13 Ott 2023

Israele-Palestina, le ragioni del conflitto spiegate – #811

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Mentre a Gaza continuano i bombardamenti dell’esercito israeliano dopo gli attacchi di Hamas dello scorso weekend, forse è giunto il momento per capirla bene questa faccenda. Perché il modo migliore, o perlomeno il primo passo per provare a fermare un conflitto è comprenderlo. E allora beccatevi questo speciale su quello che sta succedendo fra Israele e Palestina, con qualche chiave di lettura che magari può esservi utile a comprendere meglio l’attualità.

Va bene, torniamo sul tema che continua ad aprire le homepage di tutti i giornali del mondo, il conflitto israelo-palestinese. Ci sono tre aspetti che mi sembra interessante affrontare: il primo è capire come stanno le cose al momento, quindi gli aggiornamenti, i fatti, cosa sta succedendo. Il secondo è approfondire alcuni aspetti che ci aiutano a capire meglio il conflitto, ad esempio capire cosa sono i Kibbutz, cosa sono le colonie palestinesi e così via, e infine qualche riflessione a più ampio respiro, sia sulle conseguenze di tutto ciò, sia su come ne continuano a parlare i giornali. 

Comunque, partiamo con gli aggiornamenti. Stanno continuando i violenti bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza, che hanno causato fin qui almeno 1200 morti e migliaia di feriti. Il già precario sistema sanitario di Gaza è completamente al collasso e mentre gli edifici crollano sotto i bombardamenti, le persone si rifugiano dove possono, alcune scappano per strada e chiamano ambulanze che non arrivano mai, come descrive la giornalista palestinese Plestia Alaq in un videoblog. 

Netanyahu, premier israeliano, ha invitato i civili palestinesi ad abbandonare la Striscia di Gaza lasciando intendere che farà piazza pulita di tutto, ma il problema principale è che, al di là della volontà o meno di abbandonare le proprie terre, non possono. 

Come riporta Limes, “alla luce dell’assedio totale imposto dalle Forze armate di Israele all’exclave palestinese, come unica potenziale via di fuga resta il valico meridionale di Rafah al confine con l’Egitto, attualmente chiuso. Il Cairo non sembra al momento propenso ad accogliere centinaia di migliaia di sfollati, temendo sia l’infiltrazione di terroristi spalleggiati dai Fratelli musulmani sia l’insediamento a tempo indeterminato dei palestinesi nel Sinai. Per questo, il presidente Abdel Fattah al-Sisi propone una più cauta tregua di sei ore volta a trasferire nella Striscia beni di prima necessità. Ma Gerusalemme teme in questo caso il contrabbando di armi in favore di Hamas”.

Intanto, cambiano le cose anche nella politica interna israeliana: Netanyahu infatti ha proposto e realizzato nel giro di poche ore un nuovo governo di unità nazionale, che sempre Limes definisce un Gabinetto di guerra. Netanyahu ha infatti trovato un accordo con il generale ed ex premier supplente Benny Gantz, allargando così la maggioranza parlamentare, sia per poter fronteggiare quelli che considera i nemici di Israele – ovvero Hamas) ed Hezbollah principalmente – sia per ricomporre (temporaneamente) le spaccature politiche interne allo Stato ebraico. 

Poi c’è un ultimo aggiornamento di ieri. Nel pomeriggio ci sarebbero stati Raid israeliani sugli aeroporti di Damasco e Aleppo, in Siria. Non so bene come interpretare questa cosa, che mi ha lasciato abbastanza basito. Se come la volontà di Israele di allargare il conflitto a una guerra regionale, che coinvolga anche la Siria e forse l’Iran, oppure se come una “semplice” ritorsione per il (di poco) precedente incontro fra i presidenti di Iran e Siria che avevano esortato i paesi islamici a raggiungere un accordo su una posizione a sostegno dei palestinesi: il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva invitato “I paesi islamici e arabi, così come tutti i popoli liberi del mondo” a “raggiungere un’unica posizione per fermare i crimini del regime sionista contro il popolo palestinese oppresso”

Mercoledì, invece, Raisi e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, Principe ereditario dell’Arabia Saudita, hanno discusso del conflitto israelo-palestinese nella prima telefonata tra loro da quando i loro paesi hanno concordato in un accordo di marzo, mediato dalla Cina, di riprendere i legami. Anche questo è interessante, si fa per dire, da osservare, perché potrebbe compromettere i recenti tentativi di apertura fra Israele e Arabia Saudita.

Questi sono all’incirca gli aggiornamenti. Ora, veniamo agli approfondimenti e alle chiavi di lettura. Come prima cosa vorrei darvi una serie di elementi, di vocabolario, per comprendere meglio il conflitto. Quindi per capire che cos’è Hamas, cos’è l’ANP, Hezbollah, cosa sono i Kibbutz e le colonie israeliane.

Partiamo da queste ultime. Un articolo di qualche mese fa del Post spiegava bene che cosa sono le colonie israeliane, un concetto citato spesso e spiegato quasi mai in questi giorni, e del quale non è detto che tutte e tutti siamo a conoscenza. 

In pratica ci sono decine di colonie israeliane nei territori che secondo gran parte della comunità internazionale appartengono ai palestinesi, cioè Gerusalemme est e la Cisgiordania, e che dovrebbero far parte di un futuro stato palestinese. Queste colonie israeliane, prima ancora dei fatti recenti, erano comunque ritenute il principale ostacolo a una pace duratura fra israeliani e palestinesi e sono spesso al centro delle violenze e tensioni che coinvolgono ciclicamente questo pezzo di mondo.

Queste colonie israeliane furono fondate dopo la fine della Guerra dei sei giorni del 1967 fra Israele e una coalizione di stati arabi che in parte difendevano gli interessi dei palestinesi. Alla fine della guerra, Israele conquistò tutta la Cisgiordania e l’intera città di Gerusalemme, di cui la parte ovest faceva già parte del suo territorio, mentre la parte est, abitata soprattutto da palestinesi, dal 1948 fino a quel momento aveva fatto parte della Giordania.

Le conquiste fatte da Israele durante la Guerra dei sei giorni non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale, che fin dalla Seconda guerra mondiale sostiene la necessità di creare uno stato palestinese (la cosiddetta soluzione a due stati, che assegnerebbe alla Palestina tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e la strisia di Gaza). Solo che nel frattempo le colonie illegali israeliane, sostenute dai vari governi di destra che si sono succeduti, si sono allargate e se guardate la mappa della Cisgiordania, al momento sono più le zone “colonizzate” da Israele che quelle governate dai palestinesi. 

Fra l’altro spesso gli israeliani che vanno ad abitare queste colonie, sono i più nazionalisti, fondamentalisti, e lo fanno perlopiù proprio per ragioni politiche e religiose, il che ovviamente non facilita la convivenza con i palestinesi, di etnia araba e in gran parte musulmani. 

La conformazione attuale della Cisgiordania fa ritenere il progetto dei due stati ormai morto e sepolto, nella pratica, perché inaccettabile per Israele che dovrebbe rinunciare alle proprie colonie sempre più numerose, ma tenuto in vita artificialmente in modo che la comunità internazionale possa almeno dire di avere un piano.

Un altro argomento poco spiegato, ma su cui cercando un po’ ci si riesce a chiarie le idee, è la morfologia politica interna della Palestina. In pratica la Palestina è governata da due entità diverse. La striscia di Gaza è governata da Hamas, un movimento politico militante/militare islamico noto soprattutto per la sua lotta armata contro Israele. Decine di Paesi – tra cui Israele, Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito – hanno designato Hamas come organizzazione terroristica, anche se alcuni applicano questa etichetta solo alla sua ala militare.  

La Cisgiordania invece è governata, perlomeno nelle sue parti palestinesi, da una serie di governatori locali e da un governo diciamo nazionale, che è quello più riconosciuto a livello internazionale. La massima carica statale è il presidente dello Stato, che è anche Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dell’Autorità Nazionale Palestinese. Lo avrete sentito nominare spesso in questi giorni soprattutto per il suo silenzio sui fatti recenti: si chiama Abu Mazen, kunya (pseudonimo) di Mahmoud Abbas. Il suo è un governo considerato molto debole al momento. Abu MAzen è un leader vecchio e stanco, Il 10 agosto scorso, nel tentativo di recuperare autorevolezza, dopo mesi di Intifada e morti, ha rimosso 12 governatori locali su 15, ma da allora di fatto la Cisgiordania è in uno stato di autogoverno. L’attacco di Hamas dei giorni scorsi è stato secondo molti anche un modo di dichiarare una volta per tutti qual è la forza politica principale nei territori palestinesi.

A completare il quadro politico palestinese c’è il Jihad islamico palestinese, partito più piccolo di Hamas ma più estremista, il cui scopo è letteralmente la distruzione di Israele. 

E poi sullo sfondo c’è Hezbollah, che palestinese non è ma che potrebbe essere un aiutante di Hamas, partito armato libanese filo-iraniano nato negli anni ’80 del secolo scorso come resistenza islamica all’occupazione israeliana del sud del Libano. Ecco, questa è la geografia politica di quei territori. 

Un’altra parola che avrete sentito nominare in questi giorni è Kibbutz. Infatti ha circolato molto la notizia che i miliziani del gruppo palestinese Hamas avrebbero, durante il loro attacco a Israele dello scorso 7 ottobre, ucciso decine di civili, tra cui anche bambini, che si trovavano nei kibbutz di Urim, Be’eri e Re’im, situati a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza.

Ma che cosa sono? I kibbutz sono una forma sociale interessante. Come racconta Giovanni Esperti su Wired, “I kibbutz, termine che significa “ritrovo”, sono dei piccoli villaggi israeliani autosufficienti, in cui viene condotta una vita basata sui principi della condivisione dei beni e sulla democrazia diretta. Si tratta di strutture nate all’inizio del Novecento come società agricole di persone che gestiscono il territorio seguendo pratiche comunitarie.

Nei kibbutz si mangia e si cucina tutti insieme e vige la completa uguaglianza tra uomini e donne, che hanno stessi diritti e che, fino a pochi anni fa, ricevevano uguali stipendi per il lavoro svolto. I membri dei “kibbutz” sono nella maggior parte dei casi impiegati nella coltivazione dei campi o nelle fabbriche che si trovano all’interno della comunità. Altri si occupano dell’educazione dei minori. Ogni kibbutz ospita dai cento ai mille membri.

Va bene, veniamo alle chiavi di lettura del conflitto. Segnalo un articolo del Corriere della Sera che a sua volta riprende un editoriale di Thomas Friedman sul NYT (ringrazio la collega Francesca Nicastro per avermelo segnalato assieme a diversi altri articoli che citerò oggi). Thomas Friedman è probabilmente il giornalista che ha seguito più a lungo e in maniera più approfondita la questione israelo-palestinese. È cresciuto in un kibbutz israeliano come quelli colpiti dall’attacco palestinese, quindi non è proprio super partes, ma è intellettualmente onesto. 

E che cosa ci dice? Come legge la situazione? Parte dicendo che l’attentato di hamas a Israele è del tutto anomalo. Scrive: “Mi occupo di questo conflitto da quasi 50 anni e ho visto israeliani e palestinesi fare molte cose terribili gli uni agli altri: attentatori suicidi palestinesi che fanno saltare in aria discoteche e autobus israeliani; caccia israeliani che colpiscono quartieri di Gaza che ospitano combattenti di Hamas, ma che causano anche ingenti vittime tra i civili. Ma non ho mai visto qualcosa di simile a ciò che è accaduto lo scorso fine settimana: singoli combattenti di Hamas che radunano uomini, donne e bambini israeliani, li guardano negli occhi, li uccidono e, in un caso, fanno sfilare una donna nuda per Gaza al grido di “Allahu akbar”.

Secondo il giornalista questa estrema violenza si spiega con la volontà di creare una reazione altrettanto violenta. Vi spiego la sua tesi che mi pare interessante: il punto di partenza è l’avvicinamento in corso tra Israele e Arabia Saudita, che decreterebbe la fine di ogni speranza di autodeterminazione per i palestinesi. Il 3 ottobre alcuni ministri del governo israeliano si sono recati a Riad, in Arabia Saudita, per la loro prima visita ufficiale in assoluto. L’accettazione di israele da parte di una parte del mondo arabo è una grande notizia per Israele, ma una pessima notizia per i palestinesi.

Significa che anche il più influente Stato arabo — l’epicentro dell’Islam sunnita, il Paese che custodisce i luoghi santi, l’alleato di cui l’America ha provato a fare a meno senza riuscirci — decide di smettere di difendere per coltivare il proprio esclusivo interesse geopolitico ed economico, quello di una normalizzazione dei rapporti con l’eterno nemico sionista. 

È il trionfo, continua il giornalista, del disegno del sionismo revisionista, la corrente di destra del movimento nazionale ebraico. 

E qui si inserisce, secondo Friedman, il disegno di Hamas: «Credo che uno dei motivi per cui Hamas non solo ha lanciato ora questo assalto, ma ha anche apparentemente ordinato che fosse il più omicida possibile, sia stato quello di scatenare una reazione eccessiva di Israele, come un’invasione della Striscia di Gaza, che avrebbe portato a massicce vittime civili palestinesi e in questo modo avrebbe costretto l’Arabia Saudita a fare marcia indietro dall’accordo mediato dagli Stati Uniti». Non solo i sauditi: la contro-carneficina metterebbe a rischio anche gli Accordi di Abramo (con Emirati e Bahrein, quindi con tutta la pensiola).

Friedman analizza poi un lato particolare dell’attacco di hamas, ovvero che ha colpito, paradossalmente, l’anima progressista di Israele, la più lontana dagli integralisti, la più attraente per i palestinesi che vorrebbero una vita normale, senza nemici che ti privano della terra e senza fanatici che ti privano della libertà: a subire l’assalto terroristico sono state «le case degli abitanti dell’Israele pre-1967, dell’Israele democratica, dell’Israele progressista, che viveva in kibbutz pacifici o andava a una festa in discoteca. Forse anche questa scelta potrebbe andare nell’ottica dello scontro frontale di favorire la risposta violenta e compatta di Israele.

Una strategia che appare speculare a quella di Netanyahu, che paradossalmente ha sempre preferito parlare con Hamas che con L’Autorità palestinese. «Netanyahu non ha mai voluto che il mondo credesse che esistono “palestinesi buoni” pronti a vivere in pace accanto a Israele e a cercare di coltivarli. Per anni ha sempre voluto dire ai presidenti degli Stati Uniti: Cosa volete da me? Non ho nessuno con cui parlare da parte palestinese». Lo ha scritto bene anche Chuck Freilich, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, in un saggio pubblicato domenica su Haaretz: «Per un decennio e mezzo il primo ministro ha cercato di istituzionalizzare la divisione tra la Cisgiordania e Gaza, di minare l’Autorità palestinese, e di condurre una cooperazione de facto con Hamas, il tutto per dimostrare l’assenza di un partner palestinese e per garantire che non ci potesse essere un processo di pace che avrebbe potuto richiedere un compromesso territoriale in Cisgiordania»

Ma quindi che dovrebbe fare Netanyahu, per non cadere in questa sorta di trappola? Il giornalista sembra avere le idee abbastanza chiare. Dare spazio alle voci più progressiste e pacifiche della sua società e instaurare un dialogo vero con le parti pacifiche della società palestinese. Creare un governo di unità nazionale ma diverso da quello appena varato, che includa l’opposizione, e rinunciare alle sue ambizioni di riformare la giustizia in chiave autoritaria, aprendo invece a una maggiore democrazia. Un auspicio interessante e intelligente, mi pare, anche se al momento appare poco probabile. 

Va bene, fine degli approfondimenti, spero vi possano tornare utili per leggere meglio le notizie di attualità. Veniamo al commento. Continuo ad avere sensazioni contrastanti. Da una parte c’è lo sgomento per la faziosità e l’ipocrisia con cui molti, non tutti, ma media occidentali, e ancor prima i governi occidentali, stiano trattando queste notizie. Dai governi ovviamente me lo aspetto, anche dai media un po’, però mi sembra che stiano rasentando l’imbarazzante. 

Israele opprime da decenni i palestinesi, e mi provoca molta rabbia vedere come i giornali sorvolino completamente su questi fatti e sugli attuali bombardamenti 

Al tempo stesso non voglio cadere nella tentazione di ragionare per opposizione e avallare le tesi di chi giustifica un atto di terrorismo. Ovvio che ci sono delle ragioni storiche per cui Hamas è arrivato a tanto, ovvio che il conflitto israelo-pakestinese è un conflitto impari, in cui per ragioni storiche c’è un oppresso e un oppressore, e che il terrorismo è spesso l’arma dei deboli, ma è un’arma vile e crudele e non è l’unica arma. Fra l’altro storicamente la nonviolenza (Gandhi ma non solo) ha ottenuto risultati migliori. Uccidere ragazzi e ragazze che stavano partecipando a un festival/rave, bambini e famiglie di una comunità agricola non è giustificabile. 

A livello sociale osservo, nuovamente, come questa faccenda stia diventando nuovo e ulteriore motivo di divisione sociale, polarizzazione, polemiche e così via. Tutte dinamiche che alimentano il conflitto, invece di placarlo. Di nuovo c’è chi giustifica completamente Hamas per l’attacco terroristico, in cui sono morti centinaia di civili, bambini e così via, e c’è chi sorvola o giustifica sulla risposta del governo israeliano che sta uccidendo altrettanti e forse più civili con bombe di stato sui palazzi di Gaza. E questo non mi piace.

La mia reazione emotiva è, ve la dico brutale, “che palle!”. Mi pare una cosa talmente narcisistica/egoica. Non parlo ovviamente di chi il conflitto lo vive sulla propria pelle, ma di noi resto del mondo che usiamo ogni scusa per posizionarci, per definirci come esseri umani e membri di un gruppo, per rivendicare la nostra esistenza e la nostra personalità. Davvero, non ce n’è bisogno. Lavoriamo per la pace piuttosto, o al limite facciamoci i fatti nostri. 

Scusate se uso termini poco giornalistici, come mi piace/non mi piace, o tiro in ballo questioni emotive, ma la guerra è emotività, e credo che vada espressa sennò diventa fuoco di ulteriore conflitto.

Per concludere, vi voglio segnalare alcune esperienze che lavorano davvero alla risoluzione del conflitto. Come ad esempio il Parents Circle – Families Forum, un’organizzazione congiunta israelo-palestinese di oltre 600 famiglie, che hanno tutte perso un familiare a causa del conflitto decennale. 

Il Parents Circle-Families Forum è stato creato nel 1995 da Yitzhak Frankenthal e da alcune famiglie israeliane.  Il primo incontro tra famiglie palestinesi di Gaza in lutto e famiglie israeliane ha avuto luogo nel 1998.  Queste famiglie si sono identificate con l’appello a prevenire il lutto, a promuovere il dialogo, la tolleranza, la riconciliazione e la pace. 

O come Rondine Cittadella della pace, il centro in provincia di Arezzo che da anni lavora con gruppi di giovani provenienti da nazioni in conflitto per sviluppare una cultura della pace. Di cui alcuni giornali pubblicano anche una bella lettera, sulla pace. Penso che se dobbiamo ripartire da qualche parte per sanare le ferite sempre più profonde che stiamo creando, dobbiamo farlo da esperienze come queste. 

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