31 Mar 2023

Medici a gettone, stop del governo? – #701

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Nel decreto bollette, oltre a una serie di misure contro il caro energia, è inclusa una norma per scoraggiare la pratica dei medici a gettone. E allora capiamo in cosa consiste e cosa cambia per la sanità pubblica. Parliamo anche del problema dei jet privati in Italia e in Europa, dell’assenza del clima da giornali e telegiornali nostrani, e infine di due notizie legate alle auto (incluso un nuovo bias cognitivo appena scoperto).

Nella notte l’ex Presidente Usa Donald Trump è stato incriminato e adesso rischia l’arresto con l’accusa di aver pagato in maniera illegale la pornostar Stormy Daniels per nascondere la loro relazione. La notizia non compare ancora sulla carta stampata di oggi, se non in qualche piccolo trafiletto. Domani ne parleremo più ampiamente.

Due giorni fa, mercoledì, il consiglio dei ministri ha dato il via libera al cosiddetto “decreto bollette”, il cui nome per esteso è “decreto con misure a sostegno di famiglie e imprese contro il caro bollette e interventi in favore del settore sanitario”. Si tratta di un provvedimento che stanzia 4,9 miliardi di euro di aiuti economici che servono sostanzialmente a contrastare il caro energia.

Contiene perlopiù misure di aiuti vari a famiglie e imprese nel pagamento delle bollette di luce e gas, e si tratta in quasi tutti i casi di proroghe di misure precedenti, tipo il bonus sociale e lo sconto sulle bollette di luce e gas per le famiglie con Isee fino a 15 mila euro. O tipo la riduzione dell’Iva al 5% e l’azzeramento degli oneri di sistema nelle bollette del gas, idem per il teleriscaldamento e per l’energia prodotta con il gas metano.

L’unica – mi pare – novità sul fronte bollette ed energia è l’introduzione di un nuovo “incentivo al risparmio energetico” per tutti i cittadini, senza limiti di reddito, che consiste in un contributo, che partirà dal prossimo 1 ottobre e durerà fino al 31 dicembre 2023, che andrà a compensazione delle spese di riscaldamento, in quota fissa e differenziato in base alle zone climatiche. Che non ho capito in cosa dovrebbe essere un incentivo al risparmio energetico.

Comunque, oltre a queste misure, ce n’è un’altra contenuta sempre nel decreto, che però non c’entra nulla con il caro bollette e che secondo me è la cosa più interessante, che vorrei approfondire. Ne parlo a partire da un articolo di Costanza Giannelli su La Svolta che si chiama “Medici a gettone, addio?”. 

Oltre alle misure per contrastare il caro-energia, infatti, il testo contiene alcuni articoli che puntano a arginare il fenomeno noto come dei “medici a gettone”, ovvero delle esternalizzazioni negli ospedali.

Per capire di cosa stiamo parlando dobbiamo capire chi sono questi medici a gettone, e perché sono diventati un problema per la sanità pubblica. “Si tratta – leggo – di neolaureati, pensionati o liberi professionisti che lavorano a chiamata all’interno degli ospedali pubblici ma attraverso cooperative esterne; tra loro ci sono anche i medici stranieri che non sono ammessi ai concorsi pubblici (per cui è necessario il requisito della cittadinanza) e chi ha lasciato il Servizio sanitario nazionale (Ssn) ma rientra dalla porta di servizio, con stipendi e condizioni lavorative migliori degli ex colleghi.

Solitamente lavorano nei festivi o nel week-end per tamponare i turni scoperti (ma non solo) con turni di 12 ore. La loro storia inizia da lontano ed è indissolubilmente legata ad anni di riforme del sistema sanitario che hanno progressivamente svuotato il servizio pubblico di risorse e, soprattutto, di specialisti. Per sopperire alla mancanza di personale che sta mettendo in crisi tutti i reparti, e in particolare il pronto soccorso, infatti, gli ospedali pubblici possono rivolgersi a terzi, vale a dire cooperative che forniscono personale medico.

Questi medici a chiamata vengono chiamati soprattutto nei reparti di medicina d’urgenza, ma sono spesso presenti anche in Pediatria, Ginecologia e Ostetricia”.

L’articolo cita poi alcuni dati della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza secondo i quali ad esempio “in Veneto fa ricorso ai medici a gettone il 70% degli ospedali, il 60% in Liguria, il 50% in Piemonte. Ma anche se con percentuali diverse, la pratica è radicata in tutto il Paese. In Lombardia i turni gestiti dalle cooperative sono oltre 45.000, 42.061 in Veneto, 14.400 in Piemonte.

Insomma, parliamo di un fenomeno macroscopico che ha effetti disastrosi sia sulle casse che sulla qualità del servizio pubblico. Sulle casse perché le prestazioni che vengono corrisposte per i servizi a gettone di questi professionisti sono altissime, perché devono coprire il costo del medico (che è più alto di chi nel pubblico ci lavora, e quello della cooperativa che fa da tramite. Parliamo spesso – vado un po’ a memoria qui – di oltre mille euro a giornata di lavoro.

La spesa lorda sostenuta dalle aziende sanitarie per il personale medico delle cooperative nel 2020 è stata di 6,3 milioni. Nel 2022 è salita a 23,3 milioni. Il costo orario per il personale strutturato è di 49,45 euro, mentre un gettonista costa alle casse pubbliche 99,26 euro l’ora, esattamente il doppio.

Sulla qualità perché non c’è il minimo controllo su chi arriva. Non ci sono nemmeno delle linee guida condivise a livello nazionale. In Emilia-Romagna, ad esempio, è necessario che abbiano una specializzazione, ma questo non vale in altre regioni, dove l’unico requisito è l’iscrizione all’Albo. L’indagine dei Nas e del Ministero della Salute, che hanno effettuato verifiche a campione su 1.525 medici delle cooperative, ha trovato “dottori arruolati come ostetrici senza nessuna formazione per fare i parti cesarei, altri in Ps [pronto soccorso, ndr] senza avere competenze in Medicina d’Urgenza, oppure già dipendenti di altri ospedali che facevano di nascosto i doppi turni per la cooperativa, altri ancora sopra i 70 anni e dunque fuori per legge dal servizio sanitario”. 

Per non parlare di neolaureati senza specializzazione o esperienza che si trovano a prendere decisioni o effettuare diagnosi. In più senza controlli (a esempio sulla durata dei turni) e con una scarsa conoscenza delle strutture in cui si trovano a operare.

Questa situazione è figlia non solo dei tagli alla sanità pubblica ma di una serie di calcoli sbagliati nei numeri chiusi delle università negli scorsi anni, che ha fatto sì che non ci fossero abbastanza specialisti formati per far fronte ai pensionamenti di questi anni. Un problema di cui si parla da anni e a cui la politica non ha trovato soluzione migliore che questa di passare attraverso le cooperative, che avendo maglie più larghe possono aggirare gli ostacoli e i paletti del servizio pubblico. Insomma, lo stato dà le chiavi di casa ai privati e lascia fare a loro le porcate che lui non può fare.  

Con fra l’altro l’ulteriore complicazione che il sistema a gettone è diventato una scelta più comoda per molti professionisti, perché si lavora meno, con meno responsabilità e si guadagna di più. Secondo Dataroom, il format del Corriere della Sera a cura di Milena Gabanelli “un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 euro lordi all’ora, per 6 ore e 20 minuti al giorno da contratto (che però vengono sempre superate) per 267 giorni l’anno. In totale il salario annuo lordo è poco più di 85.000 euro. Gli stessi soldi un medico a gettone li guadagna facendo 84 turni da 12 ore, poiché la paga oraria minima nel suo caso è di 87 euro lordi. Certo, a suo carico il gettonista ha ferie e malattia, ma c’è chi arriva a cumulare anche 20 turni al mese con uno stipendio che cresce esponenzialmente”. Fra l’altro con la flat tax ci paga anche meno tasse. Quindi si capisce che a meno di una vocazione al martirio… 

Fatta questa lunghissima premessa, cosa cambia adesso? L’obiettivo del Governo, col nuovo decreto, è diminuire i costi e alzare la qualità del servizio, rendendo allo stesso tempo meno attrattivo per i medici il percorso da “gettonista”.

Più nello specifico gli appalti esterni potranno essere della durata di massimo un anno “solo in caso di necessità e urgenza” (richiesti in una sola occasione e senza alcuna possibilità di prorogare il servizio) saranno limitati alle aree critiche, i pronto soccorso e a medici specializzati.

Inoltre i servizi potranno essere appaltati esternamente solo nell’effettiva impossibilità di reclutare personale già in servizio o idonei in graduatoria e dopo aver valutato la possibilità di inserire personale medico-infermieristico con una procedura autorizzata. Anche i prezzi per l’acquisto del servizio saranno regolamentati (con apposito decreto del Ministero della Salute, da emanarsi entro 90 giorni e dopo il parere dell’Anac) per garantire “equità retributiva” a parità di prestazione lavorative con i medici del Ssn.

Infine c’è una stretta sul personale del servizio pubblico che decide di uscirne volontariamente per lavorare per un privato che lavora in appalto per il pubblico: a questi lavoratori sarà preclusa la possibilità di essere nuovamente assunti dal Ssn.

In parallelo il testo prevede una serie di misure per sopperire alla mancanza di personale, tipo: 

  • l’incremento delle tariffe orarie per gli straordinari nei reparti di pronto soccorso, 
  • l’aumento delle assunzioni, con lo stanziamento di 200 milioni di euro di incentivi. 
  • La possibilità, per chi negli ultimi dieci anni ha lavorato in pronto soccorso per almeno 3 anni, di partecipare ai concorsi di Medicina e chirurgia anche senza specializzazione.
  • La possibilità per gli specializzandi di prestare servizio nei reparti di Pronto soccorso
  • Infine, fino al 31 dicembre del 2025, la possibilità anche per chi ha una qualifica professionale conseguita in un altro Stato, di esercitare l’attività sanitaria in deroga alle norme sul riconoscimento dei titoli esteri.

Eccoci qua. Fine della storia. Ora, non ho le competenze per dire se è una misura sufficiente ad aggiustare, raddrizzare la stortura che ha portato al problema dei gettonisti. Però così, a occhio, mi sembra una misura interessante e sensata.

È uscito un report interessante di Greenpeace sui Jet privati. Che mostra come questo tipo di voli, appannaggio di poche persone super ricche, vip, imprenditori, politici, sportivi, stiano aumentando molto in quantità, e di pari passo aumentano le emissioni da essi generate. E pare che l’Italia sia uno dei paesi dove questa tendenza è più accentuata che altrove. Ce ne parla Valentina Neri su Lifegate: “Un’analisi commissionata da Greenpeace Europa centro-orientale svela che, nel 2022, i jet privati sono decollati ben 55.624 volte dai nostri aeroporti. Numeri che collocano il nostro paese al quarto posto nella classifica europea per quantità di voli”.

Lo studio, svolto dalla società olandese di consulenza ambientale Ce Delft, tiene traccia di tutti i voli dei jet privati tra il 2020 e il 2022 in Europa, comprendendo dunque i 27 paesi dell’Unione più Regno Unito, Svizzera e Norvegia. Su scala europea, nel 2021 i voli sono stati poco più di 350mila, nel 2022 invece sono stati 572.806: l’aumento è dunque del 64 per cento in un anno.

Un singolo volo emette tanta CO2 quanta ne emette in media una persona in un anno (non solo per i trasporti, ma in generale). Parliamo di 5-6 tonnellate di CO2. Fa riflettere il fatto che più della metà di questi voli, per la precisione il 55 per cento, abbia percorso meno di 750 chilometri; una distanza che potrebbe essere coperta, in modo veloce e con tutti i confort, anche in treno. La tratta più battuta è Parigi-Londra, seguita da Nizza-Londra e Parigi-Ginevra, ma anche Milano-Roma è messa bene.

Complessivamente dagli aeroporti del nostro paese è decollato circa un volo su dieci, per un totale di 55.624 nel 2022. 152 jet privati ogni giorno. 

Insomma, sono numeri importanti. In questi casi il nostro primo istinto è prendercela con i super ricchi come categoria. Che è comprensibile, ma è un errore logico. In primis perché abbiamo solo dati sui super ricchi che usano i jet privati. Non abbiamo dati su quanti sono ad esempio quelli che scelgono di non avere un jet privato, nonostante potrebbero permetterselo, magari proprio per ragioni legate all’inquinamento.

In secondo luogo perché viviamo in un contesto in cui ancora per molte persone – sempre meno, credo – ma ancora molte, la massima ambizione è fare carriera, il che vuol dire avere un sacco di soldi e pochissimo tempo libero. E il jet privato è l’emblema di queste due cose, un mezzo costosissimo ma che ti permette di andare ovunque in un batter d’occhio. Insomma, per quanto possano starci singolarmente antipatici quelli che hanno e usano un jet privato, non possiamo non cogliere le radici socio-culturali del fenomeno.

Questo per dire che più che prendercela con chi lo fa, che è un atteggiamento un po’ sterile, possiamo lavorare da un lato per cambiare la cultura dominante, dall’altro per stabilire regole e leggi condivise, che regolamentino le emissioni dei jet privati. 

A proposito di cultura condivisa, per quanto il tema sia stato per fortuna sdoganato nel mainstream grazie soprattutto a movimenti come FFF e XR, i telegiornali continuano a parlare poco e male di clima.

Il tema è stato al centro dell’ultima puntata di A tu per Tu, il podcast per abbonati condotto dal nostro direttore Daniel Tarozzi, e davvero vi consiglio di ascoltarvi quella puntata e a rinforzare quanto sosteneva Filippo Thiery, meteorologo di Geo, ora arriva una ricerca di Greenpeace che mostra come sulla stampa e la televisione italiane la crisi climatica abbia ancora scarsa visibilità: una media di 2,5 articoli al giorno sui giornali e il 3% delle notizie trasmesse nei tg.

Al tempo stesso sono Raddoppiate invece sui quotidiani le pubblicità delle società dei combustibili fossili e dei trasporti, arrivate alla fine del 2022 a 6 alla settimana in media. Sempre secondo la ricerca, Tg1 e Tg3 sono i telegiornali che hanno dedicato più spazio all’ambiente, il Tg La7 quello che ne ha dedicato meno. Fra i quotidiani, solo Avvenire raggiunge la sufficienza in materia ambientale, mentre hanno punteggi scarsi Sole 24 Ore e Stampa e sono da bocciare Corriere e Repubblica. 

Insomma, se cercavate un altro motivo per abbonarvi a ICC, eccolo qua. 

L’altro giorno abbiamo rispolverato la rubrica trova il bias, e ieri mi sono imbattuto, grazie ad un amico, in un articolo che parla di un nuovo bias, individuato da un recente studio, che riguarda le automobili, anzi, il guidare un’auto.

In pratica da questo studio americano viene fuori che quando ci si mette alla guida il nostro cervello inizia a funzionare in un modo piuttosto diverso rispetto a quando siamo fuori dall’abitacolo e la nostra considerazione di tutta una serie di cose cambia.

Leggo dall’articolo di Andrew Hawkins su The Verge: “Non sorprende che la maggior parte degli americani disapprovi i comportamenti antisociali. Rubare le cose degli altri, violare le norme di sicurezza alimentare o fumare in mezzo alla folla generano reazioni molto severe. Ma se ci si mette al volante di un’auto, tutta questa disapprovazione tende a svanire.

Questo perché molti di noi soffrono di un bias chiamato “cervello da auto”, anche se Ian Walker, professore di psicologia ambientale presso l’Università di Swansea in Galles, preferisce chiamarlo “motonormatività”, ovvero “l’incapacità culturale di pensare in modo oggettivo e spassionato” a come utilizziamo le automobili.

Walker ha notato che le persone tendono ad avere un enorme punto cieco quando si tratta di certi comportamenti associati alla guida, che si tratti di eccesso di velocità, emissioni di anidride carbonica, incidenti stradali o qualsiasi altro dei numerosi effetti esterni negativi che derivano da una cultura automobilistica.

La curiosità è nata in Walker perché si è accorto di quanto è difficile “cercare di convincere la gente a guidare di meno”. Così ha deciso di misurare questa cosa e ha ideato una serie di affermazioni che potevano essere rivolte alla vita in genere o al contesto della guida. A metà delle persone sono state fornite le affermazioni relative alle auto, mentre all’altra metà sono state presentate quelle non relative alle auto.

Ad esempio, è stato chiesto alle persone di essere d’accordo o meno con la seguente affermazione: “Le persone non dovrebbero fumare in zone altamente popolate dove altre persone devono respirare i fumi delle sigarette”. Mentre alle altre è stato chiesto “Le persone non dovrebbero guidare in aree altamente popolate dove altre persone devono respirare i fumi delle auto”. Mentre tre quarti degli intervistati erano d’accordo con la prima affermazione solo il 17% era d’accordo con la seconda.

E così via. Lo studio conclude: “Considerando quanto sia radicata la cultura dell’automobile nei Paesi di tutto il mondo, potrebbe essere necessario molto più tempo per cambiare la mente delle persone riguardo alla guida rispetto a quanto è avvenuto con le sigarette”. Per chiudere con una massima: “Non solo le persone fanno ciò che il mondo rende facile, ma poiché sembra facile, le persone concludono che è giusto”, ha detto Walker.

Insomma, la macchina porta ancora con sé tanti aspetti sociali e culturali e di immaginario difficili da sradicare.

Fra l’altro su questo tema “auto e immaginario” ci avete segnalato ieri su IG un post molto interessante di Montanarium, una pagina dedicata alle montagne, che riflette su come l’immagine della natura incontaminata, e in particolare gli scenari montuosi, siano spesso usati per gli spot pubblicitari dei fuoristrada. Ultimo caso, uno spot di Jeep Italia pubblicato e poi rimosso da IG in cui si invitava ad andarsi a godere l’ultima neve della stagione in mezzo a vette incontaminate, ovviamente con la jeep. Il reel si concludeva con la frase “Le montagne ringraziano”.

Il post di Montanarium ci invita a riflettere sulla tossicità di questo abbinamento e su come il marketing dell’industria automobilistica si sia appropriato dell’immaginario della natura incontaminata in un evidente circuito logico (perché le auto sono proprio ciò che li distrugge, quei paesaggi). Nel post leggo “forse perché per troppi, oggi, la montagna non è altro che questo, uno scenario, un luogo da spremere”. O forse, mi viene da pensare, perché siamo tutti affetti da Cervello da auto o motonormatività.

Al tempo stesso, come vedevamo ieri, il ricambio generazionale (in questo un po’ come per il fumo delle sigarette), sembra scrostare e spazzar via molti di questi luoghi comuni. Alla fine, ho l’impressione che la cultura cambi più rapidamente di come pensiamo. Ci sembra eterna e permanente, ma in realtà è anch’essa passeggera. E anche questo, se non sbaglio, è un bias. 

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