17 Mar 2022

Meglio il cibo o la natura selvaggia? – #483

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La guerra in Ucraina ci porta sul baratro della carestia e mostra ancora una volta la scarsa resilienza alimentare dei nostri sistemi. In molti sostengono che dovremmo tornare a disboscare per creare nuovi campi coltivati. Ma è davvero una soluzione? Intanto l’Amazzonia, secondo un nuovo studio, potrebbe essere sul punto di trasformarsi in una prateria. E in Europa si inizia a discutere seriamente di diritto alla riparabilità.

IL FALSO DILEMMA FRA CIBO E NATURA

È uscito un articolo molto interessante di George Monbiot – uno dei giornalisti ambientali più preparati al mondo – sul Guardian che prova a smontare il falso dilemma fra produzione di cibo e cosiddetto rewilding degli ecosistemi. È scritto e pensato per il Regno unito, ma i concetti di base sono facilmente esportabili. 

Monbiot parte da due necessità, apparentemente opposte. Da un lato la necessità, resa evidente dalla crisi in Ucraina, di dover produrre maggiori quantità di cibo a livello locale, per aumentare la resilienza alimentare e evitare carestie e aumenti folli del costo del cibo.

Dall’altra la necessità di fare rewilding, termine inglese coniato – se non sbaglio – dallo stesso Monbiot una decina di anni fa che potremmo tradurre, malamente, con rinaturalizzazione, o rinselvatichimento, dei territori. Brutalmente, lasciare spazi sempre più ampi in cui noi esseri umani smettiamo di interferire con gli ecosistemi e diamo la possibilità a questi ultimi di riprendere a funzionare come sanno fare. 

Perché le due cose sono apparentemente in contrapposizione? Perché entrambe hanno a che fare con la destinazione della terra, e perché molte voci, almeno in Uk, si sono alzate per affermare, ora che è in corso una crisi alimentare in Europa (e non solo) che il rewilding è un lusso che non possiamo permetterci e che dovremmo tornare ad arare e disboscare, disboscare ed arare. Ad esempio la National Farmers’ Union of Scotland, il sindacato degli agricoltori scozzesi, ha chiesto che le deboli misure ambientali della Scozia – che consistono perlopiù nel pagare gli agricoltori per piantare siepi, colture di copertura e introdurre banchi di coleotteri – siano revocate, in modo che la produzione alimentare possa essere massimizzata.

E allora Monbiot si mette a fare due conti e numeri alla mano mostra come tutto ciò non abbia senso. Perché il vantaggio di pochi punti percentuali di cibo prodotto in più sarebbe ampiamente compensato in negativo dagli svantaggi ambientali di ulteriori distruzioni degli ecosistemi. 

Per risolvere il problema, Monbiot propone innanzitutto che vengano riconvertiti alla produzione di cibo i campi attualmente destinati alla produzione di biocarburanti, che è una forma molto inefficiente di utilizzare la terra. Sono necessari circa 450 ettari di terra per alimentare un impianto di biogas con una capacità di un megawatt, mentre basta un terzo di ettaro per installare un megawatt di capacità da impianti eolici. In Inghilterra queste colture occupano il 9% della terra usata per coltivare i cereali. Quando si includono gli impatti dell’erosione del suolo, i costi climatici di queste colture sono probabilmente peggiori di quelli del gas fossile.

Inoltre, aggiunge Monbiot, se volessimo seriamente ridurre la pressione sull’approvvigionamento alimentare globale, dovremmo anche passare a una dieta a base vegetale. Se tutti lo facessero, il terreno agricolo necessario per nutrire il mondo diminuirebbe del 75%. E anche se il nostro consumo diretto di grano aumenterebbe, l’area coltivabile totale diminuirebbe del 20%, perché gli animali non avrebbero più bisogno di essere nutriti con i raccolti.

Riflettendo alla situazione italiana, mi viene da aggiungere che abbiamo ampi margini di miglioramento nella conversione di superfici residuali alla produzione di cibo. Ad esempio i tetti delle abitazioni, per i quali ci sono ormai diversi studi e casi che mostrano come se ben utilizzato potrebbero sopperire ad una percentuale non insignificante del fabbisogno di cibo cittadino. O i modelli delle Csa, Comunità che supportano l’agricoltura, in aree urbane già antropizzate.  

Insomma, abbiamo soluzioni per le mani molto più interessanti che arare quella piccola parte di mondo ancora intatta. 

AMAZZONIA, SUPERATO UN TIPPING POINT?

Anche perché i segnali che ci mandano gli ecosistemi non è che siano proprio incoraggianti. 

Secondo uno studio pubblicato qualche giorno fa su Nature, l’Amazzonia si sta avvicinando a un punto critico dopo il quale la foresta pluviale sarebbe da considerarsi persa, con implicazioni “profonde” per il clima globale e la biodiversità.

La nuova analisi statistica mostra che più del 75% della foresta incontaminata ha perso stabilità dall’inizio degli anni 2000, il che significa che ci impiega molto più tempo per recuperare dopo la siccità e gli incendi. La maggiore perdita di stabilità è nelle aree più vicine a fattorie, strade e aree urbane e nelle regioni che stanno diventando più secche, il che suggerisce che la distruzione della foresta e il riscaldamento globale siano le due cause principali di questo fenomeno. 

Lo studio non consente di fare previsioni esatte di quando il punto critico potrebbe essere raggiunto. Il problema è, come al solito nei sistemi complessi, che quando lo sapremo con certezza significherà che lo abbiamo già superato e quindi sarà impossibile fermare la cosa. Una volta superata la soglia, la foresta pluviale si trasformerebbe in prateria in pochi decenni al massimo, rilasciando enormi quantità di carbonio e accelerando ulteriormente il riscaldamento globale.

I punti critici globali, nota il Guardian, sono tra le più grandi paure degli scienziati del clima. È importante capire che l’ecosistema terrestre non segue dinamiche lineari. È molto resiliente, perciò riesce a sopportarci nonostante tutti i casini che combiniamo. Per decenni possiamo continuare a inquinare, immettere gas climalteranti in atmosfera, buttare sostanze chimiche e plastica negli oceani e nei boschi senza vedere cambiamenti significativi nel mondo che ci circonda. 

Ma ci sono dei punti critici sia a livello locale, dei singoli ecosistemi, sia a livello globale, superati i quali tutto cambia molto rapidamente. È la stessa dinamica che ci fa ammalare. Ogni giorno entriamo in contatto con milioni di microbi, virus, batteri. Eppure non sempre ci ammaliamo. Solo se la concentrazione di questi microrganismi supera certe soglie e se il nostro organismo passa dalla condizione sana, a quella malata. Non è un processo lineare. Un attimo prima stiamo bene, un attimo dopo stiamo male.

RIPARABILITA’ IN UE

Intanto, qualcosina si muove a livello europeo. L’altroieri il Parlamento europeo ha reso note alcune proposte che dovranno essere contenute nella legge sul diritto alla riparabilità, che dovrebbe essere approvata entro quest’anno. 

Quali sono queste proposte, questi punti che la legge dovrà contenere? Aumentare la circolarità dei beni di consumo garantendo il diritto alla riparazione, più attenzione a tutto il ciclo di vita del prodotto, a partire dal design, maggiore standardizzazione dei modelli e delle componenti, obbligo di fornire le giuste informazioni al consumatore, con un’etichetta appropriata e una garanzia dei prodotti più lunga. 

Al momento su questo tema in Europa c’è solo una vecchia direttiva sulla progettazione ecocompatibile del 2009, che riguarda solo i requisiti minimi obbligatori per l’efficienza energetica di alcuni prodotti (per la quale adesso trovate in etichetta sugli elettrodomestici il tipo di consumo). Nel 2020 l’esecutivo UE ha annunciato un’integrazione – la Sustainable Product Initiative – che amplia la direttiva ecodesign ben al di là della sola efficienza energetica. E al centro dell’iniziativa, secondo il piano d’azione UE, deve trovare posto il diritto alla riparazione. 

E adesso l’europarlamento, attraverso la commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori, chiede alla commissione di garantire agli utenti, così come all’industria delle riparazioni e ai riparatori indipendenti, la massima trasparenza su ciò che comporta il right to repair. Tutte le pratiche che limitano senza ragione il diritto di riparazione, o vanno in direzione dell’obsolescenza programmata, potrebbero essere etichettate come pratiche commerciali sleali e come tali sanzionate dal diritto europeo. Tutto questo deve valere anche per i dispositivi digitali e la disponibilità di aggiornamenti dei software.

Insomma, ancora siamo lontani dall’avere una vera e propria normativa, ma sono passi nella direzione giusta, direi.

FONTI E ARTICOLI

#agricoltura #rewilding
The Guardian – There are solutions to the food crisis. But ploughing up Britain isn’t one of them

#Amazzonia
The Guardian – Climate crisis: Amazon rainforest tipping point is looming, data shows

#riparazione
Rinnovabili.it – Cosa si devono aspettare i consumatori europei dal diritto alla riparazione

#scorie
GreenMe – Deposito scorie nucleari: la lista delle aree idonee è stata trasmessa al MiTE

#sabbia
GreenReport.it – Copernicus: in arrivo polvere del Sahara nell’Europa occidentale e centrale

#Russia
Internazionale – Putin ha distrutto la società russa

#guerra
il Post – La circolare che invita l’esercito a tenersi pronto

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