28 Set 2023

Nuovo virus Nipah, più bias che pandemia? – #800

Salva nei preferiti

Seguici su:

Oggi ritorna la rubrica Trova il bias e ritorna in grande stile, con la notizia di apertura della rassegna legata a una nuova possibile pandemia, che pandemia non dovrebbe diventare, del virus Nipah. Parliamo anche di fonti fossili, con un nuovo mega progetto estrattivo di petrolio in Regno Unito, gli aiuti nascosti delle banche alle compagnie fossili e una maxi causa di 6 adolescenti contro 32 stati del mondo. 

Oggi facciamo una cosa un po’ anomala, ovvero apriamo la puntata con il richiestissimo ritorno della vostra rubrica preferita, Trova il bias, fra l’altro nella sua nuova versione, con premi veri. Apriamo con questa rubrica perché il bias di oggi si trova proprio in una delle principali notizie di attualità. Ma andiamo con ordine.

Forse avrete sentito parlare di questo nuovo virus, chiamato Nipah, che in realtà così nuovo non è, che si sta diffondendo in alcune regioni dell’India. Negli ultimi giorni ho letto titoli di giornale molto diversi fra loro, con livelli di allarmismo differenti, per cui forse è il caso di approfondire.

Partiamo dai titoli. Il Sole 24 ore vince il premio per titolo più allarmistico con “Virus Nipah in India: è la nuova pandemia?”. Seguono i più cauti titoli di diversi giornali come Repubblica (“Il virus Nipah minaccia il Kerala: che cosa sappiamo”), GreenMe (“Virus Nipah, India in allarme: perché è pericoloso e quanto è probabile una pandemia”), Wired (“India, cos’è il virus Nipah che sta mettendo in allarme il paese”), per arrivare a dei più rassicuranti “Cosa sappiamo della (piccola) epidemia da virus Nipah” di Health Magazine e “Virus Nipah dai pipistrelli, cos’è e quanto è pericoloso. Allarme in India (ma non sarà una nuova pandemia)” del messaggero.

Ma quindi come stanno le cose? Andiamo a leggere proprio l’articolo del Sole 24 Ore, scritto da Francesca Cerati.

“L’India sta adottando misure urgenti per fermare la trasmissione di un virus raro ma mortale che si diffonde dai pipistrelli agli esseri umani. È l’anticamera di una nuova pandemia? La storia di Nipah , virus a Rna comparso per la prima volta in Malesia nel 1998, farebbe escludere questa possibilità, in quanto fino a oggi non si trasmette facilmente”.

Ed ecco che già nel primo paragrafo abbiamo la risposta alla domanda del titolo, pur con il condizionale d’obbligo.

«Nonostante il suo potenziale letale, il virus Nipah non si diffonde così facilmente tra le persone come fanno altre infezioni di origine animale, il che rende meno probabile la sua diffusione oltre i confini nazionali – afferma Danielle Anderson, virologa del Royal Melbourne Hospital in Australia – non mi aspetto che si diffonda a livello globale nella misura di ciò che abbiamo visto con Covid-19».

Anche per Christopher Broder, specializzato in Malattie infettive emergenti presso la Uniformed Services University Medical School di Bethesda, nel Maryland «l’alto tasso di mortalità del virus offre meno opportunità di diffondersi rapidamente tra le popolazioni» e aggiunge che «il ceppo circolante in Kerala non è cambiato molto da quando è emerso per la prima volta più di due decenni fa in Bangladesh, anche se le future epidemie potrebbero essere più grandi se si trasformasse in un ceppo più lieve ma più contagioso. Ed è probabile che esistano già varianti che non sono state ancora rilevate».

Alcuni scienziati, però, temono che l’epidemia indiana – la quarta a colpire il Kerala in cinque anni – e quindi la maggiore diffusione delle infezioni tra le persone possa portare il virus a diventare sempre più contagioso: «Ogni epidemia offre all’agente patogeno l’opportunità di modificarsi».

In effetti, anche se il valore R di Nipah (fattore che misura la diffusione del contagio in una popolazione) è basso (circa 0,33, il che significa che è improbabile che l’infezione si diffonda lontano dalla sua fonte animale), se gli animali infetti dovessero essere trasportati nelle grandi città, l’aumento della densità di popolazione aumenterebbe il rischio di trasmissione da persona a persona che potrebbe consentire al virus di evolversi, innescando nel tempo una nuova pandemia. Uno scenario che abbiamo già visto.

Il virus Nipah è stato rilevato per la prima volta più di due decenni fa, a seguito di un’epidemia tra gli allevatori di suini in Malesia. Nel giro di pochi mesi si è poi diffuso a Singapore attraverso i maiali infetti. L’epidemia ha provocato quasi 300 casi e più di 100 morti. Da allora non sono stati segnalati altri focolai di Nipah in Malesia, ma nel 2001, il virus è emerso in Bangladesh e in India, dove le epidemie hanno continuato a divampare periodicamente.

Uno studio del 2019 su quasi 250 casi di virus Nipah in Bangladesh nell’arco di 14 anni ha rilevato che circa un terzo delle infezioni umane sono state trasmesse ad altre persone (da qui il valore di R = 0,3).

Quando il virus causa la malattia, l’effetto principale è l’encefalite (gonfiore del cervello). I pazienti sviluppano febbre e lamentano un intenso mal di testa e molti sperimentano disorientamento, sonnolenza e confusione. A oggi non esistono farmaci specifici per il trattamento dell’infezione da Nipah. Sono allo studio sia la ribavirina (indicata in associazione con altri medicinali per il trattamento dell’epatite C cronica) sia anticorpi monoclonali, ma la loro efficacia sull’uomo non è stata ancora dimostrata. Mentre è in fase 1 di sperimentazione un vaccino a mRna prodotto da Moderna in collaborazione con Il National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense.

Vi dico la mia. Si tratta di un virus che conosciamo da oltre vent’anni, di cui nessuno aveva sentito parlare fino ad ora. Che però ha già causato qualche epidemia negli anni passati, alcune neanche così piccole. La prima, a Singapore, ha causato circa 100 morti. Questa epidemia di adesso in Kerala è più preoccupante delle altre? Quante persone sono morte? L’articolo del Sole 24 Ore non riporta questo dato, cosa curiosa, allora sono andato a cercarlo su Al Jazeera e The Indian Express. La risposta è 2. 2 persone. Che per carità, ogni vita è preziosa, però non mi sembra ci siano i presupposti per parlare di nuova pandemia.

Tutto è possibile ovviamente, non possiamo escludere che questa cosa succeda in assoluto, ma le probabilità, alla situazione attuale, sono molto molto basse. Anche perché, l’aspetto fra virgolette positivo – passatemi il termine – di un virus ad alta mortalità e rapida incubazione come questo è che è facilmente contenibile proprio perché molte delle persone che lo contraggono e si ammalano, purtroppo, muoiono. 

Ma allora perché parlare di possibile nuova pandemia? Qual è il bias in cui in cui è incappato il titolista o la titolista del Sole 24 Ore (e non la giornalista, in questo caso, perché le grandi testate hanno proprio le figure dei titolisti)?

Se non siete familiari col termine, dicesi bias cognitivo quel meccanismo mentale che ci porta a fare dei falsi ragionamenti. Considerate che il nostro cervello deve fare un lavoro costante di decodifica della realtà e nel farlo prende un sacco di scorciatoie, chiamate euristiche. Alcune di queste scorciatoie però sono fallaci, e in quel caso parliamo di bias cognitivi. Sono errori dettati proprio dalla biologia del nostro cervello quindi nessuno ne è esente e possiamo trovare dei meccanismi ricorrenti, tant’è che ne sono state fatte diverse classificazioni che trovate facilmente online. 

Qualche informazione di servizio. Per vincere questa prima edizioni a premi dovete inviarmi via mail, solo ed esclusivamente via mail, all’indirizzo andrea.deglinnocenti@italiachecambia.org. Nella mail dovete specificare il nome del bias, non solo descrivere il meccanismo. Dovete dirmi il nome. Ci sono almeno 2-3 risposte corrette, perché i nomi variano a seconda della classificazione a cui fate riferimento, ma voglio un nome. Il premio di questa prima puntata, che andrà a tutti coloro che risponderanno correttamente entro domani sera, venerdì 29 settembre, è un anno di abbonamento a ICC, che potete usare per voi o se siete già abbonati/e potete regalare a chi volete. 

Ultima cosa: la soluzione e l’eventuale vincitore vincitrice saranno comunicati via newsletter sabato 20 settembre, quindi se volete partecipare e sapere se avete vinto, dovete iscrivervi alla newsletter di INMR, che trovate sia in descrizione del video e del podcast che sulla pagina rassegna stampa.

Continua l’atteggiamento ambiguo di molti governi e istituzioni statali verso il petrolio e i combustibili fossili in generale, con molte promesse di abbandono e piani di transizione da un lato, ma anche un costante finanziamento e approvazione di nuovi progetti estrattivi. L’ultimo caso è quello della Gran Bretagna, in cui un organo regolatore dell’energia ha dato il via libera allo sviluppo del più grande giacimento petrolifero non sfruttato del Regno Unito al largo delle Shetland, scatenando l’indignazione degli ambientalisti.

Scrivono Mark Sweney e Matthew Taylor sul Guardian: “La decisione del regolatore britannico per il petrolio e il gas di concedere alla Equinor, quotata a Oslo, e alla britannica Ithaca Energy il permesso di sviluppare il giacimento di petrolio e gas di Rosebank, nel Mare del Nord, è stata condannata dalla deputata dei Verdi Caroline Lucas come “il più grande atto di vandalismo ambientale della mia vita”.

Il giacimento ha il potenziale di produrre 500 milioni di barili di petrolio nel corso della sua vita, che una volta bruciati emetterebbero tanta anidride carbonica quanto il funzionamento di 56 centrali elettriche a carbone per un anno. Il ritmo di produzione sarebbe di circa 69.000 barili di petrolio al giorno – circa l’8% della produzione giornaliera del Regno Unito.

Gli attivisti ecologisti, tra cui Greta Thunberg, avevano chiesto al governo britannico di fermare lo sviluppo, sostenendo che fosse in contrasto con il piano britannico per un’economia a zero emissioni.

Come ha dichiarato Philip Evans, attivista di Greenpeace UK per il clima “Rishi Sunak ha dimostrato una volta per tutte che mette i profitti delle compagnie petrolifere al di sopra della gente comune”, “Sappiamo che fare affidamento sui combustibili fossili è terribile per la nostra sicurezza energetica, per il costo della vita e per il clima”.

Fra l’altro, come nota Simon Francis, coordinatore della End Fuel Poverty Coalition, “Nascosto tra le clausole dell’accordo c’è il fatto che questo progetto può essere portato avanti solo grazie a una massiccia agevolazione fiscale che il governo sta concedendo al gigante internazionale del petrolio e del gas Equinor”.

Ma come si è giustificato il governo britannico? Claire Coutinho, segretario di Stato per la sicurezza energetica e il net zero (l’obiettivo di emissioni nette zero), ha detto che il Regno Unito deve “essere pragmatico”, dato che si prevede che il petrolio e il gas saranno ancora necessari per un quarto del fabbisogno energetico del Paese nel 2050.

“La scelta che abbiamo di fronte è la seguente: chiudiamo il nostro petrolio e il nostro gas lasciandoci dipendere da regimi stranieri? Perdiamo 200.000 posti di lavoro in tutto il Regno Unito? Importiamo carburante con un’impronta di carbonio molto più elevata? E perdiamo miliardi di gettito fiscale? “Siamo leader mondiali nella riduzione delle emissioni di carbonio, ma per quanto ambiziosi, dobbiamo essere pragmatici” ha detto.

Che sono le classiche risposte che danno i governi in questo caso. Che hanno ovviamente un fondo di verità, ma mi chiedo: il modo migliore per emanciparsi da governi e aziende straniere è davvero aprire un nuovo mega giacimento? Peraltro affidato a un’azienda norvegese? Non è meglio forse accelerare nella transizione energetica verso le rinnovabili e lavorare a un piano di sostanziose riduzioni nei consumi energetici? Visto che tanti lavori andranno persi comunque nei prossimi anni, sia per via della transizione che dell’IA, non è meglio concentrarsi sul cambiare i sistemi di distribuzione del reddito, svincolandoli dal lavoro? Non dico che sia semplice, non lo è, ma fors eun governo di ampie vedute dovrebbe iniziare a farsi queste domande.

Sempre a proposito di aiuti all’industria agonizzante fossile, restiamo sul Guardian per un’inchiesta molto interessante che rivela degli aiuti diciamo “nascosti” del settore bancario alle compagnie fossili. In pratica da quando è entrato in vigore l’Accordo di Parigi (quindi parliamo del 2015 in poi), molte grandi banche europee come Deutsche Bank, HSBC, Barclays, BNP Paribas e Crédit Agricole hanno permesso alle compagnie fossili di recuperare più di 1.000 miliardi di euro dai mercati obbligazionari per sostenere progetti di espansione di petrolio, gas e carbone. Una forma di supporto meno “visibile” e diretta rispetto ai prestiti. Tutto questo mentre gli stessi istituti di credito davano molta pubblicità ai loro sforzi di togliere gradualmente supporto alle fossili.

E questa, probabilmente, è solo la punta dell’iceberg. Sotto la lente, infatti, sono finite solo una piccola porzione delle transazioni finanziarie che possono garantire supporto alle fossili. I 1.000 miliardi di euro sono il denaro mobilitato da appena 1.700 emissioni obbligazionarie, selezionate perché riferite a compagnie che hanno esplicitamente affermato di voler continuare a espandere i loro progetti di estrazione delle fossili.

Ma reperire fondi sui mercati per questo tipo di operazioni è diventato più difficile e più “costoso” in termini di immagine negli ultimi anni, soprattutto dopo il Paris Agreement. L’inchiesta dimostra che dal 2016, tra i diversi modi per reperire risorse da parte delle compagnie fossili, la quota delle obbligazioni ha fatto un balzo avanti notevole. Da circa il 30% nel 2015 si è passati al 50% nel 2020. Soprattutto a scapito del più “tradizionale” strumento del prestito. Transazioni, quelle legate ai bond, che peraltro le banche difficilmente fanno valere nei loro bilanci di sostenibilità. Risultando così molto più “green” di quanto non siano.

Ma come funziona questo meccanismo? Ve lo leggo direttamente dalle parole di Jillian Ambrose, che firma il pezzo sul Guardian: “Le obbligazioni sono emesse dalle società del fossile per raccogliere fondi per progetti specifici o per le loro operazioni generali. Esse fungono di fatto da pagherò tra la società e gli investitori che acquistano l’obbligazione. Le banche percepiscono commissioni per la sottoscrizione e la commercializzazione delle obbligazioni ai loro clienti e ad altri investitori, nonché per la fornitura di servizi di consulenza o amministrativi. Le banche sottoscrittrici garantiscono le vendite delle obbligazioni acquistandole prima di venderle agli investitori sul mercato obbligazionario globale. In genere una singola emissione obbligazionaria prevede l’aiuto di più banche”.

In pratica: la compagnia del fossile di turno emette delle obbligazioni, dei bond, ovvero delle azioni con una certa scadenza che servono a tirar su liquidità immediata con cui finanziare i loro progetti. Le banche prendono un obolo per il loro servizio di consulenza e si impegnano a acquistare queste obbligazioni e a rivenderle ai loro clienti, facendo da intermediarie. Ma facendo così possono fare a men odi dichiarare che finanziano il fosseile con prestiti o finanziamenti diretti, perché per l’appunto sono solo intermediarie. Questo è il meccanismo.

Secondo l’inchiesta, Deutsche Bank è la banca europea più attiva su questo fronte.

Seguono altri colossi bancari europei come Le britanniche HSBC e Barclays e le francesi Crédit Agricole e BNP Paribas. Per quanto riguarda le compagnie che hanno più beneficiato invece al primo posto c’è la compagnia petrolifera statale messicana, Petróleos Mexicanos, seguita da Petrobras, Roseneft, Shell e BP.

Chiudiamo con una notizia in tema, ma dal tenore diverso. Restiamo sul Guardian visto che ci siamo, dove la corrispondente ambientale Sandra Laville racconta dell’incredibile causa intentata da 6 adolescenti contro 32 stati del mondo. 

Leggo: “Mercoledì scorso, una bambina portoghese di 11 anni si è seduta nella grande sala della Corte europea dei diritti dell’uomo per affrontare 86 avvocati di 32 nazioni nella più grande azione legale sul clima del mondo.

Mariana Agostinho era accanto a suo fratello, sua sorella e i suoi cugini, due file indietro rispetto ai 17 giudici per i diritti umani. A pochi metri di distanza, squadre di avvocati in abito nero provenienti da tutta Europa erano in piedi per argomentare perché i Paesi che rappresentavano non dovessero fare di più per affrontare il riscaldamento globale.

Agostinho era rimasto in piedi mentre i giudici, guidati dalla presidente della Corte, Síofra O’Leary, entravano per prendere posto. O’Leary ha detto all’aula gremita: “Il caso riguarda gli articoli 2, 3, 18 e 14 [della Convenzione europea sui diritti umani] per quanto riguarda l’impatto del cambiamento climatico… che provoca ondate di calore e incendi che colpiscono la vita e la salute dei ricorrenti”.

Fuori dalla Corte, a Strasburgo, i sei giovani portoghesi sono stati sostenuti da attivisti provenienti da tutto il mondo, con cartelli che recitavano: “Siete eroi, restate forti” e “Amore e coraggio”.

L’articolo è molto lungo e dettagliato e descrive l’ennesimo caso di cittadini/e che portano in tribunale stati o aziende. Un fenomeno in crescita e che continueremo a tenere d’occhio.

Mappa

Newsletter

Visione2040

Mi piace


La Grecia vieterà la pesca a strascico, primo paese in Europa – #920

|

L’assalto eolico è ingiustizia climatica: le conseguenze sul patrimonio culturale sardo

|

Franco D’Eusanio e i vini di Chiusa Grande: “È un equilibrio naturale, noi non interveniamo”

|

L’arte collettiva del sognare: il social dreaming arriva in Liguria

|

Quanto inquinano gli aerei? Ecco cosa dicono i dati e le leggi

|

No border books, un kit di benvenuto per i piccoli migranti che approdano a Lampedusa

|

Intelligenza artificiale in azienda: ci sostituirà o ci renderà il lavoro più facile?

|

HandiCREA e il sogno di Graziella Anesi di un turismo accessibile e inclusivo

string(9) "nazionale"