20 Mar 2023

Iraq, 20 fa iniziava l’invasione Usa, cosa rimane? – #692

Salva nei preferiti

Seguici su:

20 anni fa l’esercito americano bombardava l’Iraq dando inizio a una guerra che sarebbe diventata una enorme macchia nella politica estera americana. Com’è la situazione oggi? E che giudizio possiamo dare, col senno di poi? Parliamo anche del mandato di arresto internazionale per Putin (e cosa significa e che conseguenze potrebbe avere), dell’incriminazione di Donald Trump e infine delle proteste che continuano in Francia.

Ho pensato di iniziare con una notizia, che non è una notizia, ma è una ricorrenza, ma che visti i tempi che corrono ci da modo di parlare anche di attualità. Oggi è il 20 marzo, 20 anni fa esatti iniziava l’operazione militare americana in Iraq. 

Nella notte compresa tra il 19 e il 20 marzo 2003 sono partiti i primi bombardamenti, sono state udite le prime esplosioni subito dopo l’attivazione degli allarmi aerei. Negli Stati Uniti mancavano poche ore a mezzanotte e le televisioni hanno improvvisamente interrotto le trasmissioni per trasmettere il discorso del presidente George W. Bush. Dallo studio ovale della Casa Bianca, Bush ha annunciato l’avvio delle operazioni contro l’Iraq di Saddam Hussein. Poco dopo avrebbe parlato anche Saddam, in uno studio con lo sfondo blu, denunciando l’aggressione Usa e ha chiamato a raccolta tutti gli iracheni.

In occasione di questa ricorrenza, molti giornali si chiedono, col senno di poi, come sono andate le cose, cosa resta del conflitto oggi e cosa ci insegna quel conflitto. La storia ha parlato abbastanza esplicitamente, credo, riguardo alle motivazioni che hanno spinto gli usa a invadere lo stato del Golfo. Adesso sappiamo che le armi chimiche millantate dall’amministrazione Bush non esistevano, erano state inventate di sana pianta per giustificare l’invasione, adesso sappiamo – grazie all’incredibile lavoro di Wikileaks, Julian Assange, Chelsea Manning – che i militari americani compirono delle stragi di civili ingiustificate. Stragi per cui non ha pagato praticamente nessuno, se non chi le ha rivelate.

Fra i vari articoli che ho letto sulla questione, mi ha colpito quello di Balsam Mustafa, giornalista irachena, sul Guardian.  

“Vent’anni fa, più o meno in questo periodo, l’operazione militare guidata dagli Stati Uniti per invadere l’Iraq e rovesciare il regime di Saddam Hussein sembrava finalmente inevitabile per gli iracheni. Con essa, cominciò a farsi strada l’idea di andarsene.

Con “andarsene” non intendo dire fuggire dal Paese. Quella non era nemmeno un’opzione. Dopo la guerra del Golfo del 1990 e le sanzioni internazionali che l’hanno seguita, gli iracheni sono stati isolati dal resto del mondo. Per molti non c’era via d’uscita. Partire significava lasciare le scuole, le università o il posto di lavoro, dire addio ad amici e colleghi e trasferirsi in luoghi relativamente più sicuri all’interno del Paese, lontano dalle aree bersagliate da attacchi e bombardamenti. Ma i miei genitori decisero di rimanere a casa a Baghdad. “Se dovevamo morire, sarebbe stato meglio farlo a casa”: questa era la nostra logica.

Il quartiere dove ho trascorso l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza si è trasformato in una città fantasma quando la maggior parte dei nostri vicini se ne è andata. Ci sentivamo vuoti e soli, ma pensavamo che fosse una cosa temporanea. Tutti sarebbero tornati quando la guerra fosse finita e l’idea spaventosa di andarsene definitivamente si sarebbe dissolta, ci dicevamo. Non avevamo previsto la traiettoria che l’Iraq avrebbe seguito dopo l’invasione. Condividevamo un cauto ottimismo su un futuro migliore, nonostante le nostre emozioni contrastanti nei confronti della guerra.

Questo ottimismo è evaporato rapidamente. E gradualmente abbiamo iniziato a capire che, prima o poi, lasciare il Paese sarebbe stata una delle due opzioni per molti iracheni. L’altra? Tacere per evitare la repressione. Qui sta la contraddizione più grande: molti di coloro che avevano sopportato la dittatura, le guerre e le sanzioni economiche e che erano rimasti in Iraq sarebbero stati costretti ad andarsene dopo la scomparsa di Saddam. Gli americani e i loro alleati sembravano avere un piano per sradicare i baatisti in modo rapido ed efficiente, basato su bugie e disinformazione sul possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. Tuttavia, non avevano alcun piano o interesse a ricostruire il Paese e lo Stato in seguito. “Missione compiuta”, hanno detto nel maggio 2003.

Il terribile risultato era indiscutibile. L’Iraq è rapidamente caduto in preda al caos, al conflitto e all’instabilità, ha registrato un numero incalcolabile di morti e sfollati e l’erosione della sanità, dell’istruzione e dei servizi di base. Dietro le statistiche, ci sono storie indicibili di agonia e sofferenza. La violenza strutturale e politica si riverserebbe nella violenza sociale e domestica, colpendo donne e bambini. Per ogni vita persa, un’intera famiglia viene distrutta. Fin dal primo giorno si sono create le condizioni per l’emergere di gruppi terroristici e milizie”.

È ormai un cliché, ma una frase irachena cattura una nuova e profonda realtà: “Saddam se n’è andato, ma altri 1.000 Saddam lo hanno sostituito”. 

Mentre ci avviciniamo al 20° anniversario dell’invasione, mi viene in mente che non c’è stata alcuna responsabilità o giustizia per le vittime e le loro famiglie. Le persone all’estero e in patria, responsabili della diffusa miseria che caratterizza l’Iraq, negano la realtà. Nel frattempo, il governo ha adottato di recente una serie di misure che reprimono ulteriormente la libertà di parola e le libertà personali, risuonando sempre più con le politiche autoritarie del regime baathista.

Uno dei canti dei manifestanti di tre anni fa era Nureed watan, cioè vogliamo una patria – libera da interferenze straniere, sia dagli Stati Uniti che dall’Iran. A vent’anni dall’invasione, gli iracheni stanno ancora dando la vita per un posto da chiamare casa”.

Vi ho letto solo alcuni stralci, se leggete l’inglese vi raccomando la lettura completa. 

Oggi arriva a Mosca Xi Jinping, che si fermerà fino a mercoledì. Non vi voglio però parlare di questo, ma ne parleremo inevitabilmente nei prossimi giorni, ma invece del mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin.

A dire il vero, il mandato di arresto è stato emesso anche nei confronti di Maria Lvova-Belova. Vi leggo il motivo nelle parole di nello Scavo su Avvenire: “La Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato d’arresto per Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova. Sono accusati di crimini di guerra, in particolare della deportazione illegale di bambini ucraini. Il presidente Putin secondo l’accusa sarebbe responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale bambini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa. I crimini sarebbero stati commessi nel territorio occupato dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022”.

Ma che valore ha? Quante possibilità ci sono che Putin verrà effettivamente arrestato? Poche a quanto pare. L’arresto scatterebbe immediatamente se Putin si trovasse in uno dei 123 paesi che riconoscono la Corte (fra cui non c’è la Russia).

Intervistata da Patrizia Maciocchi sul Sole 24 ore, Paola Gaeta, ordinario di diritto internazionale penale al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra afferma: “Le prospettive di arresto sono minime. Direi che non è pensabile che si consegni, molto improbabile che venga rovesciato e dunque estradato all’Aja. Altrettanto scarse sono le possibilità che “viaggi” in Europa o in paesi nemici”.

Ciò non significa che questo mandato non avrà ripercussioni. la più immediata, sempre secondo l’analista, è quella di allontanare la possibilità di negoziati di pace. “Sarà difficile che Putin potrà sedersi ad un tavolo di trattative al di fuori di una sua zona “franca”. Credo che la pace sia decisamente più lontana”.

A proposito di arresti, dagli Usa Donald Trump riprende a soffiare sul fuoco della rivolta. Dal suo account Truth, il social network da lui creato dopo essere stato bannato da Twitter, scrive: «Fughe di notizie illegali dal corrotto ufficio del procuratore di Manhattan indicano che l’ex presidente degli Stati Uniti sarà arrestato martedì della prossima settimana (sarebbe domani). Manifestiamo, riprendiamoci il paese». 

L’Arresto, a detta dell’ex inquilino della Casa Bianca, potrebbe avere luogo «senza che ci sia nessun reato dimostrato». Trump parla di «sogno americano morto. Gli anarchici della sinistra radicale hanno rubato le elezioni e il cuore del nostro Paese. Il crimine e l’inflaizone stanno distruggendo il nostro stile di vita».

Ma di che parla Trump? Al di là dei toni come sempre abbastanza assurdi, c’è una storia vera sotto. La storia vera è che Trump è accusato di aver pagato 130.000 dollari alla pornostar Stormy Daniels per comprare il suo silenzio sulla loro relazione. L’accusa però non riguarda tanto il fatto che Trump abbia pagato Daniel, quanto come lo abbia fatto. 

Perché Trump avrebbe fatto un giro illegale di soldi, pagando un suo collaboratore alla Casa Bianca Michael Cohen che avrebbe poi materialmente pagato a Daniels. Alle autorita’ di New York Cohen ha confessato che l’ex presidente sapeva tutto e lo rimborsava mensilmente con finti pagamenti per spese legali, in violazione delle norme sul finanziamento della campagne elettorali.

Secondo i giornali Trump potrebbe essere incriminato già questa settimana dal Tribunale di New York. Poi, come ricorda un articolo di Ansa, Trump è indagato per un sacco di altri reati: ad esempio c’è un’inchiesta civile su degli asset di sue aziende che l’ex presidente avrebbe gonfiato per un valore di miliardi di dollari. Un’altra penale su possibili interferenze di Trump e dei suoi alleati alle elezioni del 2020. Un’altra sempre penale su come Trump ha gestito i documenti classificati una volta uscito dalla Casa Bianca (le famose perquisizioni nella villa di Mar a lago in Florida). Infine ci sono le indagini sull’assalto al Congresso.

Insomma, di motivi per far finire Trump dietro le sbarre ce ne sarebbero diversi. Al netto di questo, è un po’ sospetta la coincidenza nelle tempistiche, che in effetti potrebbe far pensare a una incursione politica della giustizia americana. Come scrive Josef Ax sul Sole 24 ore “un caso penale medio a New York richiede più di un anno per passare dall’accusa al processo, e il caso di Trump è tutt’altro che tipico. Questo solleva la possibilità che Trump debba essere processato nel bel mezzo della campagna presidenziale del 2024, o addirittura dopo il giorno delle elezioni, anche se mettere un presidente eletto o un presidente sotto processo per le accuse di uno Stato significherebbe entrare in acque inesplorate”.

In Francia proseguono le proteste in seguito all’approvazione da parte di Macron e del governo, bypassando il parlamento, della riforma delle pensioni. 

Scrive Matthieu Goar su le Monde: “A Digione, quattro manichini raffiguranti Emmanuel Macron, il primo ministro Elisabeth Borne, il ministro del Lavoro Olivier Dussopt e il portavoce del governo Olivier Véran sono stati imbrattati con lo spray e poi bruciati. “A Parigi, in Place de la Concorde, la polizia, bombole di gas lacrimogeno alla mano, ha gasato la prima linea di manifestanti. Stesse scene la sera di venerdì 17 marzo a Parigi, Lille, Bordeaux e Lione, dove alcuni individui sono entrati nel municipio del IV arrondissement prima di “tentare di appiccare il fuoco”, secondo la prefettura. Il giorno dopo l’entrata in vigore della legge 49.3 sulla riforma delle pensioni, l’Eliseo e Matignon non hanno potuto fare a meno di notare le ripercussioni politiche e sociali.

Una maggioranza intontita da una parte, manifestanti radicalizzati dall’altra… Intorno al capo dello Stato, l’atmosfera è di estrema vigilanza. Da venerdì mattina, il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, ha dato istruzioni ai prefetti: sorvegliare le manifestazioni, evitare la “radicalizzazione” delle piazze, proteggere i simboli della Repubblica, stare attenti al blocco delle strade e alle interruzioni dell’elettricità… Le forze dell’ordine devono anche chiamare i parlamentari per sapere se hanno bisogno di protezione. “È difficile sapere come si evolverà la situazione”, riassume un consigliere del governo.

Insomma, la situazione è estremamente tesa e l’analisi di molti giornali è che Macron dopo questa mossa sia politicamente molto più fragile e isolato. Oggi sono attese alcune votazioni importanti in Parlamento, che potrebbero anche decretare la sfiducia verso il governo. 

Io nel frattempo ho un po ‘pensato a tutta questa cosa, perché non sapevo bene che chiave di lettura dare a tutta questa vicenda. Perché da un lato ho letto tante analisi che criticano fortemente il governo Macron, per le sue politiche liberiste, che distruggono lo stato sociale francese. Che ci sta come analisi, ma mi lascia un po’ insoddisfatto, mi sembra una lettura molto facile. 

Il fatto è che le pensioni stanno diventando un problema vero in quasi tutti i paesi occidentali. Questo avviene perché c’è un invecchiamento generale della popolazione. La vita media si allunga (a parte in questi ultimi anni) e le nascite calano. Quindi sempre meno persone in età lavorativa pagano sempre più persone in pensione. I governi si barcamenano come meglio possono (o a volte anche no), ma fatto sta che non è che se ne esce tanto facilmente. In genere quello che fanno è da un lato cercare di incentivare le nascite con politiche e campagne ad hoc, dall’altro alzare l’età pensionabile. 

Ma abbiamo anche visto che cercare di continuare a spingere la natalità della nostra specie, su un pianeta finito, è una strategia piuttosto miope. Al tempo stesso, anche continuare a innalzare l’età pensionabile, può durare fino a un certo punto. La soluzione già pronta non esiste, perché la nostra società è stata pensata sulla base della continua crescita della popolazione (oltre che del Pil, della produzione, dei consumi, di tutto) ma credo che dobbiamo inserire alcuni elementi nel ragionamento, sennò non ne usciamo. Bisognerà per forza mettere in discussione il lavoro per come lo conosciamo, così come la crescita economica, e inventare nuovi modi per distribuire reddito. Sennò, magari si può fare un po’ meglio di Macron, ma staremo soltanto rimandando l’inevitabile.

Mappa

Newsletter

Visione2040

Mi piace


La Grecia vieterà la pesca a strascico, primo paese in Europa – #920

|

L’assalto eolico è ingiustizia climatica: le conseguenze sul patrimonio culturale sardo

|

Franco D’Eusanio e i vini di Chiusa Grande: “È un equilibrio naturale, noi non interveniamo”

|

L’arte collettiva del sognare: il social dreaming arriva in Liguria

|

Quanto inquinano gli aerei? Ecco cosa dicono i dati e le leggi

|

No border books, un kit di benvenuto per i piccoli migranti che approdano a Lampedusa

|

Intelligenza artificiale in azienda: ci sostituirà o ci renderà il lavoro più facile?

|

HandiCREA e il sogno di Graziella Anesi di un turismo accessibile e inclusivo

string(9) "nazionale"