15 Feb 2023

Quali sono le mire di Putin sulla Moldavia – #669

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Preoccupa la situazione della Moldavia, che rischia di essere coinvolta nel conflitto. Torniamo a parlare anche delle elezioni regionali in Lazio e Lombardia, aggiungendo qualche considerazione a quelle di ieri e andando a scoprire chi è Francesco Rocca, nuovo Presidente del Lazio. Parliamo anche del processo Ruby Ter, del NYT che ha fatto causa alla Commissione europea per tenere nascosta la corrispondenza fra Von Der Leyen e il Ceo di Pfizer, della guerra intestina a Shell per la sostenibilità e infine del bando alle auto inquinanti sancito dal Parlamento europeo.

Da qualche giorno circolano insistentemente delle voci su una possibile intenzione russa di conquistare, in qualche forma, la Moldavia. E allora parliamone e cerchiamo di capire come stanno le cose. innanzitutto, di chi sono queste “voci” che girano? Innanzitutto del governo ucraino: la scorsa settimana il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj nel corso dei suoi incontri con i leader europei a Bruxelles ha più volte detto di avere informazioni abbastanza consistenti relative all’intenzione di Putin di ribaltare il governo della Moldavia.

Qualche giorno dopo, domenica 13 febbraio, è stata la stessa presidente moldava Maia Sandu, che ha parlato di un piano russo per creare disordini all’interno della Moldova con l’obiettivo d’installare un governo favorevole a Mosca. Sandu, filoeuropea, ha dichiarato che i disordini sarebbero fomentati da persone arrivate dalla Russia, dalla Serbia, dalla Bielorussia e dal Montenegro e di aver ricevuto una serie di documenti intercettati dai servizi segreti che proverebbero questo piano.

Nel mentre, il 10 febbraio, la prima ministra Natalia Gavrilița ha rassegnato le sue dimissioni, senza dare troppe spiegazioni ma dato il contesto, sembra aver pesato la pressione del contesto. Il governo filoeuropeista di Gavrilita, comunque è stato sostituito da un governo altrettanto filoeuropeista, ma guidato da Dorin Recean, un esperto di questioni di difesa e servizi segreti, forse considerato più adatto a gestire una situazione potenzialmente esplosiva come quella attuale.

Ultimo elemento necessario a comprendere il contesto, la Moldavia (o moldova) è una delle repubbliche ex sovietiche, popolata da una minoranza russa abbastanza consistente, così come da una minoranza ucraina russofona abbastanza consistente. E già qui capite che è una situazione potenzialmente esplosiva. Metteteci anche che, se complessivamente la Moldavia, un po’ come l’Ucraina, si è molto avvicinata all’Europa negli ultimi anni (tant’è che il governo in carica è spiccatamente filoeuropeista) una delle sue regioni, la Transnistria, si è autoproclamata autonoma e nel 2014 ha chiesto l’annessione alla Russia ed è governata da un governo filorusso.

Insomma, un discreto casino. Vi leggo un breve commento di Pierre Haski su France Inter (tradotto da Internazionale) riferito alla possibile aggressione russa: “È uno scenario plausibile? La vicenda suscita due domande: Putin ha i mezzi per destabilizzare la Moldova? Ha davvero l’interesse a farlo?

Alla prima domanda possiamo rispondere in maniera positiva, senza esitazioni. La Moldova è un paese estremamente fragile, con appena 2,6 milioni di abitanti. Inoltre c’è stata una secessione che ha riguardato un terzo del territorio nazionale, nella Transnistria, pattugliata da un migliaio di soldati russi. Infine bisogna tenere presenti le ricadute quotidiane nella vicina Ucraina. Negli ultimi giorni alcuni missili russi hanno sorvolato il territorio moldavo e il paese si ritrova regolarmente senza corrente elettrica a causa del bombardamento degli impianti in Ucraina.

La Moldova oggi è divisa e vive una guerra dell’informazione costante, come ha ricordato Sandu in occasione della sua visita in Francia a dicembre. La presidente, eletta democraticamente, ha appena sostituito il primo ministro per affrontare la sfida attuale. Ma la sua scelta chiaramente filo-occidentale l’ha trasformata in un bersaglio.

Quale sarebbe l’interesse di Putin a destabilizzare la Moldova? In realtà sarebbe doppio: prima di tutto potrebbe “punire” l’Unione europea per il suo sostegno all’Ucraina. Inoltre i 27 paesi dell’Unione, l’anno scorso, hanno concesso al paese lo status di candidato all’ingresso nell’Unione contemporaneamente all’Ucraina. Rovesciando il governo moldavo, Putin darebbe uno schiaffo all’Europa che osa sfidarlo.

Ma esiste anche la possibilità che la Russia non abbia rinunciato al suo sogno di conquistare il sud dell’Ucraina per creare una continuità territoriale tra il Donbass, la Crimea e la Transnistria. Era uno degli obiettivi iniziali di Mosca, poi fallito a causa della resistenza della città di Mikolaiev, nel sud dell’Ucraina. Ora questa aspirazione potrebbe tornare a fare capolino.

È evidente che per Putin la Moldova è soltanto “polvere dell’impero”, un coriandolo nel cortile di casa. Per questo motivo il presidente russo non esiterebbe a usare la forza per sbarazzarsene se si mettesse di traverso nel suo cammino. L’Europa, ammettiamolo, sarebbe piuttosto impotente davanti a una simile escalation”.

Insomma, sono parole che sembrano avvalorare l’ipotesi di una estensione del conflitto (in modo più o meno diretto) alla Moldavia. Non ho le competenze per aggiungere altro, mi limito a segnarmi mentalmente questo fronte fra quelli da tenere d’occhio all’interno del conflitto.

Torniamo a parlare delle elezioni regionali. Ieri abbiamo commentato soprattutto il dato, altissimo, dell’astensione. Oggi vi voglio portare qualche altro spunto di riflessione prendendo spunto da alcuni articoli. 

Alessandro Clavi su L’Essenziale spiega come questa vittoria della Destra, accompagnata dall’evaporazione delle opposizioni e dall’assenza di altre elezioni importanti all’orizzonte potrebbe permettere al governo di tentare la tanto promessa riforma costituzionale. Il giornalista, al tempo stesso, mette in guardia però dal fatto che questi numeri apparentemente alti della destra – come dicevamo ieri – sono drogati dall’astensionismo, e una riforma costituzionale rischierebbe di avere sì i numeri in parlamento, ma probabilmente di non averli nemmeno lontanamente nel paese. 

Giunio Panarelli su la Svolta racconta invece come le acque si stiano muovendo e agitando in seno alla maggioranza, per via dei cambiamenti negli equilibri di coalizione: “Anche nel centrodestra vincente le acque non sono tranquillissime. Ad agitarle è stata Daniela Santanchè, ministra del Turismo ed esponente di spicco di Fratelli d’Italia: «Dovremo avere almeno 8 o nuove assessori», ha fatto sapere la politica dopo la notizia del sorpasso di FdI sulla Lega. «Ci ragioneremo nei prossimi giorni», ha preso per ora tempo Fontana.

Il Post racconta invece chi è Francesco Rocca, nuovo presidente del Lazio. Che a differenza di Fontana, è un volto fin qui meno noto: “Rocca ha 57 anni, è avvocato, e fino alla candidatura era stato per quasi 10 anni presidente della Croce Rossa italiana e della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (FICR), la più grande organizzazione umanitaria al mondo (dopo la candidatura si era dimesso dalla prima carica). Alla decisione di candidarlo la destra era arrivata con un certo ritardo, il 20 dicembre, e dopo varie discussioni interne alla coalizione: alla fine era stato scelto un candidato della cosiddetta “società civile”, cioè esterno alla politica. È riuscito a vincere nonostante una campagna elettorale di poco più di un mese e mezzo”.

“Per quanto fosse un candidato civico, come lui stesso ha tenuto più volte a ribadire nelle interviste dopo l’elezione, Rocca è stato fin da giovane molto vicino agli ambienti politici della destra: durante gli anni dell’università in giurisprudenza era stato iscritto al Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, il partito di destra conservatore che nacque dopo la Seconda guerra mondiale come erede esplicito del partito fascista. Durante la campagna elettorale Rocca è stato alla larga da connotazioni politiche di questo genere, ma lui e alcuni suoi candidati sono stati ampiamente sostenuti anche da storici esponenti dell’estrema destra del Lazio”.

Sul Rocca politico non c’è moltissimo da dire, perché la sua carriera politica inizia di fatto adesso. In campagna elettorale si è parlato molto di alcuni fatti in cui fu coinvolto quando era molto giovane: a 19 anni Rocca fu condannato a tre anni di carcere e 7 milioni di lire di multa per spaccio di eroina. All’epoca era entrato in contatto con un gruppo criminale proveniente dalla Nigeria che doveva vendere un grosso quantitativo di eroina nei quartieri a sud di Roma, verso il litorale di Ostia: aveva accettato di fare da tramite, senza sapere che i Carabinieri stavano indagando proprio su quel giro. 

Venne arrestato e confessò poco dopo. Lo stesso Rocca ha parlato spesso di questa vicenda, che non ha mai nascosto, e ci è tornato anche in campagna elettorale, sostenendo che gli sia servita come lezione per cambiare in meglio la sua vita. All’epoca in cui fu nominato presidente della FICR disse: «Bisogna imparare dagli errori e migliorarsi ogni giorno che passa. L’umanità è fragile e ogni individuo può sbagliare».

Ultimo elemento da tenere d’occhio, in molti dall’opposizione temono che possa subire pressioni in ambito sanitario che derivano dalla sua rete di conoscenze, che in parte ha contribuito anche al suo successo politico.

Restiamo in Italia, restiamo sul Post, ma cambiamo argomento. Parliamo del processo Ruby Ter. Perché nella giornata di oggi, mercoledì 15 febbraio, ci si aspetta la sentenza di primo grado del filone milanese del processo, in cui è imputato per corruzione in atti giudiziari l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Vi faccio un super riassunto, se volete trovate la versione estesa negli articoli sotto FONTI E ARTICOLI. Il processo Ruby e Ruby bis erano quelli legati allo scandalo dei festini, in cui Berlusconi era accusato, fra le altre cose, di favoreggiamento della prostituzione minorile. Ruby Rubacuori era lo pseudonimo di Karima El Mahroug, una giovane donna di origini marocchine che Berlusconi sostenne essere la nipote di Mubarak, ve lo ricorderete probabilmente, e che poi aprì il vaso di pandora delle feste private di Berlusconi.

All’interno dei processi Ruby uno e bis, pare che Berlusconi (questo almeno dice l’accusa) abbia pagato profumatamente con assegni mensili varie donne per dire falsa testimonianza e provare in tribunale la sua innocenza. Da qui la nuova accusa, che ha portato al Ruby Ter. 

In tutto ciò, lunedì 13 febbraio il governo presieduto da Giorgia Meloni ha deciso di revocare la costituzione di parte civile che era invece stata decisa nel 2017 dal governo guidato da Paolo Gentiloni. Il governo aveva in sostanza chiesto allora un risarcimento di dieci milioni di euro per il «discredito planetario», come l’aveva definito, che a suo avviso le condotte di cui è accusato Berlusconi avevano attirato sull’Italia. (Avete presente quando siete dall’altra parte del mondo e qualcuno vi urla Berlusconi bunga bunga? Ecco, quella roba lì). Il governo attuale ha invece ritenuto non opportuno chiedere un risarcimento a uno dei tre principali leader della maggioranza. 

Oggi, come dicevamo, è attesa un’importante sentenza del tribunale di Milano. Domani ne riparliamo. 

Diversi giornali, fra cui Repubblica, riportano una notizia interessante. Ovvero che il New York Times avrebbe fatto causa alla Commissione Europea per non aver diffuso i contenuti dei messaggi scambiati tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il CEO di Pfizer Albert Bourla durante le negoziazioni per le forniture di vaccini contro il coronavirus.

A scriverlo, per primo, è Politico, chiarendo che i dettagli del caso sono stati confermati da due persone a conoscenza dei fatti. Secondo il New York Times, la Commissione avrebbe l’obbligo di rendere pubblici i messaggi, visto che potrebbero contenere informazioni utili per ricostruire gli accordi da vari miliardi di euro per la fornitura dei vaccini.

Scrive Daniele Castellani Perelli su Repubblica: “La causa segue un filone investigativo avviato nel gennaio 2022, quando era risultato che la Commissione non avesse ottemperato alla richiesta del giornalista Alexander Fanta, di netzpolitik.org, sito tedesco specializzato in diritti digitali, che aveva chiesto di poter leggere lo scambio di messaggi tra von der Leyen e il ceo di Pfizer. La commissaria alla Trasparenza per l’Unione Europea, Vera Jourová, aveva risposto che i messaggi potevano essere stati cancellati, a causa della loro “natura effimera”. La risposta non è  stata ritenuta soddisfacente”.

“Il quotidiano tedesco Bild aveva presentato un’analoga richiesta di accesso ai documenti, ma legati ai negoziati che avevano portato all’acquisto da parte dell’Unione Europea dei vaccini prodotti da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca. I documenti a cui Bild ha avuto accesso non contenevano lo scambio di email tra la presidente della Commissione Europea e il ceo di Pfizer”. Insomma, sembra che la Commissione non voglia proprio rivelare la corrispondenza fra la Presidente e il Ceo di Pfizer, il che da adito ovviamente a speculazioni su possibili accordi non proprio trasparenti fra le due organizzazioni. Vediamo se la Causa del NYT, il quotidiano più influente al mondo, avrà qualche effetto a riguardo.

Un’altra battaglia legale è quella che sta agitando le viscere di Shell, una delle compagnie petrolifere più grandi al mondo. Ce ne parla Pierfrancesco Albanese su La Svolta: “È una battaglia intestina quella che coinvolge la multinazionale petrolifera Shell, al centro di un braccio di ferro che contrappone parte degli azionisti e il consiglio d’amministrazione della società leader nella produzione e vendita del greggio.

L’organizzazione legale ambientalista ClientEarth, tra gli investitori del gigante dell’energia, ha intentato un’azione legale che tira in ballo i responsabili della società, accusati di non aver predisposto un piano d’azione per contrastare cambiamento climatico. L’accusa lanciata al consiglio d’amministrazione è chiaro.

Il piano Powering Progress messo a punto da Shell è stato definito irragionevole perché – è l’accusa di ClientEarth – la strategia adottata dalla multinazionale non è in grado di attuare una riduzione delle emissioni in linea con gli obiettivi climatici globali di transizione energetica. Con una potenziale compromissione anche della stessa competitività dell’azienda perché, a parere dell’organizzazione, il mercato energetico del futuro sarà dominato da energia più economica e, soprattutto, più pulita. Muovere gli investimenti in questa direzione diviene, dunque, essenziale. Specie perché è lì che si incanala la domanda dei consumatori.

L’accusa è stata presentata all’Alta corte contro gli undici direttori di Shell, guidati dal presidente Andrew Mackenzie, colpevoli di aver violato i loro doveri ai sensi della legge britannica, che impone di gestire adeguatamente i rischi “materiali e prevedibili” derivanti dal cambiamento climatico. Vedremo come evolverà la cosa, ma per adesso mi sembra interessante che il piano delle rivendicazioni “ambientaliste” si sia spostato all’interno delle stesse aziende inquinanti.

In chiusura, segnalo un’altra notizia positiva. Ovvero che il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo all’accordo, raggiunto dall’Ue lo scorso novembre, sullo stop ai veicoli inquinanti (quindi a benzina e diesel) di nuova immatricolazione a partire dal 2035. 

In parallelo la Commissione dovrebbe presentare una proposta di regolamento sulla mobilità pubblica che prevede che gli autobus cittadini siano a zero emissioni dal 2030 e un taglio del 90% delle emissioni per le flotte degli altri mezzi pesanti nuovi al 2040.

Il fatto che tutto ciò sia un’ottima notizia, è certificato anche dalla reazione del nostro Ministro delle Infrastrutture e Trasporti, nonché vicepremier Matteo Salvini che ha detto: “Decisione folle e sconcertante, contro le industrie e i lavoratori italiani ed europei, a tutto vantaggio delle imprese e degli interessi cinesi. Ideologia, ignoranza o malafede?”. Un’ulteriore prova che l’Ue sta andando nella giusta direzione.

Prima di chiudere, una rettifica. Nella puntata di ieri ho parlato della visita saltata del Segretario di Stato Usa Mike Pence a Pechino. Ecco, mi avete fatto notare che il segretario di Stato americano non è Mike Pence, ma Antony Blinken. Non so da dove mi è uscito Mike Pence, che invece era il vice di Donald Trump. 

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