8 Mar 2023

Ue, dietrofront sullo stop alle auto inquinanti – #684

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Italia e Germania bloccano a sorpresa l’approvazione dello stop alle auto a benzina e diesel dal 2035, quando ormai la normativa sembrava praticamente approvata, mettendo a rischio il piano di decarbonizzazione europeo. Parliamo anche della Mia, la Misura di inclusione attiva che dovrebbe sostituire il reddito di cittadinanza, delle relazioni tese fra Cina e Usa e infine delle elezioni nigeriane. Perché sì, qualcuno le ha vinte, alla fine, e già diversi giorni fa.

È successa una cosa un po’ incresciosa, di cui i giornali non si sono occupati poi molto ma che rischia di farci fare diversi passi indietro nel già lento e farraginoso percorso verso la le emissioni nette zero. Sto parlando della mancata approvazione, all’ultimo, quando sembrava una pura formalità, del divieto europeo alla vendita di nuovi veicoli a diesel e benzina a partire dal 2035.

Il fattaccio risale a venerdì, durante un incontro del Consiglio dell’Unione Europea, i rappresentanti dei 27 paesi membri hanno rinviato l’approvazione definitiva della norma, che ricordo prevede il divieto di vendita di nuovi veicoli a benzina e diesel dal 2035. 

Piccola parentesi disambiguante. Se non vi è chiara la differenza fra Consiglio dell’Unione Europea, Consiglio europeo e Consiglio d’Europa, siete in ottima compagnia, io ogni volta devo andarmela a rivedere. Potevano usare un po’ più di fantasia eh, diciamocelo. Comunque il CUE è uno dei due organi con potere legislativo assieme al Parlamento Ue ed è composto dai un rappresentante (con delega a votare e decidere) per ciascun paese membro. Il consiglio europeo invece riunisce i capi di stato e di governo dei paesi membri, mentre il Consiglio d’Europa è un’organizzazione che non c’entra niente (non è proprio vero, ma per farla semplice).

Come spiegano diversi giornali, fra cui Il Fatto Quotidiano e il Post, “la decisione è decisamente inusuale e sorprendente perché il compromesso era già stato approvato dal Parlamento Europeo, aveva ricevuto l’avallo della Commissione Europea e una prima approvazione informale anche dal Consiglio ed è molto raro che una norma europea si interrompa a quest’ultimo passaggio dell’iter legislativo, cioè l’approvazione definitiva da parte del Consiglio, che è considerata una formalità a tal punto che nel gergo viene soprannominato rubber stamp, timbro postale.

A pesare è stato il ruolo soprattutto di Italia e Germania, non a caso fra i principali paesi produttori di automobili in Europa. Il divieto alla vendita di nuovi veicoli a benzina e diesel era stato approvato a metà febbraio dal Parlamento Europeo, e la votazione finale doveva avvenire durante una riunione del Consiglio dell’Unione Europea programmata per martedì 7 marzo. Nelle riunioni che hanno preceduto quella del 7 marzo, però, i diplomatici del Consiglio si erano accorti che la norma non sarebbe passata, se messa effettivamente ai voti.

Questo perché gran parte dei lavori del Consiglio funziona a maggioranza qualificata: significa che per essere approvata in via definitiva una norma deve ricevere l’approvazione di almeno 15 paesi su 27, che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione dell’Unione. Germania e Italia rappresentavano insieme il 31,9 per cento: a loro si sono aggiunte Bulgaria e Polonia, portando il totale al 41,8 per cento.

Sembra che nei mesi precedenti la Germania fosse stata comunque contraria, ma non avesse trovato alleati abbastanza pesanti da boicottare la norma, mentre il cambio di governo in Italia sembra aver fornito nel nostro paese un grosso alleato ai tedeschi.

Ora che succede alla norma? Come si supera questo empasse? Spiega il Post che  “Per come sono fatte le regole interne dell’Unione Europea un’opposizione netta di Italia e Germania è molto difficile da superare. Il fatto che non sia stata fissata una data per un nuovo voto sul divieto fa pensare che i funzionari del Consiglio prevedano settimane, se non mesi, di nuove trattative”.

Insomma, non si sa bene quali saranno le richieste di modifiche del nostro governo e di quello tedesco alla norma europea, non si sa nemmeno se l’obiettivo è modificare il testo (ad esempio inserendo i cosiddetti biocarburanti al suo interno) o semplicemente giocare a tirarla per le lunghe il più possibile, fare ostruzionismo finché la scadenza del 2035 non diventerà nei fatti irrealizzabile. Fatto sta che questo improvviso e inaspettato blocco rischia di essere una grave battuta d’arresto per il già difficile percorso di emancipazione dalle fonti fossili. 

Il tema delle auto elettriche è uno di quelli su cui ancora oggi c’è più disinformazione, soprattutto nel nostro paese, per ovvi motivi. Come abbiamo più volte raccontato su Italia che Cambia, l’elettrificazione della mobilità è un elemento indispensabile della transizione ecologica, quella vera. Ciò non vuol dire che abbia torto chi dice che non possiamo inondare il mondo di auto elettriche, perché si consumano un sacco di materie prime per produrre. Le due affermazioni non sono in contrasto: dobbiamo elettrificare tutti i trasporti, e al tempo stesso ridurre drasticamente il numero di auto in circolazione, usando sistemi di condivisione e sharing (magari abbandonando gradualmente il concetto di auto privata), usando più i mezzi pubblici, usando di più le proprie gambe per andare a piedi e in bicicletta e così via. 

Stringiamo sull’Italia, perché in questi giorni il governo sta mettendo in piedi quella che considera la norma che andrà a riformare/integrare/sostituire – scegliete voi il termine che vo sembra più adatto – il RDC. 

La misura è nota al momento come MIA “Misura di inclusione attiva” e come spiega Riccardo Carlino su La Svolta “Stando alle bozze del decreto-legge, si potrà farne richiesta dalla fine di agosto/inizio settembre, ovvero al termine dei sette mesi di proroga concessi dal Governo ai percettori del reddito di cittadinanza”.

Vi elenco quali sono le differenze con il RDC e cosa dovrebbe cambiare. onsiderate sempre che è una bozza trapelata alla stampa, quindi diverse cose potrebbero cambiare da qui a quando presumibilmente verrà approvata nelle prossime settimane. 

“A subire cambiamenti sarà la platea dei potenziali beneficiari. Le famiglie indigenti composte da minorenni, over 60 o persone con disabilità e senza persone “occupabili”, termine che si riferisce a coloro che sono nella condizione di poter lavorare, dovrebbero beneficiare di un sussidio mensile di 500 euro fino a un massimo di 18 mesi, pari all’importo del Reddito di cittadinanza.

La vera stretta invece sarebbe per tutti gli altri circa 400.000 soggetti tra i 18 e 60 anni d’età che, ai sensi della norma, proprio in virtù della loro “occupabilità” una volta scaduta l’erogazione del Reddito di cittadinanza potranno richiedere una Mia ridotta a 375 euro per non più di un anno.

Un’altra forte novità prevista è infatti l’impossibilità di richiedere a oltranza, ogni 18 mesi, l’assistenza del sussidio come avveniva per il Reddito. Le famiglie senza occupabili potrebbero presentare una seconda domanda, la cui durata però si accorcerebbe a 12 mesi. mentre per tutti gli altri possibili percettori occupabili la seconda richiesta scadrà dopo sei mesi, e soltanto dopo un anno e mezzo potrà essere inoltrata una terza domanda.

La discussione rimane aperta invece sui 280 euro previsti ora dal Reddito come aggiunta per chi deve anche pagare un affitto. Cifra che potrebbe subire modifiche e riduzioni in base al numero dei componenti del nucleo familiare

Dalle bozze del decreto che trapelano dagli uffici del Ministero ci sarebbero novità stringenti anche per il tetto Isee, l’Indicatore Situazione Economica Equivalente fondamentale per valutare e confrontare le finanze di un nucleo familiare che intende accedere a una prestazione sociale agevolata di qualunque tipo. L’importo ISEE massimo per beneficiare del sussidio dovrebbe scendere dagli attuali 9.360 euro a 7.200 euro, con circa un terzo di potenziali percettori tagliati fuori dal bacino di utenza della Misura, con la probabilità tuttavia di un aumento dell’importo proporzionale al numero dei componenti della famiglia.

Per ottenere il sussidio sarà inoltre necessario essere cittadini italiani o dell’Ue con diritto di soggiorno permanente, o cittadini di Paesi terzi con permesso di soggiorno di lungo periodo. Ad ogni modo, vi sarà il requisito della residenza in Italia per almeno 5 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e non più i 10 richiesti per il Reddito di cittadinanza.

Si prevede anche un obbligo di formazione e partecipazione attiva per i soggetti con più di 16 anni attualmente non impegnati in un percorso di studi, esteso a tutti i membri maggiorenni e minorenni del nucleo familiare che hanno adempiuto agli obblighi scolastici. Tale obbligo è escluso invece per gli over 60 e i famigliari con disabilità, oltre a un possibile esonero per i componenti della famiglia con a carico figli minori di tre anni o disabili in condizioni di gravità.

Tutti gli occupabili dovranno iscriversi in una nuova piattaforma nazionale creata ad hoc per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, grazie al quale potranno ricevere, da parte dei centri pubblici per l’impiego e agenzie private del lavoro, offerte parametrate alla formazione e al profilo della persona occupabile, giudicabili come “congrue” solo se il luogo di lavoro sia situato nella provincia di residenza (o zone confinanti) del beneficiario.

In accordo con le modifiche al Reddito di cittadinanza operate dalla recente manovra, chi è considerato occupabile non potrà che accettare la prima proposta di lavoro congrua ricevuta, pena il decadimento del sussidio. Inoltre la bozza prevede anche per le agenzie per il lavoro un incentivo per ogni soggetto assunto, di valore pari al il 10% di quanto riconosciuto al datore di lavoro (decurtato dal suo).

I datori di lavoro che assumeranno i percettori della Mia con un contratto a tempo indeterminato potranno essere esonerati dal versamento della totalità dei contributi per un massimo di due anni, con un limite di 8.000 euro l’anno. Uno sgravio fiscale che intende incentivare le assunzioni stabili, ma che dovrà essere interamente restituito dal datore di lavoro in caso di licenziamento nei 36 mesi successivi.

Ecco. Fermiamoci un attimo, scusate il lungo elenco della spesa ma mi sembrava importante dirvi tutti i dettagli, Ve ne do un ultimo, che a me fa molto ridere. Questa riforma si chiamerà anche Riforma Calderone. Che non è un nome tipo decreto milleproroghe, né allude al fatto che vi sono incluse cose molto diverse fra loro. Ma dal nome della ministra del Lavoro e delle politiche sociali, Elvira Calderone.

Facciamo anche un breve commento. Mi risulta difficile, con tutte queste variabili, andare nel dettaglio visto che molte cose probabilmente cambieranno. Uno degli aspetti più criticati è quello legato all’obbligo di accettare tutte le offerte congrue, fin dalla prima, dove la congruità, se ho capito correttamente, diventa solo un criterio geografico. Leggasi vicine. Il che, insomma, mi lascia abbastanza perplesso e potrebbe rendere i percettori del reddito facilmente “ricattabili”, o esposti a lavori sottopagati, ad esempio.

Poi c’è l’impianto filosofico più generale, di cui abbiamo parlato in passato, che a me personalmente non convince. Quello che divide il mondo in gente operosa e fannulloni. Il paradigma della produttività, della crescita. Che ormai sappiamo bene non funziona più. Abbiamo bisogno di fare tutti meno, lavorare meno, produrre meno. A maggior ragione con l’avvento dell’AI. Certo, possiamo riflettere su come farlo, su come fare in modo che il lavoro sia equamente distribuito, che non tutto lo sforzo gravi sulle spalle di pochi e così via. Ma qui siamo lontani anni luce (e con qui non intendo solo questo governo eh, sia chiaro) anche da un punto non dico di arrivo, ma di partenza simile. 

Stanno facendo abbastanza scalpore le dichiarazioni delle massime cariche istituzionali cinesi sui rapporti fra Cina e Usa. L’altroieri il presidente cinese Xi Jinping ha accusato direttamente gli Stati Uniti e tutto l’Occidente di voler impedire lo sviluppo economico della Cina con una campagna di «contenimento» ai suoi danni. Che, come riportano la Repubblica, il Corriere, il Post (fra gli altri) è una cosa davvero inusuale. Abitualmente i leader cinesi – e soprattutto quelli di altissimo rango come il presidente – usano una retorica molto vaga e ambigua: quando devono criticare un paese straniero parlano di «alcuni paesi», senza mai rivolgere critiche esplicite e dirette. Ma lunedì, in un discorso fatto a un gruppo di imprenditori, Xi ha preso di mira gli Stati Uniti direttamente.

Xi ha detto, secondo la trascrizione in cinese del discorso: «I paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno applicato una politica complessiva di contenimento, accerchiamento e oppressione nei nostri confronti, e hanno creato problemi di una gravità senza precedenti allo sviluppo del nostro paese». Nella trascrizione in inglese distribuita dai media di stato, la frase contro gli Stati Uniti e l’Occidente non c’è, ma i media occidentali l’hanno facilmente trovata e riportata. Sembrerebbe “la prima volta che Xi ha pubblicamente identificato gli Stati Uniti» come il principale ostacolo allo sviluppo cinese. 

Ma forse ancora più nette, precise e incisive sono state le parole di Qin Gang, che è stato ambasciatore negli Usa prima di diventare 2 mesi fa ministro degli Esteri (#2 della diplomazia cinese dopo il premier Wang Yi). Vi riporto come Gabriele Battaglia, giornalista esperto di Cina, riporta sul suo profilo Facebook riassume per punti quanto detto dal ministro nella sua prima conferenza stampa come ministro:

  1. la Cina non rifornisce di armi la Russia;
  2. c’è una “mano invisibile ” (gli Usa) che punta all’escalation in Ucraina;
  3. gli aumenti dei tassi di interesse negli Stati Uniti hanno imposto un onere aggiuntivo ai paesi indebitati – sono gli Usa che creano la trappola del debito)
  4. non c’è bisogno di una Nato dell’Asia-Pacifico;
  5. il deterioramento dei rapporti Cina-Usa deve essere fermato, se gli Usa non si danno una calmata ci sarà sicuramente conflitto;
  6. la Cina è favorevole all’integrazione europea e alla “autonomia strategica” dell’Europa;
  7. i rapporti Cina-Russia sono un buon esempio di relazioni internazionali;
  8. il Medio Oriente deve essere strategicamente autonomo e non deve subire influenze esterne, la Cina è pronta a cooperarci;
  9. la Cina farà uso di qualsiasi valuta “efficiente, sicura, credibile” (de-dollarizzazione);
  10. Cina e Giappone sono vicini e devono convivere

Questi punti riassumono molto bene la posizione della Cina a livello internazionale. Una posizione che, mi pare di capire, è meno aggressiva nella relazione a due verso gli Usa, ma al tempo stesso non vuole esserne subalterna. 

Inizio questo blocco-notizia con delle scuse. Vi ho fatto una testa così con le importantissime elezioni in Nigeria, poi sono usciti i risultati, giovedì sera, e io mi sono scordato di parlarvene. Va bene, proviamo a rimediare. Scrive Matteo Suanno su Lifegate: “Bola Ahmed Tinubu è stato proclamato vincitore delle elezioni in Nigeria. L’annuncio della vittoria del candidato del Congresso di tutti i progressisti, il partito di governo, è arrivato nel bel mezzo delle contestazioni dell’opposizione legate allo svolgimento delle elezioni, che si sono tenute sabato 25 febbraio. 

I problemi organizzativi e l’assalto ad alcuni seggi elettorali nel giorno del voto hanno alimentato l’ipotesi di brogli, sostenuta a gran voce dai principali avversari di Tinubu, che ieri erano arrivati a chiedere l’annullamento dei risultati. A seguito dell’annuncio dei risultati, Tinubu si è rivolto ai suoi avversari invitandoli a collaborare – “La Nigeria è l’unico paese che abbiamo”, ha detto – ma il suo appello non ha al momento trovato risposta.

Bola Tinubu ha vinto le presidenziali con il 37 per cento dei voti. Alle sue spalle si è piazzato con il 29 per cento Atiku Abubakar, leader del Partito democratico popolare e storico volto dell’opposizione nel panorama politico nigeriano. Non è riuscito nell’impresa paventata da alcuni analisti il laburista Peter Obi, considerato l’outsider potenzialmente letale grazie al sostegno dell’elettorato più giovane, che però si è fermato al 25 per cento delle preferenze e all’ottimo risultato – peraltro annunciato – di Lagos, capitale economica del paese. Obi, presentato come colui che avrebbe dato la spallata al sistema tradizionalmente bipartitico del paese, non è riuscito a mobilitare i delusi. Lo conferma il dato sull’affluenza diffuso dalla Commissione elettorale nazionale indipendente (Inec), precipitata al 27 per cento contro il 35 del 2019, il dato peggiore di sempre. Tinubu ha primeggiato soprattutto nel sudovest, sua regione d’origine.

Sottolineo qui tre pareri, discordanti ma interessanti, su queste elezioni e la situazione in Nigeria. Il primo lo riporta in un articolo Federico Rampini sul Corriere della Sera. Rampini cita una grande scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, che scrive: «Immaginate di stare pazientemente in fila, nell’attesa di votare, e all’improvviso arrivano uomini in moto, armati, che cominciano a sparare. Immaginate bande che fanno irruzione nel vostro seggio elettorale, sequestrano le urne con la violenza e le portano via. Immaginate altre urne piene di schede che vengono distrutte. Immaginate di essere picchiati per impedirvi di votare per un certo candidato, mentre la polizia non fa nulla per proteggervi. Tutto questo è accaduto durante l’elezione presidenziale in Nigeria».

Rampini cita anche – e questo è il secondo parere interessante – Ebenezer Obadare, studioso dell’Africa contemporanea che da una lettura un po’ diversa, meno radicale. Riconosce che le operazioni elettorali «non hanno passato il test della purezza», però considera irresponsabili gli appelli ad annullare il risultato. Obadare ha coniato per descrivere il proprio paese un’immagine forte: cleptocrazia competitiva. I leader devono competere tra loro per conquistarsi il consenso popolare e in questo c’è una caratteristica della democrazia; anche se poi una volta eletti praticano la corruzione su una scala massiccia (ivi compresa l’elargizione di risorse alle proprie constituency etniche, tribali, religiose, che in una certa misura condividono i benefici della cleptocrazia).

Infine Matteo Turato su Formiche!, evidenzia un terzo aspetto importante: “queste elezioni sono state le più competitive e incerte di sempre in Nigeria e i margini ristretti e gli sconvolgimenti in alcuni Stati chiave dimostrano che, nonostante gli enormi problemi, la democrazia nigeriana sta crescendo”.

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