23 Ott 2023

Meloni – Giambruno e la pessima figura dei media: parliamone diversamente – #815

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Le vicende di Andrea Giambruno, giornalista e compagno di Giorgia Meloni, anzi ex compagno, stanno tenendo banco sui giornali degli ultimi giorni oscurando persino il conflitto in corso a Gaza e mostrando il peggio del nostro giornalismo. E allora approfittiamone, con Daniel Tarozzi autore di un libro appena uscito proprio sul tema delle relazioni, per capire come potremmo gestire situazioni come questa diversamente. Parliamo anche del primo turno delle presidenziali in Argentina e della situazione a Gaza, con gli ultimi aggiornamenti.

Per circa una giornata, fra venerdì e sabato, improvvisamente, la guerra a Gaza ha smesso di trovare spazio sui nostri giornali, o perlomeno ne ha trovato meno, per lasciarne alle vicissitudini sentimentali fra la premier Giorgia Meloni e il compagno giornalista Andrea Giambruno, giunta ad un epilogo burrascoso per via di alcuni fuorionda imbarazzanti del giornalista mandati in onda da Striscia la Notizia. 

Ora, è una di quelle notizie su cui ero molto in dubbio se parlarne oppure no perché il modo in cui ne parlano i media mi genera un notevole fastidio. Non dico che non se ne debba parlare, si sa che la vita privata dei personaggi pubblici è un po’ pubblica, però la morbosità con cui giornali anche sedicenti autorevoli si gettano nel gossip più bieco quando questo dà la sponda per un attacco politico mi lascia sempre un po’ di stucco.

Comunque, ciò premesso ho deciso infine di parlarne per due motivi. Il primo è che venerdì il direttore di ICC Daniel Tarozzi ha pubblicato un libro dal titolo “Come amano gli italiani”, in cui parla di amore, sesso, relazioni, genitorialità, e quindi ho pensato che un suo contributo su questa vicenda potesse essere realmente aricchente. 

Il secondo motivo ve lo racconto dopo, intanto do il benvenuto a Daniel Tarozzi. Daniel cosa provi di fronte al modo in cui i media stanno gestendo questa situazione? 

AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST

Quindi, riassumendo, non so, per punti, qual è secondo te un atteggiamento corretto, cosa dovrebbero fare (o non fare) i media in situazioni come questa?

Grazie Daniel. 

Venendo alla seconda questione c’è un altro aspetto che mi sembra interessante in tutta questa vicenda ed è capire perché Striscia la Notizia, il programma di punta della rete di punta dei Berlusconi, decide di attaccare il compagno della premier, nonché giornalista di mediaset. È solo per fare ascolti o c’è di più? E credo che andare a cercare lì ci permetta di scoprire gli intrecci fra tv, affari privati e vita pubblica e anche osservare come si può usare il potere televisivo per fare politica. Ho trovato un articolo di Ilario Lombardo su La Stampa che prova a far luce su questi intrecci. 

Quindi vi leggo qualcosina, prendiamolo con le pinze, non sono verità acclarate, ma ci permettono comunque di aprire uno squarcio su un uso politico della televisione che conosciamo a parole, ma che poi spesso non è che sappiamo proprio come funziona. Insomma, può darsi che le cose non stiano proprio così come descritte dall’articolo che vi leggo, ma il meccanismo è quello lì. 

“Quando Giorgia Meloni telefona ad Antonio Tajani, giovedì, Striscia la notizia ha pubblicato ancora solo il primo fuorionda del compagno Andrea Giambruno. La premier spera che il suo vice, capo di Forza Italia dopo la morte del fondatore Silvio Berlusconi, possa ancora fare qualcosa per fermare lo stillicidio.

Più avanti l’articolo spiega le origini delle gelosie dei colleghi verso Giambruno, di cui molti giornali parlano: “Appena Meloni entra a Palazzo Chigi a Giambruno viene affidata una trasmissione di informazione quotidiana su Rete 4. Fino a quel momento è uno sconosciuto. Invece del classico passo indietro, il compagno entra in un fascio di luce abbagliante che lo espone anche alle gelosie dei colleghi”. “Giambruno si era fatto diversi nemici dentro l’azienda. Da mesi erano tornati a circolare gli articoli che scriveva su Il Tempo sotto lo pseudonimo Arnaldo Magro, in cui criticava Mediaset perché durante il governo Draghi le reti del Biscione non davano spazio «all’unica forza di opposizione», e cioè il partito della compagna. La promozione in odore di raccomandazione per privilegio coniugale ha fatto il resto”.

“Giambruno avrebbe dovuto sapere cosa succede negli studi televisivi del Palatino, a Roma. I microfoni accesi e i fuorionda che vengono conservati e che hanno alimentato la leggenda del potere di “Striscia”. Giambruno sapeva da giorni degli audio che lo interessavano ed è difficile immaginare che non lo sapesse anche Meloni. Nel suo entourage più stretto smentiscono”.

“Mentre da Fi sostengono che sia stato Pier Silvio Berlusconi, ad di Mediaset, ad avvisarla durante un colloquio a settembre. La premier ha provato a neutralizzarli facendo leva sull’alleanza politica con Marina Berlusconi? O è vero che l’asse con la primogenita si è rotto dopo la forzatura sulla tassa – poi ritirata – sugli extraprofitti bancari (non scordiamoci che Fininvest ha il 30% di banca Mediolanum)? Di certo, ci sono due momenti che si richiamano tra loro in questa storia. Mentre forma il governo, un anno fa, Meloni manda un messaggio a Silvio Berlusconi, sostenendo di non essere ricattabile”.

“Ieri chiude il post avvertendo chi «spera di indebolirmi colpendomi in casa». Infine, ci sono due fatti che sono stati esaminati dai vertici di FdI. Il primo: a Meloni è stato risposto che Antonio Ricci, autore di “Striscia”, è una repubblica autonoma dentro Mediaset e fa quello che vuole. Il secondo: si parla di una riunione, di mercoledì, nello studio romano di Gianni Letta – pontiere tra gli affari della famiglia, il partito e il governo – dove era presente anche Tajani e in cui si sarebbe discusso di qualcosa di delicato, che avrebbe rimesso Mediaset al centro dell’attenzione politica”.

Questo è quello che sappiamo, anzi nemmeno sappiamo, quello che scrive la Stampa. Di nuovo, l’invito non è a prendere tutto alla lettera ma a riflettere su come la stampa possa essere una micidiale arma politica non solo tramite i talk show o i telegiornali, ma anche attraverso il gossip. 

Ieri si è votato in Argentina per le presidenziali. Erano le elezioni più incerte e attese, perché sul futuro del paese, afflitto da problemi endemici di inflazione e crisi economica, c’è lo spettro – lasciatemi passare il termine – di un presidente che, ecco, non sembra è perlomeno eccentrico, un anarco-capitalista di ultradestra il cui soprannome, che lo caratterizza e in parte lo tormenta fin da piccolo è “el loco”, il matto. 

Di lui abbiamo parlato abbastanza a lungo in una puntata di INMR di qualche settimana fa che vi lascio sotto Fonti e articoli, quindi se volete scoprire di più sul personaggio li capirete meglio il soprannome. Ma quindi come sono andate le votazioni?

La sintesi è che si va al ballottaggio e che Milei non è il primo, al momento, nella disputa per la Casa rosada, la residenza presidenziale argentina, sebbene resti sulla carta il favorito. Il peronista progressista Sergio Massa è in testa con il 36,1%, mentre Milei è al 30,3%. La conservatrice Patricia Bullrich (Jxc) insegue a distanza con oltre il 23%. L’Argentina tornerà quindi a votare il 19 novembre, dove Massa e Mieli si sfideranno al ballottaggio. 

Come scrive Sara Gandolfi sul Corriere: “Anche se non ha sfondato, l’anarco-capitalista Milei, che ha stravolto la mappa politica dell’Argentina, brandendo le motoseghe ai comizi contro la «Casta parassita», è stato l’indiscusso protagonista della giornata elettorale, la star dell’Argentina in cerca di un miracolo o l’anti-Evita del XXI secolo. «Possiamo creare il miglior governo della storia», ha assicurato il candidato di La Libertad Avanza, accompagnato al seggio dall’onnipresente sorella Karina (il «Capo», dice lui). Centinaia di persone lo aspettavano, domenica mattina, all’Università tecnologica di Buenos Aires, dove ha ricevuto un’accoglienza da rockstar. Con lanci di rose rosse, mani tese per sfiorarlo, lacrime isteriche e un cordone di polizia a frenare l’entusiasmo della folla.

Sergio Massa invece aveva di fronte una situazione più difficile. Il suo partito, Unión por la patria, del presidente uscente Alberto Fernandez (che non si è ricandidato) e anche lui in quanto attuale ministro dell’economia son ritenuti responsabili di una situazione disastrosa: inflazione al 138%, classe media in caduta libera, 4 argentini su 10 sotto la soglia di povertà. Alberto Fernández ha al momento un indice di gradimento sotto il 15% mentre la sua vice, ed ex presidente per due volte Cristina Kirchner è stata condannata per corruzione.

Ora il duello diventerà serrato. Milei sulla carta è favorito al ballottaggio. Bisognerà vedere se riuscirà infatti a trattenere i voti della protesta ma anche a conquistare quelli della destra liberale e dei radicali, o se alla fine non sarà più forte la paura del salto nel vuoto rappresentato dalle sue proposte estreme. “Lo spettinato re dei talk show e di TikTok, che disdegna la Cina e nega la crisi climatica, ha conquistato i giovani e gli sfiduciati definendo i socialisti «escrementi», promettendo di «dollarizzare» l’economia — contro il parere dell’Fmi, cui l’Argentina deve 44 miliardi — e «dinamitare» la Banca centrale. Se saprà pure governare, nel caso venisse eletto, resta un mistero”. Conclude la giornalista.

Vi do qualche elemento in più per capire queste elezioni. In Argentina si vota dai 16 anni di età, con una differenza rispetto ai/alle maggiorenni. Mentre gli individui minorenni non hanno l’obbligo di andare a votare, tutti i cittadini/e maggiorenni (a partire dai 18 anni) sono invece obbligati a votare, come avviene anche nel vicino Cile, ad esempio, salvo per eventuali motivi comprovati ed accettati dalla legge, pena il pagamento di una multa. Al raggiungimento dei 70 anni, tuttavia, l’obbligo decade anche per i cittadini maggiorenni.

Quindi ecco, le affluenze sono sempre altissime, e il voto dei più giovani conta parecchio.

Va bene, come al solito facciamo un aggiornamento sulla situazione a Gaza. Parliamo di una situazione che è una catastrofe umanitaria a tutti gli effetti, per via dei bombardamenti ripetuti da parte di israele, che stanno facendo seguito all’attacco di Hamas in suolo israeliano. Vi ricordo che nella striscia di gaza circa la metà della popolazione sono bambini, e che fin qui le vittime complessive sono circa 5000, quasi tutte civili.

Come racconta Alessandro Guarasci su Vatican News, cinque ospedali sono stati bombardati, il sistema sanitario è al collasso, si opera anche nei corridoi. “Le scorte mediche stanno finendo negli ospedali di tutta Gaza. Il chirurgo Ghassan Abu Sitta racconta di aver fatto ricorso all'”aceto del negozio all’angolo” per curare le ferite batteriche e prevenire l’infezione. 

“Tlaleng Mofokeng, relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla salute, afferma: “Il settore sanitario nell’enclave di Gaza è a un punto di rottura”.  “Le infrastrutture mediche di Gaza sono state irreparabilmente danneggiate e gli operatori sanitari stanno lavorando in una situazione disastrosa con un accesso limitato alle forniture mediche e condizioni che non consentono loro di fornire assistenza sanitaria tempestiva e di qualita’”, ha poi aggiunto. E gli operatori locali continuano ad essere in pericolo. Due di loro dell’UNRWA, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati Palestinesi, sono stati uccisi nella Striscia di Gaza, portando il numero totale delle vittime Onu a 16 dall’inizio della guerra, il 7 ottobre scorso”.

Sabato mattina, per la prima volta, è stato aperto anche se solo per poche ore il valico di Rafah, ovvero quel piccolo pezzetto di striscia, al confine meridionale, che confina con l’Egitto, l’unico collegamento di gaza con il resto del mondo, che non sia Israele. Come racconta Sami al-Ajrami su Repubblica “Attorno alle 9.30 italiane (le 10.30 locali) 20 camion egiziani carichi di aiuti umanitari hanno varcato il confine, che era completamente blindato dal 7 ottobre. Attualmente i beni di primissima necessità destinati alla popolazione e ad alcuni ospedali, sono in fase di trasferimento su circa 30 mezzi più piccoli che – coordinati dai funzionari della Mezzaluna Rossa Palestinese e dell’Unrwa (l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi) – li prenderanno in consegna e li trasporteranno a destinazione”. Un piccolo sollievo, che però non risolve la situazione. 

In Europa invece la situazione israelo-palestinese sta creando una frattura interna che non sembra facile da ricucire. Invece di provare a svolgere una funzione mediatrice, l’Ue si spacca al suo interno, non solo fra Paesi ma proprio all’interno delle istituzioni comunitarie. Venerdì sera Ursula von der Leyen ha annunciato “Noi siamo al fianco di Israele”. Una dichiarazione che, personalmente, ho trovato davvero inopportuna. Non tanto o non solo per la scelta della parte, ma proprio per il fatto che la massima carica dell’istituzione europea senta il dovere (o si senta in diritto) di dire che l’Europa si schiera da una parte in un conflitto come questo. L’Ue è nata anche se non soprattutto per evitare che guerre come quelle che hanno scosso il 900 capitassero di nuovo. Dovrebbe essere una forza di pace, che lavora attivamente per la pace, non che si schiera e alimenta i conflitti. 

Vi leggo come Francesca De Benedetti descrive la situazione su Domani: “Adesso che i suoi principali sponsor politici, Berlino e Washington, si sono schierati più o meno incondizionatamente con il governo Netanyahu, la presidente della Commissione Ue è come una biglia su un piano inclinato: sta trascinando l’Unione europea verso la sua traiettoria personale.

Ha sacrificato ogni velleità dell’Ue di agire da risolutore della crisi israelo-palestinese, e ha indossato il giubbino da guerra. Non appena ha messo piede negli Stati Uniti si è anche disposta sulla stessa linea di Joe Biden e cioè ha iniziato a incrociare i piani tra guerra in Ucraina e in Medio Oriente. Hamas è «come Putin», e perciò «difendiamo il mondo libero».

Nessun interrogativo su quel che invece accade ai civili palestinesi. Uno scivoloso piano inclinato che porta l’Ue schierata in guerra. E che nella strategia individuale della presidente porta lei, se non a un secondo mandato, almeno al vertice della Nato. La biglia von der Leyen travolge sempre più i fragili equilibri democratici dell’Ue, e gli unici freni che trova le arrivano dalle proteste interne e dai governi europei.

Il segno plastico di questa divisione sta nell’incontro rigorosamente separato che il presidente del Consiglio europeo e l’alto rappresentante Ue – Charles Michel e Josep Borrell – hanno avuto questo venerdì con Joe Biden ed Antony Blinken. Anche von der Leyen ha poi avuto il suo bilaterale alla Casa Bianca. Ma i tempi differenziati stavolta non hanno alibi, la spiegazione è una: i governi cercano di riprendersi il loro ruolo, che von der Leyen scavalca dal giorno in cui la guerra in Israele è deflagrata. Michel e Borrell lo fanno riportando la discussione sul diritto internazionale.

Stavolta la separazione plastica tra leader è spudoratamente politica: non c’è la coperta di Linus degli atteggiamenti machisti di Erdogan, o delle contese di protagonismo tra Michel e von der Leyen, come quando era scoppiato lo “scandalo del sofà” per la presidente ridotta sul divanetto in Turchia (se non sapete a cosa fa riferimento la giornalista, vi lascio sotto fonti e articoli una puntata di INMR per approfondire).

«Cara vdL, siamo preoccupati per il supporto incondizionato che la Commissione europea da lei rappresentata ha offerto a una delle due parti. Non possiamo restare silenti se le sue posizioni finiscono per dare il via libera a violazioni dei diritti e legittimare crimini di guerra a Gaza». Questo è uno stralcio della lettera firmata da centinaia di membri dello staff Ue che operano presso il Servizio europeo per l’azione esterna, che fa riferimento a Josep Borrell. 

In poche parole, von der Leyen piazzando bandiere, autorizzando la confusione sui tagli di fondi ai palestinesi, stringendo mani a Netanyahu in Israele e schierando l’Ue sul fronte di Israele ha travalicato le sue competenze. Che i governi hanno reclamato, riunendosi anche per risolvere la questione. Tuttavia non appena von der Leyen è atterrata a Washington, ha spinto fino all’estremo la sua linea. Il discorso che ha tenuto giovedì all’Hudson Institute si riassume con la partecipazione dell’Ue a fianco di Israele”.

Insomma: questo è quanto. Lato Usa segnalo invece che è stata inviata una mega portaerei che i giornali descrivono come capace di condurre una guerra da sola. Gianluca di Feo su Repubblica scrive: “la “Mount Whitney” è salpata mercoledì dal porto di Gaeta per fare rotta verso est. La partenza di questa lenta nave statunitense conta più dell’arrivo delle portaerei e trasmette al mondo un messaggio chiaro: l’America vuole avere le mani libere nella nuova crisi mediorientale. La “Mount Whitney” infatti è un quartiere generale galleggiante, in grado di dirigere da sola un intero conflitto e permette agli Stati Uniti di non dipendere dal comando napoletano della Sesta Flotta o da quelli presenti in altri Paesi europei”.

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