12 Giu 2023

Stallo sul clima: a Bonn è “ricchi” contro “poveri” – #744

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Il vertice sul clima di Bonn, preparatorio alla Cop 28 di Dubai, è giunto a circa metà dei negoziati, e la situazione appare abbastanza di stallo, con due schieramenti abbastanza distinti di paesi. Intanto l’ex presidente Usa Donald Trump è stato nuovamente incriminato, questa volta per i documenti segreti trafugati nella sua villa in Florida. Parliamo anche della morte di Unabomber e delle soluzioni paradossali per l’inquinamento dell’aria a New York dovuto agli incendi.

Se seguite assiduamente INMR lo saprete già, comunque in questi giorni si stanno svolgendo a Bonn i negoziati preparatori per Cop 28, la conferenza delle parti sul clima che si terrà fra novembre e dicembre prossimi a Dubai.

I negoziati preparatori servono appunto a preparare il campo e sciogliere più nodi possibili in modo che poi si possa a rrivare a quagliare e ad approvare accordi condivisi durante l’incontro. È iniziata lunedì scorso, 5 giugno, e terminerà questo giovedì. Visto che nel weekend non si lavorava, c’erano due giorni di pausa, alcuni giornali di settore (gli unici che stanno trattando la notizia) ne hanno approfittato per fare il punto su come stanno andando questi negoziati.

Come prevedibile il principale tema all’Odg il fondo perdite e danni (loss&damage) ovvero quel fondo che i paesi ricchi dovrebbero creare per finanziare i danni che i cambiamenti climatici causano ai paesi poveri. Fondo che era stato il risultato più significativo (l’unico, anzi) di Cop 27. Vi leggo quello che scrive su Italian Climate Network Jacopo Bencini, Policy Advisor e UNFCCC Contact Point:

“La prima settimana di negoziati intermedi sul clima a Bonn, in Germania, ci ha confermato che la strategia negoziale dei Paesi del Sud del mondo, supportati dalla Cina, risponde ad una visione di lungo periodo e multilivello. Per dirla in termini concreti, i Paesi del gruppo G77 ed i cinesi non si sono accontentati della storica vittoria negoziale del 2022 a Sharm el-Sheikh, quando riuscirono a spacchettare il fronte dei Paesi ricchi e far approvare la creazione di un fondo per perdite e danni dopo 30 anni di dibattito, a Bonn si sta infatti alzando il tiro, complice l’occasione del lancio del primo inventario globale degli sforzi dei Paesi previsto proprio per quest’anno alla COP: il cosiddetto global stocktake.

Ma di cosa si parla? In sintesi i Paesi dovranno confrontarsi sulla base di quanto fatto contro la crisi climatica e fossile – non promesso, ma fatto – collettivamente dal 2020 (inizio del periodo coperto dall’Accordo di Parigi) ad oggi, per aggiustare il tiro, migliorare le proprie politiche e rilanciare l’ambizione dell’Accordo per i prossimi anni, fino al prossimo stocktake tra cinque anni. 

Se nel 2022 i Paesi del Sud con forte supporto cinese hanno insistito sul tema, apparentemente fuori dall’agenda politica, di perdite e danni, quest’anno puntano a far accettare ai Paesi ricchi e sviluppati uno stocktake che tenga conto non soltanto di quanto prettamente fatto dal 2020 ad oggi, ma anche delle emissioni, politiche e responsabilità storiche pre-2020, semplicemente perché non tutti i Paesi sono partiti dallo stesso blocco di partenza.

Il concetto di “responsabilità comuni ma differenziate”, iscritto dal 1992 nella Convenzione Quadro che regola e indirizza il mondo dei negoziati sul clima dell’ONU, prevede (o prevedrebbe) infatti che le politiche, gli accordi, i protocolli successivi agli accordi del 1992 tengano conto delle responsabilità storiche e le effettive capacità di spesa e intellettuali di ogni stato membro dell’ONU. 

Questo principio solidaristico ha, negli anni, trovato grande consenso ma scarsissima applicazione, specialmente quando riferito alle responsabilità storiche in termini emissivi. Ecco, quindi, che a soli sei mesi da Cop28 G77 più  Cina ci riprovano, fino al punto di bloccare l’adozione dell’agenda dei lavori – cosa abbastanza inaudita nel mondo negoziale – per non vedere inserite nuove ambizioni globali sulla mitigazione da parte dei Paesi ricchi in assenza di concorrenti garanzie su adattamento, perdite e danni, finanza per il clima e, appunto, costruzione di uno stocktake equo e inclusivo.

In particolare, i Paesi del Sud del mondo hanno voluto ostacolare l’inserimento in agenda di un punto di lavoro sul Programma di Lavoro per la Mitigazione (MWP), lanciato a Glasgow due anni fa e rilanciato a Sharm el-Sheikh per dotare le COP di un percorso che potesse portare a nuovi impegni globali sulla mitigazione, tuttavia con la precisa indicazione di non fornire nuovi obiettivi quantitativi. I G77 più Cina hanno fatto ostruzionismo su questo punto perché trovano paradossale parlare di nuovi soldi da spendere per ridurre le emissioni (tutti i Paesi) quando i responsabili storici del problema non accettano di considerare il proprio pregresso nel “riesame” collettivo delle politiche.

A detta della delegazione dell’Unione Europea al negoziato alcuni Paesi del Sud si sono sentiti presi in giro, in quanto appunto c’è la sensazione che, in un contesto di collaborazione quasi inesistente su altri temi quali finanza e perdite e danni, si pretenda anche l’inserimento di nuovi obiettivi numerici per i grandi inquinatori Cina e India, cosa non prevista dal mandato del Programma di lavoro. Tutto questo mentre sempre gli stessi Paesi del Sud reclamano l’inserimento, appunto, di un portato pre-2020 nei dati forniti per lo stocktake. Insomma, una notevole empasse.

In questo tipo di negoziati non si esce mai dall’ultima notte senza un accordo, anche se gli intermedi sono per definizione dei negoziati-ponte verso la prossima COP. Ad ogni modo, è evidente che la doppia vicenda MWP – stocktake si trascinerà fino agli ultimi giorni della prossima settimana, quando probabilmente diventerà necessario un intervento politico dalle capitali per uscire dallo stallo. 

Insomma, riassumendo, siamo bloccati in uno stallo in cui i paesi più poveri (più Cina e India) non vogliono inserire nuove limitazioni vincolanti alle emissioni future mentre spingono perché si tenga conto delle emissioni pregresse, mentre Usa, Ue, Giappone e qualche altro stato vogliono inserire obiettivi più vincolanti ma hanno ovvie reticenze a calcolare le emissioni passate nel computo. 

Ecco, io credo che non si debba scegliere fra queste due cose. Credo che vadano applicate entrambe. È assolutamente necessario inserire limiti vincolanti alle emissioni presenti e future, e ne farlo è necessario tenere conto delle emissioni passate, perché la nostra ricchezza di oggi è figlia di quelle emissioni, e quindi ci sta che oggi chi ha emesso di più paghi un prezzo un po’ più alto.

Nella notte fra giovedì e venerdì scorso l’ex Presidente degli Usa Donald Trump è stato nuovamente incriminato. Come spiega Marco Valsania sul Sole 24 Ore, “Il Dipartimento della Giustizia americano ha fatto scattare la ‘incriminazione per lo scandalo della sottrazione di documenti top secret dalla Casa Bianca e per aver rivelato piani militari di attacco, come sarebbe dimostrato da un audio acquisito dall’accusa. 

Sette i reati federali che gli sono stati contestati, che vanno da violazioni della legge anti-spionaggio a dichiarazioni false e a cospirazione per ostruire la giustizia. È la prima volta che un ex presidente viene accusato di reati federali.

Complessivamente sono ben 37 i capi di imputazione (ovvero i comportamenti che infrangono la legge) contenuti nei documenti depositati dal procuratore speciale Jack Smith per l’incriminazione dell’ex presidente per le carte a Mar-a-Lago.

Come accenna l’articolo del Sole, l’accusa si reggerebbe principalmente su un’intercettazione, che nella giornata di venerdì la CNN ha pubblicato, perlomeno ne ha pubblicato una trascrizione. Un articolo del Post spiega il contenuto e l’importanza di questa intercettazione. Si tratta di una conversazione avuta da Donald Trump nel 2021 in cui l’ex presidente avrebbe ammesso di aver conservato documenti riservati nella sua casa di Mar-a-lago, in Florida, e di essere perfettamente consapevole del fatto che quei documenti erano ancora riservati, e non avrebbero dovuto essere in suo possesso. 

Trump ha sempre sostenuto che quei documenti fossero stati desecretati quando era ancora presidente, e che quindi poteva portarli con sé in Florida. Ma la trascrizione riferita da CNN lo smentirebbe. Nella conversazione Trump parla di un documento del Pentagono riguardo informazioni militari segrete, e dice: «Da presidente lo avrei potuto desecretare, ma ora non posso».

La conversazione risale al luglio del 2021 ed è stata fatta al golf club di Trump a Bedminster, nel New Jersey. In quell’occasione Trump si era incontrato con due persone che stavano lavorando all’autobiografia di Mark Meadows, ex capo dello staff della Casa Bianca, e la conversazione era stata registrata da uno dei due presenti (non si capisce dalla’rticolo se per sua inziativa personale o se con una qualche forma di mandato).

Nel corso dell’incontro Trump commenta un articolo pubblicato alcuni giorni prima dal New Yorker in cui si sosteneva che Mark Milley, capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi, negli ultimi mesi di Trump alla presidenza gli avesse impedito di attaccare l’Iran.

Trump risponde di avere con sé un documento del Pentagono che dimostrerebbe invece come fosse Milley a spingere per attaccare l’Iran, ma che questo documento non poteva essere diffuso perché riservato. A quel punto Trump mostra ai suoi interlocutori alcuni fogli, tra cui presumibilmente anche quello riservato del Pentagono, e dice loro che se li potesse mostrare in pubblico potrebbe smentire quanto scritto dal New Yorker, ma che appunto non può farlo perché sono coperti da segreto.

Trump rischia fino a 20 anni di carcere. Inutile dire che il tycoon sta usando tutti questi fatti per alimentare il fuoco della sua campagna presidenziale, puntando sul complotto ai suoi danni per farlo fuori dai giochi, ordito dall’attuale Presidente assieme all’Fbi. 

E al netto di tutto, e premesso che Trump ama giocare con queste cose, e strizzare l’occhio a i vari Qanon e altri complottismi, un po’ il dubbio che l’apparato americano stia cercando in qualche modo di boicottare l’ex Presidente viene. Anche questa storia dell’Iran, io ricordo bene gli articoli dei giornali in cui si dice chiaro e tondo che Trump avrebbe voluto attaccare l’Iran e che il Pentagono glielo avrebbe impedito. Ora, se è vero che è avvenuto il contrario – cosa da provare, ma che sembrerebbe perlomeno emergere dalla telefonata – be’ un po’ di differenza la fa.

È morto Theodore Kaczynski, l’attentatore noto come Unabomber che tra il 1978 e il 1996 inviò molti pacchi bomba che causarono la morte di tre persone e ne ferirono oltre venti. Kaczynski aveva 81 anni ed era detenuto in un carcere federale del South Carolina dove stava scontando l’ergastolo. Secondo un portavoce del carcere, Kaczynski è stato trovato morto sabato mattina.

Cresciuto nella periferia di Chicago, aveva insegnato per molti anni matematica prima di ritirarsi in una capanna nel Montana, dove organizzava gli attentati. Inviò il primo pacco bomba nel 1978 a Buckley Crist, professore della della Northwestern University: il pacco venne aperto da un agente di polizia che rimase ferito in modo lieve. Le esplosioni dei pacchi bomba inviati negli anni causarono la morte del proprietario di un negozio d’informatica in California, di un impiegato dell’azienda Burson-Marsteller e di Gilbert Murray, presidente della California Forestry Association.

L’FBI indagò per molti anni per cercare di risalire all’autore degli attentati. Gli agenti riuscirono a ottenere indizi importanti quando Kaczynski inviò ai giornali un manifesto di 35mila parole. La lettura del manifesto spinse suo fratello David a collegare il documento alle parole utilizzate solitamente da Theodore. Kaczynski si dichiarò colpevole nel 1998.

Ieri un mio amico mi ha condiviso il celebre manifesto di unabomber, che devo ammettere non avevo mai letto. E devo dire che al netto delle atrocità commesse, la sua visione e previsione della società contemporanea (era il 1995), dai problemi dell’industrializzazione massiccia, alla deriva di una certa sinistra, è per molti aspetti notevole. D’altronde era un genietto della matematica. Poi ecco, la soluzione che ha trovato non è il massimo, diciamo. E possiamo dirci anche non è che abbia funzionato granché.

Se la notizia di prima ci ha riportato ne passato, quella che sto per darvi sembra essere un’istantanea da un futuro piuttosto distopico. Mentre gli abitanti di NY e di altre grandi città americane e canadesi sono ancora alle prese con un’aria fortemente inquinata dai fumi degli incendi in Canada, è rimbalzata sui social nelle ultime ore la notizia che Dyson, la nota azienda di elettrodomestici e in particolare aspirapolveri, ha commercializzato uno speciale paio di cuffie con purificatore d’aria incluso che promette miracoli contro l’aria inquinata.

Il tutto alla modica cifra di 1000$. Ora, intendiamoci, non è che la Dyson è l’unica ditta che produce un macchinario del genere, se ne trovano con caratteristiche simili, che permettono alle persone di uscire di casa, a prezzi molto più modici. Quindi insomma, non è che se non hai 1000 euro da investire muori asfissiato

Ciononostante un po’ di impressione me l’ha fatta questa notizia, per tre ragioni. La prima è che come al solito – e come spiega mirabilmente Naomi Klein nel suo libro di qualche anno fa Shock economy – il capitalismo dei disastri trova sempre il modo di fare profitto da qualsiasi situazione, anche la peggiore. La seconda è che – al netto di quanto detto prima – se continuiamo ad affidare le risposte ai problemi collettivi ai sistemi di mercato, ci sarà un aumento esponenziale delle ingiustizie perché chi è più ricco, che è anche mediamente più responsabile della catastrofe climatico ambientale, sarà sempre più attrezzato per fronteggiarla e trovare soluzioni personali, mentre chi è povero – e quindi anche meno responsabile – sarà sempre più fragile ed esposto (è incredibile fra l’altro come la stessa dinamica che vediamo succedere fra gli stati, la vediamo fra le persone all’interno di un’unica società, è proprio vero che la realtà è frattale). Il terzo motivo è che continuiamo a cercare perlopiù soluzioni estemporanee e sintomatiche, che per tamponare un problema, alimentano il meccanismo di fondo che lo ha creato, ovvero il consumismo, il consumo di risorse, l’acquisto di sempre più oggetti.

Sempre a proposito di incendi, vi faccio ascoltare una riflessione di Manuela Leone di Zero Waste, la nostra esperta di rifiuti (e non solo) e curatrice del podcast “Rifiuti: Ri-evoluzione in corso“, che fa luce su un legame non così evidente ma molto profondo, quello fra incendi e biodiversità.

AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST

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