i cittadini erano riusciti a raccogliere oltre 24 mila firme, mentre i sindaci di dei Comuni coinvolti e le associazioni ambientaliste hanno messo in luce le gravi ripercussioni che questa avrebbe potuto avere sulla laguna e sul turismo.

Il progetto, presentato per la prima volta nel giugno 2021 e confermato nel 2022, era quello di far sorgere un maxi-polo siderurgico in grado di produrre 2,4 milioni di tonnellate di coils all’anno, con la possibilità di aumentarle fino a 4 (livello pari a quello dell’ex-Ilva). Il WWF aveva definito il progetto folle, in quanto sarebbe dovuto sorgere in una laguna «molto simile a livello strutturale a quella di Venezia», per cui il drenaggio necessario a far entrare le navi necessarie all’acciaieria avrebbe rischiato di comprometterne gli equilibri.

Come aveva spiegato un delegato WWF «Ad oggi nella laguna arrivano solo imbarcazioni da 8.000 tonnellate al massimo, questo ecosistema, particolarmente delicato, verrebbe distrutto se si dovesse dragare per arrivare alle misure desiderate dei 12 mt per consentire di passare alle imbarcazioni da 20.000 tonnellate. È un sito Natura2000 e deve essere tutelato». Di tutt’altra natura l’allarme di Assomarinas, che esprimeva il timore che le attività del polo avrebbero scoraggiato quelle turistiche, oltre a far presente le criticità legate al deposito di migliaia di tonnellate di rottami ferrosi, alla dispersione di polveri nocive e al trasporto via terra e via mare del materiale che dovrebbe alimentare l’impianto avrebbe presentato delle importati criticità.

Queste ragioni hanno portato a grosse proteste e una petizione che ha raccolto oltre 24 mila firme. “E la lotta – la giornalista – ha prodotto il risultato sperato. Il 1° settembre, l’assessore regionale alle Attività produttive e al Turismo Sergio Bini ha fatto sapere che appunto, il progetto era stato infine respinto perché non conforme. 

Allora, premetto che personalmente sono molto felice che l’impianto friulano sia stato stoppato. Abbiamo già un’Ilva, non ne serve un’altra. Anzi, dobbiamo fare in modo che non ci siano più Ilva in Italia e nel mondo. 

Resta a mio avviso il tema delle acciaierie. L’acciaio è un asset chiave di molte produzioni industriali, serve praticamente a qualsiasi civiltà industrializzata e probabilmente, come ci spiegava tempo fa Alessandro Marescotti di Peacelink, c’è anche un piano strategico NATO di riportarne sempre più la produzione in occidente per disaccoppiarsi dalla Cina. Quindi c’è e ci sarà una spinta semrpe maggiore a costruire nuove acciaierie in Europa. 

La produzione di acciaio, al tempo stesso, è fra le più impattanti e inquinanti in assoluto. Sia per la salute umana che per quella degli ecosistemi che per il clima. Forse dobbiamo iniziare a chiederci se vogliamo continuare a vivere utilizzando l’acciaio, e se sì, come si possono minimizzare le emissioni e l’inquinamento legato alla sua produzione. Perché se vogliamo l’acciaio, da qualche parte dovremo pur produrlo. 

Di sicuro, esistono luoghi al mondo dove l’impatto di un’acciaieria sarebbe minore. Poi esistono esperimenti di produzione del cosiddetto acciaio verde, ovvero una produzione che non utilizza altiforni e che si basa sull’idrogeno come vettore energetico (che poi tanto verde non è in realtà, l’idrogeno). Leggo sul sito Energycue che In Austria nel 2021 è partito il più grande impianto di produzione di acciaio verde al mondo. Mentre la prima acciaieria a idrogeno del mondo era nata qualche anno prima in Svezia, nel 2018, e attualmente l’impianto pilota è in funzione e sarà operativo fino al 2024.

Al netto di ciò, l’interrogativo rimane almeno in parte, a mio avviso, irrisolto.

Ottime notizie arrivano anche dal Perù. A Lima è iniziata la demolizione del cosiddetto “Muro della vergogna”, che separava i ricchi dai poveri.

Scrive su Repubblica Daniele Mastrogiacomo: “Crolla il “Muro della vergogna”, la barriera che da 40 anni divide i buoni dai cattivi, i ricchi dai poveri, i primi dagli ultimi. Sorgeva a nord di Lima e dagli inizi degli Anni 80 del secolo scorso era il simbolo di quella discriminazione sociale ed etnica che ha sempre logorato il paese andino. Con i cholos da una parte e i bianchi dall’altra”.

Da un lato sorgono le case di lusso con piscine e strade asfaltate dall’altro baracche e edifici fatiscenti. La costruzione della separazione cominciò negli anni ‘80 su iniziativa dei “ricchi” preoccupati per la propria sicurezza. Nell’ultimo decennio è stato allungato sempre di più dagli abitanti dei facoltosi quartieri di La Molina e di Santiago de Surco per isolarsi da Pamplona Alta e dai miseri San Juan de Miraflores e Villa María del Triunfo, diventando il simbolo delle ingiustizie sociali della città.

Ma cosa ha portato alla demolizione? Non una decisione del governo locale né nazionale, ma anche in questo caso l’attivazione di gruppi di abitanti dei quartieri più poveri. Facciamo qualche passo indietro. Come raccontava mesi fa il sito Questione Giustizia tutto nasce da un’iniziativa di oltre 6 anni fa di Carlos Francisco Hinostroza Rodriguez, un avvocato residente nel quartiere di Villa Maria del Triunfo che ha presentato un’istanza in tribunale per l’abbattimento del muro, facendosi interprete dell’ingiustizia subita dagli abitanti del suo quartiere costretti, per lo più, a vivere in baracche di legno e lamiera, senza elettricità e acqua corrente, isolati dall’edificazione di un muro che limita l’accesso agli altri quartieri della città.

Dopo alcune vicissitudini il 9 novembre 2017 la Seconda Corte d’Appello del Tribunale Superiore di Giustizia di Lima Sud aveva dichiarato infondata la richiesta di habeas corpus presentata dal ricorrente contro il sindaco del Comune distrettuale di La Molina. 

Ma l’avvocato non si era rassegnato (cit.) e aveva fatto ricorso. Il 1 marzo scorso quindi il Tribunale costituzionale del Perù ha ordinato l’abbattimento del “muro della vergogna”, e pochi giorni fa, al decorrere della scadenza, il sindaco della città ha dato il via libera alle ruspe perché iniziassero con la demolizione. Se ne va così, speriamo per sempre, un simbolo di ingiustizia e segregazione. 

In chiusura vi do una piccola anticipazione sulle novità delle prossime settimane. Perché a partire da questo mese inizieremo con delle rassegne regionali mensili. Non in tutte le regioni, ma almeno per adesso in Piemonte e Liguria. Quindi l’ultima settimana di settembre potrete ascoltare INMR Piemonte, condotto da Lorena di Maria e INMR Liguria condotto da Emanuela Sabidussi, in cui le due giornaliste riporteranno e commenteranno le principali notizie del mese a livello locale. E vi posso già dire che dalle regioni arriveranno diverse altre novità, quindi se vi interessa restate sintonizzati.

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