30 Ago 2023

Fukushima, il Giappone ha iniziato lo sversamento delle acque nel Pacifico – #780

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Mentre le autorità del Giappone hanno iniziato a sversare fra mille polemiche le acque contaminate di Fukushima nell’Oceano Pacifico, una inchiesta di Greenpeace Italia ha mostrato che una parte rilevante delle acque potabili della Lombardia è contaminata da Pfas, ma non si capisce se le analisi sono precedenti alla purificazione e all’immissione nella rete idrica o successive. Parliamo anche della relativamente nuova legge europea sulle batterie e delle bugie di H&M sul riciclo e riuso dei vestiti.

Negli scorsi giorni le autorità del Giappone hanno iniziato a rilasciare nell’Oceano Pacifico acqua radioattiva proveniente dalla centrale nucleare danneggiata di Fukushima, 12 anni dopo lo tsunami che la colpì e distrusse parzialmente. 

La notizia sta suscitando reazioni concitate e un certo scalpore, nonostante si sapesse ormai da tempo che questa cosa sarebbe successa. Ad esempio il governo cinese ha imposto un divieto sui frutti di mare giapponesi, quello della Corea del Sud ha protestato ufficialmente, così come hanno protestato e stanno protestando i pescatorori giapponesi che già nelle prime ore ha no visto il prezzo del pesce da loro pescato crollare di circa il 10%. 

Ma quest’acqua è pericolosa o è innocua? Il punto è che non è che lo sappiamo proprio con certezza. Come riporta Marta Giusti sul Messaggero, “Gli esperti delle Nazioni Unite affermano che l’acqua avrà un impatto radiologico «trascurabile» sulle persone e sull’ambiente, ma non tutti sono concordi su questo”.

In pratica stiamo parlando dell’acqua che ogni giorno viene ancora usata, dal 2011, per raffreddare la centrale. Acqua contaminata da molte sostanze radioattive, che viene filtrata per rimuovere gli elementi più dannosi e immagazzinata in oltre 1.000 serbatoi, sufficienti a riempire più di 500 piscine olimpioniche. 

Il problema è che le cisterne sono più o meno finite e la Tepco sostiene inoltre di aver bisogno del terreno occupato dalle cisterne attuali per costruire nuove strutture per lo smantellamento sicuro dell’impianto. Inoltre in molti hanno espresso preoccupazione per le conseguenze di un eventuale crollo delle cisterne in caso di calamità naturale. 

Come abbiamo già visto in altre puntate, quest’acqua contiene sostanzialmente trizio, un elemento radioattivo dell’idrogeno chiamato trizio, che non può essere rimosso dall’acqua contaminata perché non esiste la tecnologia per farlo. Invece, l’acqua viene diluita.

Il Giappone sta rilasciando gradualmente le acque reflue nell’oceano contenenti il trizio molto diluito, con il via libera dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Il primo rilascio è uno dei quattro previsti da qui alla fine di marzo 2024. L’intero processo richiederà almeno 30 anni.

“Il messaggio degli esperti – scrive ancora la giornalista – è che il rilascio è sicuro, ma non tutti gli scienziati concordano sull’impatto che avrà. 

I critici affermano che sono necessari ulteriori studi su come potrebbe influire sul fondo dell’oceano, sulla vita marina e sugli esseri umani. L’AIEA, che ha un ufficio permanente a Fukushima, ha dichiarato che un’ «analisi indipendente in loco» ha dimostrato che la concentrazione di trizio nell’acqua scaricata era «molto inferiore al limite operativo di 1.500 becquerel per litro (Bg/L)».

Tale limite è sei volte inferiore a quello fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per l’acqua potabile, che è di 10.000 Bg/L.

Mi pare di capire che la maggior parte degli scienziati sostengano che l’acqua è sicura, ma c’è una parte, minoritaria ma non inconsistente, che invece sostiene che non possiamo prevedere l’impatto del rilascio dell’acqua.

Ad esempio la professoressa americana Emily Hammond, esperta di diritto energetico e ambientale presso la George Washington University, ha dichiarato: «Si può avere molta fiducia nel lavoro dell’AIEA, pur riconoscendo che il rispetto degli standard non significa che le conseguenze ambientali o umane attribuite alla decisione siano zero». L’Associazione nazionale dei laboratori marini degli Stati Uniti ha rilasciato una dichiarazione nel dicembre 2022, affermando di non essere convinta dei dati del Giappone.

Una delle conseguenze del rilascio, come vi dicevo, è che la Cina ha vietato alcuni prodotti ittici giapponesi a seguito del rilascio di acque reflue. Alcuni commentatori dei media ritengono che si tratti di una mossa principalmente politica, e devo dire che è possibile. I pescatori hanno dichiarato alla BBC di temere che la loro reputazione sia stata danneggiata in modo permanente e di essere preoccupati per il loro lavoro. 

Insomma, è una situazione complicata, a cui ad oggi non esiste una soluzione semplice. Anche se in tanti sostengono che l’acqua sia sicura e che persino si potrebbe bere, nessuno può garantirci che non ci sarà un impatto, quindi il principio di precauzione vorrebbe che non la sversassimo in mare. Al tempo stesso, una volta che la centrale è stata danneggiata e che l’acqua è stata contaminata, qualcosa con quest’acqua dovremo pur farci. Tenerla lì ferma non è una buona idea, perché se arriva un altro terremoto o tsunami finisce in mare tutta assieme, e non in maniera graduale. Non abbiamo le tecnologie per renderla inerte. 

Non vedo molte altre soluzioni, purtroppo, rispetto a quella attuata dal Giappone. Il fatto – parere mio – è che il principio di precauzione dovremmo applicarlo a monte, nel chiederci se ha ancora senso costruire centrali nucleari, e non a valle, quando il danno è stato fatto. 

Restiamo in tema acque contaminate, ma torniamo in Italia. Valentina Neriu su Lifegate ci spiega il problema delle acque contaminate da Pfas in Lombardia. 

“I Pfas (composti poli e perfluoroalchilici) sono migliaia di sostanze chimiche artificiali, largamente usate dall’industria perché rendono i materiali impermeabili all’acqua e ai grassi. Negli ultimi decenni sono stati usati nella fabbricazione di innumerevoli prodotti di largo consumo, tra cui capi di abbigliamento antipioggia, padelle antiaderenti, imballaggi in carta.

Vengono chiamati forever chemicals, sostanze chimiche eterne, perché non si degradano nell’ambiente e si accumulano nell’organismo. E diversi studi scientifici condotti nel tempo li hanno associati a una lunga serie di conseguenze negative sulla salute, tra cui danni alla tiroide, al fegato, al sistema immunitario, alla fertilità e allo sviluppo fetale, oltre che forme tumorali. Nonostante ciò, in Italia – paradossalmente – non c’è una legge che vieti di produrli e usarli. E i Pfas non sono nemmeno tra i parametri obbligatori da monitorare nell’acqua potabile.

Ma ecco, berli non è proprio una buona idea. Il problema è che da una indagine condotta da Greenpeace Italia, che ha chiesto accesso agli atti di quasi 4000 analisi condotte dal 2018 in poi, è emerso che queste sostanze sono presenti in una percentuale non trascurabile dell’acqua ad uso potabile in Lombardia. Una contaminazione evidenziata nel 18,9 per cento dei casi. Quasi una su cinque.

La pubblicazione dello studio ha suscitato un putiferio e reazioni dure da parte dai gestori del servizio idrico e della regione Lombardia. Che hanno accusato Green peace di fare terrorismo sostenendo che “L’acqua che esce dai rubinetti non è pericolosa” e che la contaminazione rilevata dalle loro stesse analisi sarebbe “quasi esclusivamente” nelle acque grezze di falda, quindi prima del trattamento di potabilizzazione.

Ovviamente questo è un punto fondamentale, capire se i dati sono relativi alle acque che escono dal rubinetto o a quelle prima del trattamento di potabilizzazione. Il fatto è che non si capisce. Nel senso che dai documenti visionati da Greenpeace in molti casi, non è possibile sapere se l’acqua prelevata sia di pozzo oppure se sia immessa nella rete post trattamento. Diciamo che solo in 15 casi c’è un riferimento esplicito al fatto che sia acqua immessa in rete, o post trattamento. In molti altri non si sa.

Le aziende che gestiscono il servizio dicono che si tratta di acqua non ancora trattata, Greenpeace replica che si è limitata a riportare la dicitura che era presente negli studi, ovvero di “acqua per uso potabile”.

Il portavoce di Water Alliance, la rete che unisce tredici aziende pubbliche del servizio idrico integrato in Lombardia, Enrico Pezzoli, ha detto che quello di GreenPeace “è un messaggio sbagliato e fuorviante” e che “Al contrario, bisogna incentivare il consumo da parte dei cittadini: l’acqua del rubinetto è perfettamente sicura e contribuisce a ridurre sia il consumo di plastica, sia la spesa delle famiglie”.

Quindi come stanno le cose? È ancora difficile da dire, ma possiamo fare qualche considerazione. Se anche si trattasse di analisi prima della potabilizzazione, non è che la notizia sarebbe molto migliore. Come suggerisce Greenpeace sarebbe comunque il caso di fare qualche controllo e capire chi (quale azienda) ce li fa finire questi pfas nell’acqua dei fiumi. 

Considerate che in Italia ci fu un grosso scandalo nel 2013, con i Pfas rilevati in quantità molto maggiori nelle acque del Veneto. Da allora, il ministero della Salute ha individuato come valore massimo nelle acque destinate al consumo umano i 300 nanogrammi per litro per i Pfos e i 500 ng/l pe Pfoa e altri Pfas, mentre l’Istituto superiore di sanità ha raccomandato di non superare i 500 ng/l per Pfba e Pfbs. 

La direttiva europea 2020/2184 pone invece un valore soglia di 100 nanogrammi per litro per la presenza complessiva di 24 di queste sostanze (che, in realtà, sono migliaia). A febbraio di quest’anno l’Italia ha approvato il decreto attuativo di questa direttiva, che però entrerà in vigore solo a partire dal 2026. 

Nel momento in cui saranno attive queste nuove soglie, i cittadini saranno pienamente tutelati? Greenpeace sostiene di no, facendo riferimento ai più recenti dati elaborati dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efas) e a quegli stati, come la Danimarca e gli Stati Uniti, che per alcuni Pfas hanno posto limiti molto più stringenti. Secondo l’organizzazione ambientalista, l’unico valore accettabile nell’acqua potabile è zero.

Il che ha senso, dal mio punto di vista. E aggiungo, un po’ come detto sopra, che forse se vogliamo raggiungere lo 0 faremmo prima a vietarle queste sostanze. Siamo sopravvissuti per circa 200mila anni come specie senza padelle antiaderenti (che poi si possono fare anche senza usare i pfas). Ce la possiamo fare. 

Cambiamo argomento, parliamo di un nuovo regolamento sulle batterie approvato dall’Unione europea che sembra un buon passo in avanti verso una gestione sostenibile delle stesse. La notizia in realtà è un po’ datata, risale a luglio, ma visto che me l’ero persa ve la riporto oggi.

In pratica l’Ue ha approvato un nuovo  regolamento sulle batterie sostenibili, che è ora legge sul territorio di tutti i paesi membri. Vi leggo quali sono gli aspetti principali seguendo un articolo di Roberto Demaio su L’Indipendente. L’obiettivo della legge è quello di ridurre gli impatti ambientali e sociali delle batterie attraverso nuove regole per gli operatori del settore.

Innanzitutto i produttori di batterie dovranno verificare l’origine delle materie prime utilizzate e indicarle sulla confezione. Le informazioni e i dati chiave – tra cui l’impronta di carbonio se la capacità sarà superiore a 2 chilowattora – saranno forniti su un’etichetta e un codice QR permetterà di accedere ad un passaporto digitale con informazioni dettagliate utili sia ai consumatori che ai professionisti per incrementare l’economia circolare delle batterie.

Inoltre vengono stabiliti gli obiettivi di contrasto all’abbandono delle componenti rare come litio, cobalto, rame, piombo e nichel: entro il 2031 più dell’80% dovrà essere recuperabile dopo il consumo. Infine, a partire dal 2027 i consumatori dovranno essere in grado di rimuovere e sostituire le batterie nei loro dispositivi elettronici in qualsiasi momento del loro ciclo di vita. Cosa che spesso oggi è difficile se non impossibile, ad esempio in molti modelli di smartphone.

È dal 2006 che le batterie e i rifiuti derivati sono disciplinati a livello europeo. A dicembre 2020 la Commissione ha proposto di rivedere la direttiva per affrontare la crescente domanda di batterie, visto che a livello globale si prevede un aumento di 14 volte entro il 2030 con l’UE che potrebbe rappresentare ben il 17% di tale domanda.

Ora, dopo il via libera del Parlamento lo scorso 14 giugno e passati i 20 giorni stabiliti dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’UE, il nuovo regolamento è ufficialmente legge su tutto il territorio dei paesi membri. E sono inclusi tutti i tipi di batterie e relativi rifiuti: portatili, per veicoli elettrici, per l’avviamento, industriali, per l’accensione e fulminazione e per i mezzi di trasporto leggeri (biciclette, monopattini elettrici e scooter). 

Chiudiamo con una inchiesta interessante realizzata dal quotidiano svedese Aftonblandet e citata da Francesca Biagioli su GreenMe, che mostra come le dichiarazioni della catena di fast fashion H&M di applicare l’economia circolare siano poco più di dichiarazioni vuote, e come la transizione ecologica del settore del fast fashion sia molto difficile se non impossibile. 

Come forse saprete, uno dei maggiori brand di fast fashion, H&M, si vanta di riciclare i capi restituiti. Ma la realtà, spiega l’articolo, è ben diversa. L’ha dimostrato una recente investigazione del quotidiano svedese Aftonbladet.

L’inchiesta è stata svolta con un sistema molto furbo. In una giornata di gennaio sono stati consegnati dieci capi H&M nelle scatole di raccolta della catena per il riciclo, disponibili in alcuni punti vendita svedesi. I capi però erano dotati di AirTags, una sorta di tracker che utilizza la tecnologia blue-tooth, così che potevano essere sempre rintracciati.

Ebbene in primavera alcuni di questi vestiti erano finiti dall’altra parte del mondo, in Africa o in Asia dove in teoria dovevano essere rivenduti e/o riutilizzati ma invece, alla fine del giro, risultavano dispersi in mare o probabilmente bruciati in discarica. In questi Paesi, infatti, arriva di tutto e molti capi non sono affatto adatti ad essere indossati in quei luoghi, di conseguenza vengono gettati via.

In parole povere, dall’altra parte del mondo gli indumenti che noi non usiamo più vengono scaricati e, se non servono, bruciati o buttati in discariche senza controllo, grazie a regole spesso poco stringenti. La situazione sta quindi degenerando in un disastro ambientale, ma come nota la giornalista, “sembra però che l’importante sia solo che tutto ciò avvenga lontano dai nostri occhi!”.

Dirò una banalità, ma è difficile se non impossibile immaginare che una grande catena di fast fashion diventi realmente sostenibile, a meno che non sia disposta a rivedere completamente il proprio modello di business. Finché H&M (assieme alle altre ovviamente) continuerà a incentivare un modello di consumo compulsivo di abiti, immettendo sul mercato quantità spropositate di capi di vestiario di qualità medio bassa, temo che ogni sforzo dell’azienda per essere più sostenibile sarà vano. E anche sul fatto di apparirlo e basta, in genere dura poco. Qui tocca prendere il coraggio a due mani e fare un bel salto. Lo dico al signor H&M che so essere un accanito seguace di INMR.

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