25 Gen 2023

Il neonato morto soffocato e la violenza ostetrica – #659

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La drammatica vicenda di cronaca della morte di un neonato in un ospedale romano, rimasto soffocato perché la madre, stremata dal parto e dopo aver chiesto invano assistenza si è addormentata, sta facendo discutere molto, anche perché si moltiplicano le denunce di episodi di violenza ostetrica. E allora ne parliamo. Parliamo anche della Colombia che vieta nuove esplorazioni di idrocarburi, del progetto di moneta unica sudamericana, del meccanismo con cui il Regno Unito premia chi risparmia energia e infine delle dimissioni di massa dal governo ucraino.

L’altroieri è successo un fatto di cronaca brutto, di quelli che hanno il potere di colpirci come un pugno allo stomaco. Un neonato è morto apparentemente soffocato involontariamente dalla madre, che si era addormentata stremata dopo il parto nel reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Pertini di Roma.

Ora, voi sapete che in genere non ci soffermiamo sulla cronaca fine a se stessa in questa rubrica, e se vi racconto questa cosa, è perché è una di quelle storie che porta con sé e fa emergere varie cose molto importanti. Quindi ci vuole che ne parliamo. 

Piccola avvertenza, ma necessaria. È probabile che mentre vi racconto i fatti proverete sensazioni ed emozioni forti, come rabbia, tristezza profonda, empatia. Ecco, limitatevi ad osservarle e per quanto possibile evitate di incanalarle subito verso il cattivo o la cattiva di turno di questa storia. Perché la situazione è piuttosto complessa.

Vi descrivo brevemente l’accaduto, senza scendere nei molti dettagli su cui si soffermano i giornali. Una giovane donna di 29 anni aveva da poco partorito partorito dopo un travaglio durato diciassette ore. Come è consuetudine da diversi anni a questa parte, il bambino appena nato condivideva la stanza fin da subito e per tutto il tempo con la mamma, un sistema chiamato rooming in e consigliato dalla Oms. 

Succede che la donna, al terzo giorno dal parto, stremata, prima chiede assistenza alle infermiere senza riceverlo (questo perlomeno secondo la sua versione) poi si addormenta allattando e (secondo le ipotesi più accreditate sui giornali) inavvertitamente soffoca il bambino che dormiva nel letto assieme a lei. 

Il padre del bambino, parlando col Messaggero, ha raccontato che la donna «era sfinita dopo 17 ore di travaglio, ma le hanno subito portato il piccolo per l’allattamento. E hanno anche preteso che gli cambiasse il pannolino da sola. Ma lei non si reggeva in piedi. Non si è potuta riposare». 

Ora, capite bene che una tragedia come questa, avvenuta in un ospedale pubblico della capitale d’Italia, non passa inosservata e scuote gli animi. L’aspetto che più mi ha colpito è l’ondata di messaggi che sono iniziati a circolare, provenienti da centinaia, migliaia di donne, sui social, nelle redazioni dei giornali, ovunque, per esprimere un unico concetto: “quella donna potevo essere io”. In tanti hanno raccolto e diffuso alcuni di questi messaggi arrivati alla email di redazione in un articolo. 

Sono messaggi, testimonianze che parlano di incuria, abbandono da parte del personale ospedaliero, senso di impotenza e di pericolo in una delle fasi più delicate della vita di una persona: il post-parto. Spesso donne che hanno subito un cesario d’urgenza, dopo ore e ore di travaglio, venivano lasciate completamente da sole, senza nessun supporto e aiuto. Tutto ciò ha un nome preciso: violenza ostetrica.

La violenza ostetrica non è una storia del tutto nuova, se ne parla ciclicamente almeno dagli anni settanta. Un articolo del Post ne da una definizione molto precisa: “Col termine violenza ostetrica si fa riferimento a un insieme di comportamenti delle strutture e dei professionisti che si occupano di salute riproduttiva e sessuale delle donne, e che possono essere anche molto diversi tra loro: come l’eccesso di interventi medici non necessari o senza consenso, e la generale mancanza di rispetto per la salute mentale e l’autodeterminazione delle donne. Nel caso avvenuto al Pertini, la violenza ostetrica riguarderebbe il rifiuto del personale sanitario di offrire alla donna che aveva partorito da poco l’aiuto richiesto nel gestire il figlio”.

Abusi fisici diretti, abusi verbali, mancanza di riservatezza, rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy. Fuori dall’esperienza del parto, è considerata violenza ostetrica anche la difficoltà di accesso agli anticoncezionali, o a un aborto sicuro e meno invasivo possibile”. 

Tutte questi fenomeni non sono eventi sporadici, ma sono quasi la norma. Purtroppo. Sempre nell’articolo del Post, più avanti, si specifica: “Quando si parla di violenza ostetrica non ci si riferisce a una violenza intenzionale a opera di alcuni specifici professionisti, ma a una forma di violenza “sistemica” e quindi radicata nelle procedure e nella cultura ospedaliere da sempre legittimata collettivamente. Molte donne tra quelle che ne hanno avuto esperienza raccontano di non essersi rese conto di essere state vittime di violenza, o di averlo realizzato solo dopo, a causa del senso di colpa, di inadeguatezza o di vergogna che erano stati loro indotti. Questi due elementi rendono la violenza ostetrica particolarmente difficile da individuare ed estirpare”.

Tuttavia credo che ci siano alcuni di elementi tutto sommato nuovi che emergono con forza in queste ore, che vale la pena osservare. Sul banco degli imputati mediatici sono finiti il personale degli ospedali (ostetriche e infermiere soprattutto) e la procedura del cosiddetto rooming in. Parliamone. Il rooming in, ovvero la consuetudine di non separare il bambino dalla mamma dopo il parto, è un’abitudine di per sé sana, che favorisce lo sviluppo del legame madre-neonato, facilita un corretto avvio dell’allattamento, oltre che alla cura e alla gestione del neonato. Tuttavia, come specifica la rivista sulla genitorialità Uppa, “il rooming in deve essere una scelta libera della mamma, che non deve quindi essere imposto dalla struttura”.

Insomma, un conto è avere la possibilità di tenere il proprio figlio accanto per tutto il tempo che si vuole, un conto è vedersi negata la possibilità che qualcuno se ne occupi anche solo per pochi minuti, o semplicemente lo possa cambiare, o tenere in braccio in qualche momento di particolare bisogno. 

Su questo aspetto così delicato e importante ho chiesto un parere, molto più informato del mio, a Giulia Rosoni, che è una socia storica di ICC ma soprattutto è una psicologa che lavora per AIED Pisa, e tiene anche dei bellissimi Corsi di accompagnamento alla nascita a cui ho avuto la fortuna di partecipare. A Giulia ho chiesto un commento su questa vicenda e in particolare sulla questione del Rooming In. 

AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST

Riprendo un po’ le fila di quanto detto da Giulia Rosoni. La sensazione – che è quasi un fatto – è che molti ospedali abbiano approfittato delle linee guida sul Rooming in per tagliare gli asili, insomma i reparti in cui venivano tradizionalmente tenuti i neonati, tagliare ulteriore personale e ridurre le spese. Se tutto ciò risultava in qualche modo sopportabile in condizioni precovid (perché c’era comunque una presenza più costante e tollerata, spesso anche fuori dagli orari visita, dei familiari che aiutavano la neomamma) la pandemia ha ridotto al lumicino anche la possibilità delle visite. E così quello che doveva essere un piacere è diventato a volte un tormento, uno sfinimento, quella che doveva essere una scelta è diventata un obbligo.

Questo fenomeno è alimentato e irrobustito da altre due o tre tendenze, anche queste intrecciate fra loro e difficili da districare. 1) Un sottodimensionamento cronico, e molto noto, del personale ospedaliero, che è stato ulteriormente tagliato, contro ogni logica, durante e dopo la pandemia, che a sua volta determina la difficoltà di fornire la dovuta assistenza a tutte le pazienti e anche un alto livello di stress e rischio burnout del personale, che di certo non facilita empatia e cura. 2) questa è più un’opinione personale, ma ve la butto là, anche una tensione alla spersonalizzazione del paziente tipico delle strutture ospedaliere e 3) una narrativa sempre più diffusa della mamma moderna come una sorta di supereroe multitasking multitasking, indipendente, capace di tutto da un lato. Una narrativa che vuole lodare forse la donna ma finisce di nuovo per essere un po’ una scusa per addossarle tutta la responsabilità, da sola, fin da subito, del neonato, oltre a un carico di responsabilità enorme.

Su quest’ultimo aspetto vi leggo alcuni estratti di un articolo della giornalista e scrittrice Claudia De Lillo su Repubblica intitolato “La solitudine della madre”. Con le sue parole chiudiamo questo capitolo.

“esiste un’estetica della maternità, una pericolosa mistificazione che racconta il miracolo della nascita, la sublimazione della madre, creatura eroica e potentissima, incurante della sofferenza e della fatica, estatica e appagata al cospetto del proprio frutto acerbo. 

[…]

Tuttavia chiunque abbia partorito in ospedale ha conosciuto per un minuto, per un’ora o per un giorno il senso di abbandono e inadeguatezza. Può succedere durante il parto, costrette in posizioni innaturali (Singora, spinga e basta), nella fatica di allattare, (Il bambino deve potersi attaccare al seno sempre, ogni volta che vuole), nel desiderio di delegare (Eh no! Il pannolino lo deve cambiare la mamma)nel senso di colpa indotto (Ma come? Perché non vuole avere il bambino in camera con sé?), nella probizione di avere accanto l’eltro genitore, come se non servisse.

Il parto è una delle esperienze più straordinarie e sconvolgenti che come pochissime altre coniuga meraviglia e terrore. I giorni immediatamente successivi sono i più difficili. Perché l’improvvisa responsabilità di una nuova vita è spaventosa, perché una neo madre, nonostante il mitocrudele dell’istinyto innato, è incompetente e impreparata, perché un figlio è per sempre e quell’avverbio è una minaccia, perché il corpo di una puerpera è fragile e sconosciuto anche a lei stessa, perché la depressione è un’onda nera che può ghermire di soppiatto, perché la fatica fisica e mentale è estenuante. 

Una neo madre non andrebbe mai lasciata sola. Andrebbe seguita, rassicurata, accudita in modo che a sua volta possa imparare a fare lo stesso, piano piano, con il suo bambino. Prima dei fiori, dei fiocchi ricamati, e della valigetta, la maternità richiede condivisione. Perché solo la condivisione ci può salvare dall’abisso.

Va bene, veniamo ad altre notizie molto importanti. Partiamo dalla Colombia, che a quanto dichiarato da esponenti importanti del governo, fra cui lo stesso presidente Gustavo Petro, smetterà di rilasciare concessioni per l’esplorazione di gas e petrolio. Non una roba da poco. Ve ne parlo seguendo l’articolo di Valentina Neri su Lifegate, che inizia citando le parole della ministra delle Miniere e dell’energia Irene Veléz al WEF di Davos: ““Abbiamo deciso di non rilasciare più nuove concessioni per l’esplorazione di gas e petrolio. Sebbene questo sia stato un tema molto controverso a livello nazionale, per noi è un segnale chiaro del nostro impegno contro i cambiamenti climatici. Perché sappiamo che questa è una decisione planetaria e assolutamente urgente che necessita di azioni immediate”.

L’annuncio della ministra è stato poi confermata da Gustavo Petro che rivolgendosi ai giornalisti a Davos ha affermato: “Siamo convinti che i forti investimenti nel turismo, considerata la bellezza del nostro paese, e la capacità e il potenziale che il paese ha per la produzione di energia pulita, possano – nel breve termine – colmare perfettamente il vuoto lasciato dai combustibili fossili”.

La Colombia in realtà non ha bisogno di combustibili fossili per sé stessa, visto che già oggi soddisfa circa l’80 per cento del proprio fabbisogno con le fonti rinnovabili, idroelettrico in primis. Il problema sta nel fatto che, soprattutto nell’arco degli ultimi quattro decenni, il paese ha puntato tantissimo sulle esportazioni. Nel 2020 il petrolio greggio era il bene più esportato all’estero, con un giro d’affari di quasi 6,9 miliardi di euro. Insomma, il petrolio è diventato un caposaldo dell’economia colombiana. La scelta di Pedro appare quindi molto coraggiosa.

Petro è una delle anime di questo rinascimento socialista dell’America latina. A Cop27 di Sharm El Sheik aveva detto “il mercato non è il meccanismo principale per superare la crisi climatica. È stato il mercato, con l’accumulo del capitale, a produrla. E non sarà mai il suo rimedio”. Non una roba da poco per un capo di stato nel 2023.

Restando in America latina, c’è una notizia di qualche giorno fa che era passata inosservata non solo a me ma anche a quasi tutti i media nostrani. La notizia ha ancora poco di concreto, ma è di quelle grosse: si parla di un progetto di moneta unica fra Brasile e Argentina. Scrive Fabrizio Papitto su la Svolta: “Brasile e Argentina si preparano ad adottare una moneta comune: lo riporta il Financial Times, secondo il quale le due maggiori economie del Sudamerica discuteranno il piano in occasione del vertice della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) in programma domani, martedì 24 gennaio, in Brasile”.

L’incontro c’è poi stato, ieri, e ha visto alcuni paesi, in porimis Messico e Perù, sollevare diversi dubbi su questo progetto, sul quale d’altro canto Lula e Fernandes, presidenti di Brasile e Argentina sono parsi invece piuttosto decisi.

La moneta unica potrebbe chiamarsi Sur, “Sud” in spagnolo: inizialmente avrebbe corso in parallelo con il real brasiliano e il peso argentino, per coinvolgere poi anche altri Paesi dell’America Latina. Un’eventuale unione monetaria capace di coprire l’intera America Latina, secondo le stime del Financial Times, rappresenterebbe circa il 5% del Pil globale, e potrebbe contribuire a ridurre la dipendenza dal dollaro statunitense.

Del progetto di una moneta unica si discute già dal 2019, ma l’iniziativa era stata ostacolata dall’opposizione della Banca centrale brasiliana. Con l’uscita di scena dell’ex presidente Jair Bolsonaro, però, la situazione sembra essere cambiata. Il settimo vertice della Celac, che riunisce 33 Stati dell’America Latina e dei Caraibi, segna il rientro del Brasile nell’organismo intergovernativo istituito nel 2011, abbandonato proprio da Bolsonaro per ragioni dichiaratamente ideologiche all’inizio del 2020.

Nei primi 11 mesi del 2022, Argentina e Brasile hanno registrato un volume del traffico commerciale pari a 26,4 miliardi di dollari, con un aumento di circa il 21% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ora che entrambi i Paesi sono presieduti da Governi di sinistra, il loro sostegno reciproco potrebbe rafforzarsi ulteriormente. Staremo a vedere. Se anche il Sud America, come l’Europa, andasse verso una progressiva unione, avremo un mondo sempre più strutturato in macro-blocchi. Su cui ci saranno da fare un po’ di riflessioni.

Spostiamoci in Uk dove in attesa di nuove ondate di gelo,  il governo ha annunciato di aver attivato il servizio che dovrebbe incentivare economicamente il risparmio energetico. Il meccanismo è interessante e – scrive GreenReport – i test svolti nel 2022 dalla National Grid ESO, il gestore della rete elettrica UK, hanno dato risultati positivi. Il servizio in questione si chiama Servizio di flessibilità e fornisce a chi consuma meno energia, soprattutto in determinate fasce orarie di ricevere in cambio degli incentivi in denaro.

I dettagli del servizio ancora non si conoscono ma la National Grid ESO ha fatto sapere che durante i primi due test effettuati nel 2022 il Demand Flexibility Service ha prodotto un totale di 314,2 MWh di riduzione della domanda. E che l’operazione è stata attivata per la prima volta ieri dalle 17:00 alle 18:00.

In questi giorni infatti la Gran Bretagna si aspetta un rialzo della domanda energetica per via dell’emergenza gelo. L’Agenzia per la sicurezza sanitaria del Regno Unito ha esteso l’allerta freddo di livello 3 fino a oggi, mercoledì 25 gennaio, e in alcune località il termometro ha raggiunto rapidamente i meno 10°C. 

Fra l’altro, una cosa che in pochi sanno è che in Inghilterra ondate di gelo lunghe e frequenti (alcuni la chiamano persino una sorta di glaciazione) sono attese come effetto della crisi climatica, per via dello scioglimento sempre più rapido dei ghiacci artici che porta aria gelida fino a quelle latitudini. A parte ciò, Mi sembra un esperimento da osservare con attenzione e che potrebbe tornare molto comodo non solo per questioni di emergenza freddo e carenza energetica ma anche per incentivare il risparmio energetico nelle abitudini delle persone. 

Torniamo a parlare di Ucraina. Negli ultimi giorni molti importanti membri del governo ucraino, fra cui quattro viceministri, si sono dimessi per via di alcune accuse di corruzione in una sorta di operazione anticorruzione voluta dal Presidente Zelenski. Tutto è iniziato con l’arresto compiuto sabato del vice ministro per le Infrastrutture Vasyl Lozinsky, con l’accusa di aver ricevuto a settembre una tangente di oltre 300.000 euro per una fornitura di generatori. Lozinsky ha negato le accuse, ma una serie di inchieste giornalistiche, oltreché giudiziarie, hanno sollevato una serie di dubbi su più di un componente del governo ucraino. Domenica, Zelenski ha annunciato l’intenzione di cambiare alcuni ruoli anche apicali, del governo e da lì in avanti diverse figure chiave si sono dimesse.

Scrive il Post: “Le prime dimissioni sono state quelle di Kyrylo Tymoshenko, vice capo della segreteria del presidente, implicato in uno scandalo relativo all’uso a fini privati di auto di lusso messe a disposizione dal governo per svolgere il proprio incarico. Tymoshenko era una figura molto vicina a Zelensky, era stato importante nella sua campagna elettorale e dopo l’inizio della guerra aveva spesso svolto il ruolo di portavoce.

Le sue dimissioni sono state seguite da quelle del vice ministro della Difesa Vyacheslav Shapovalov, accusato di aver pagato cifre eccessive per le forniture di cibo destinate all’esercito. A distanza di poche ore è stato inoltre sostituito il vice procuratore generale Oleskiy Symonenko. Gli organi di stampa ucraini hanno poi riferito la notizia delle dimissioni dei governatori di alcune refioni e di alcuni viceministri, come quelli per lo sviluppo e quello per le Politiche sociali Vyacheslav Negoda.

Secondo molti media ucraini, nel corso delle prossime ore potrebbero arrivare nuove dimissioni, mentre Zelensky ha annunciato altre decisioni già oggi, o nei prossimi giorni: potrebbero comprendere anche sostituzioni di ministri.

È una roba un po’ strana, fare un rimpasto di governo così consistente durante un conflitto. Al tempo stesso, la situazione forse lo impone a Zelenski. L’Ucraina ha una lunga storia di corruzione, è 122a su 180 stati nella classifica sulla trasparenza di Transparency International con di gran lunga i punteggi peggiori fra gli stati europei. Zelensky aveva incentrato parte della sua campagna presidenziale del 2019 sulla lotta alla corruzione e nel discorso di domenica ha detto: «Prometto che non si tornerà alle abitudini del passato». 

In ballo, scrive ancora il Post, non c’è solo la sua credibilità politica, ma anche quella internazionale del paese, che dopo l’invasione subita dalla Russia sta ottenendo sovvenzioni e aiuti, sotto varia forma, da molti paesi esteri. In altre parole, per ricevere tutti gli aiuti economici che sta ricevendo, per continuare a riceverli, ci sta che debba dimostrare al mondo che quei soldi non finiscono nelle tasche di qualche funzionario corrotto.

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