6 Feb 2023

Usa-Cina, che succede? – #664

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Si stanno complicando i rapporti fra Cina e Stati Uniti. Nel mezzo ci sono la decisione Usa di aumentare la propria presenza militare nelle Filippine e lo strano caso di un pallone aerostatico cinese sui cieli americani. Parliamo anche di come l’attacco al gruppo indiano Adani possa essere strumentale a interessi geopolitici e del significato del viaggio di Papa Francesco in Africa.

Sono successe due cose che ci fanno capire come i rapporti fra Usa e Cina si stiano facendo di mese in mese più complicati. La prima cosa è che giovedì scorso il governo americano ha annunciato che rafforzerà la sua presenza nelle Filippine. Il motivo di questa mossa appare abbastanza ovvia e rientra in una strategia di deterrenza e confinamento della Cina, soprattutto nei confronti di Taiwan. 

Così commentano gli analisti Edward Wong e Eric Schmitt sul New York Times: “Il presidente Biden e i suoi assistenti hanno cercato di rassicurare i leader cinesi che non cercano di contenere la Cina come gli americani fecero con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Ma l’annuncio di giovedì che l’esercito americano sta espandendo la sua presenza nelle Filippine lascia pochi dubbi sul fatto che gli Stati Uniti si stiano posizionando per limitare le forze armate cinesi e rafforzare la loro capacità di difendere Taiwan”.

Peraltro “L’annuncio è stato solo l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Biden volte a rafforzare le alleanze e le partnership militari nella regione Asia-Pacifico, con l’obiettivo di contrastare la Cina, soprattutto quando le tensioni su Taiwan aumentano”.

Sotto la guida di Biden, gli Stati Uniti stanno lavorando per rafforzare i legami militari con l’Australia, il Giappone e l’India e hanno ottenuto che la Nato si esprima sulle potenziali minacce della Cina. L’annuncio di Austin segnala che gli Stati Uniti potrebbero utilizzare le proprie forze armate per contrastare più duramente le azioni aggressive dell’esercito cinese nel Mar Cinese Meridionale, dove la Cina e diverse nazioni del Sud-Est asiatico, tra cui le Filippine, hanno dispute territoriali. Inoltre, potrebbero aiutare Taiwan se l’Esercito Popolare di Liberazione dovesse attaccare o invadere l’isola democratica e autonoma, che la Cina considera parte del suo territorio”.

Un mandato del Congresso impone a ogni amministrazione presidenziale di fornire armi di natura difensiva a Taiwan, e il team di Biden è intenzionato ad accelerare questo processo e a modellare i pacchetti di vendita in modo da iper armare Taiwan per far desistere la Cina da un attacco. Insomma, rinsaldando l’antica alleanza con le Filippine, ex colonia Usa, Biden vuole assicurarsi di tenere la Cina al suo posto.

Ora però vediamo come questa notizia è stata colta sul fronte cinese, che mi sembra sempre un’operazione interessante da fare. Ecco cosa scrivono Liu Xin and Liu Xuanzun su Global Times, un giornale web in lingua inglese molto vicino alle posizioni del governo cinese: “Gli Stati Uniti sono stati criticati per aver deciso una maggiore presenza militare in Asia e per aver messo a rischio la stabilità regionale. Secondo gli analisti – non si sa bene chi siano questi analisti – i Paesi della regione sono diventati molto più attenti a non diventare carne da macello per la belligeranza di Washington. 

Nonostante le proteste sparse per le città delle Filippine, tra cui Manila e Quezon City, contro il dispiegamento delle forze e degli armamenti statunitensi nel Paese, il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha continuato a portare avanti l’espansione di un patto di difesa che consente agli Stati Uniti di posizionare equipaggiamenti militari e di far ruotare le proprie truppe in altre quattro basi militari nel Paese del sud-est asiatico. 

Più avanti l’articolo prosegue: “Song (un analista militare) ha affermato che se dovesse scoppiare un conflitto, tutte le basi statunitensi coinvolte nell’attacco alla Cina saranno prese di mira dall’Esercito Popolare di Liberazione, e i Paesi che ospitano tali basi statunitensi saranno inevitabilmente colpiti.

L’articolo si conclude così: “Mentre gli Stati Uniti continuano a fomentare gli scontri per contenere la Cina, i Paesi della regione sono incoraggiati ad aumentare la loro vigilanza su qualsiasi tentativo di distruggere la pace e la stabilità faticosamente conquistate nella regione, hanno detto gli analisti”.

In questa situazione molto tesa, in molti aspettavano il viaggio del segretario di stato americano Antony Blinken in Cina, in cui avrebbe dovuto incontrare lo stesso Xi Jinping. Uso il condizionale perché questo viaggio, Blinken, non lo farà, almeno per adesso. Come mai? Per via di un pallone aerostatico.

Veniamo così alla seconda notizia a cui facevo riferimento all’inizio. Il Pentagono ha individuato, nella serata di giovedì, quello che secondo loro è un pallone aerostatico di sorveglianza cinese che sorvolava gli Stati Uniti nord-occidentali. 

La notizia è comparsa per diverse ore sulle homepage di tutti i giornali del mondo, il governo Usa ha accusato quello cinese di volerli spiare, e la questione è diventata subito un caso. All’inizio il Pentagono ha consigliato a Biden di non abbattere il pallone perché le informazioni che avrebbe potuto carpire non erano poi così superiori a quelle accessibili dalle immagini satellitari e abbattendolo si sarebbe rischiato che alcuni detriti finissero a Terra danneggiando potenzialmente cose o persone. 

Il governo cinese al principio ha dichiarato che si trattava di un pallone che serviva perlopiù a raccogliere dati meteorologici finito fuori rotta, poi quando è arrivata la decisione degli Usa di annullare la visita di Blinken per via di questo incidente diplomatico ha accusato il governo americano di aver usato questa notizia come scusa per evitare l’incontro.

Ma quindi come stanno le cose? Devo dire che la prima cosa che mi sono chiesto è stata: ma se uno strumento del genere, che a qyuanto pare è una roba molto obsoleta, non permette alla Cina di raccogliere più informazioni di quante disponibili col satrellite, che senso ha? Forse è stata la Cina a voler boicottare l’incontro?

In realtà le cose non sembrerebbero stare esattamente così, come riassume Nicolò Locatelli su Limes: “una potenza rivale degli Stati Uniti avrebbe cercato di spiare gli Stati Uniti ricorrendo a uno strumento già usato e poco efficace. Una classica non-notizia, gonfiata al punto da diventare notizia soltanto perché il Pentagono decide di renderla pubblica. E che innesta una crisi diplomatica nel momento in cui il segretario di Stato rinvia il viaggio che aveva in programma. Tutto questo poco dopo la firma di un nuovo accordo con le Filippine che amplia l’uso delle basi militari del paese asiatico da parte delle truppe Usa e l’intesa statunitense con Paesi Bassi e Giappone per interrompere la fornitura di chip a Pechino.

Anche per ragioni di politica interna, l’amministrazione Biden ha insomma deciso che questo non è il momento del dialogo con la Cina. È un messaggio pure agli alleati degli Usa, che in alcuni casi (Australia) sono stati recentemente coccolati da Xi Jinping.

Tutto ciò avviene sullo sfondo di grandi operazioni industriali di Usa e Europa per sganciarsi dalla dipendenza cinese nella produzione di tutte le componenti e i microchip necessari alla transizione verde. Magari ne parliamo nei prossimi giorni. La geografia mondiale sta cambiando a una velocità impressionante.

Torniamo a parlare del tracollo del Gruppo Adani, perché forse nel parlarne venerdì mi sono perso un pezzetto. Restiamo su Limes, vi leggo un pezzetto dell’articolo di Lorenzo Di Muro che riassume la questione e fornisce uno spunto interessante:

“Il Gruppo Adani, di proprietà dell’omonima famiglia indiana, ha perso oltre 100 miliardi di dollari sulla scia della pubblicazione (24 gennaio) di un rapporto della statunitense Hindenburg Research che lo accusa di “sfacciate manipolazioni azionarie e frodi contabili decennali”. Il patron Gautam Adani, che fino al gennaio 2023 era il terzo uomo più ricco al mondo, è scivolato nel giro di un mese alla sedicesima posizione nella relativa classifica stilata da Forbes.

Al di là dei risvolti tecnico-giuridici, la questione è interessante per via dei legami tra Adani e i progetti geopolitici del premier Narendra Modi. L’ascesa esponenziale del Gruppo è infatti coincisa con il doppio mandato di Modi, sotto il cui governo il conglomerato di Adani ha espanso le attività in settori propriamente strategici – dalla difesa all’energia, dai media alla logistica e alle infrastrutture – tanto in territorio indiano quanto all’estero.

La collaborazione tra Modi e Adani, entrambi originari del Gujarat, ha una dimensione geopolitica, giacché il magnate gode del sostegno istituzionale e investe in progetti che servono l’interesse nazionale (per esempio nel vicino Sri Lanka, in Indonesia, in Australia)”.

Insomma, attaccare il gruppo Adani significa attaccare Modi. Da chi arriva l’attacco? Da una società di ricerca e investimenti statunitense non nuova a operazioni speculative e dalla dubbia etica (ne parlavamo venerdì). Questa cosa mi ha fatto venire in mente una cosa che mi ha detto la giornalista Chiara Reid quando l’ho intervistata qualche giorno fa per la nuova puntata di INMR+, riguardo al documentario che la BBC ha pubblicato qualche settimana fa proprio su Modi, e che è stato censurato in India. Vi faccio ascoltare una sua ipotesi:

AUDIO DISPONIBILE NEL VIDEO/PODCAST

Ecco, che sia un ennesimo messaggio del governo Usa verso quello indiano? Che questa serie di attacchi abbiano a che fare con la posizione ambigua dal punto di vista geopolitico dell’India, che cerca di restare alleata sia con la Russia che con i paesi occidentali?

Ci spostiamo di continente, ma restiamo in tema geopolitico (scusate la puntata un po’ monotona, oggi va così). Forse avrete sentito che Papa Francesco sta facendo un viaggio in Africa, insomma un viaggio, un tour, non so esattamente come si definiscono gli spostamenti del papa. Comunque ho trovato alcune letture interessanti di questo fatto. Partirei con quella di Riccardo Cristiano su Formiche che si chiese – così s’intitola l’articolo – “Perché il viaggio africano di Francesco non ci interessa?”

Commentando la sua prima tappa, in Congo, scrive: “Il presidente congolese Félix Antoine Tshilombo Tshisekedi ieri, allo stadio di Kinshasa, ha vissuto un quarto d’ora a dir poco difficile, quando il papa ha detto “basta corruzione” e l’enorme folla di giovani lo ha guardato, seduto in tribuna d’onore, dicendogli “ascolta con attenzione”.

Nel viaggio africano di Francesco non c’è posto per gli stereotipi: né eurocentrici, per cui l’Africa sarebbe una discarica di materie prime da sfruttare, né terzomondisti, per cui le colpe del disastro africano sarebbero tutte occidentali. Piuttosto c’è la chiamata agli africani ad essere protagonisti del loro futuro e agli europei ad uscire dalla cultura della fortezza assediata: priva di forza lavoro e di materie prime la fortezza europea dove può andare da sola? Il diffuso disinteresse per il viaggio di Francesco forse si spiega così.

Proprio in queste ore su La Civiltà Cattolica padre Etienne Perrot, scrivendo di Europa, ha ricordato che Habermas ha detto che “nella modernità culturale, la ragione viene privata della propria esigenza di validità e assimilata a mero potere”. Sta qui la spiegazione del grande disinteresse per il viaggio africano di papa Francesco? Sta cioè nella sicurezza europea del proprio controllo del potere?

Ma senza forza lavoro e senza risorse energetiche, nell’epoca energivora, questo potere non c’è. Lo ha dimostrato proprio la guerra in Ucraina, quando l’Europa senza risorse energetiche si è trovata a fari spenti e caldaie vuote, senza energia, cioè senza potere. Non è rimasto altro scenario che guardare all’Africa. Non sarebbe il caso di farlo con minore superficialità?”

Più avanti il giornalista scrive: “Bergoglio trasforma il bacino del Mediterraneo, proponendo un’altra globalizzazione, multipolare e lontana da eurocentrismo e terzomondismo asfittici. Se non ci interessa è perché siamo ancora immersi in una visione di autosufficienza presuntuosa e colonialista, incapace cioè di prospettare un nuovo ordine regionale.

La geopolitica del viaggio apostolico di papa Francesco è immersa nel pluralismo e nel multipolarismo, per fare del Mediterraneo un mare di incontro e composizione. Può non interessare, si possono preferire gli asfittici nazionalismi, le illusioni di potersi rinchiudere in un’Europa fortezza, divisa e litigiosa in realtà. Ognuno è padrone delle sue scelte, basta però che ne sia consapevole”.

Ora, non so se nel viaggio di Francesco ci sia effettivamente tutto questo significato che gli viene attribuito, ma mi sembra comunque una lettura interessante, che ci fa fare lo sforzo di ripensare i ruoli, redistribuire le responsabilità.

Su France Inter invece Pierre Haski tradotto da Internazionale intende così il viaggio di Francesco: “L’ambizione di Francesco è chiaramente quella di radicare la presenza della chiesa cattolica nel contiene africano, dove si gioca una parte rilevante del suo futuro. La Repubblica Democratica del Congo rappresenta un caso esemplare: nel paese vivono quasi 40 milioni di cattolici e il papa riesce a mobilitare più di un milione di persone per ogni evento.

Facendosi portavoce dei popoli africani contro le mire delle potenze (africane o extra-africane), il papa vuole schierare la chiesa dalla parte della gente. Il suo comportamento è palesemente più audace di quello dei leader religiosi del continente, spesso molto più conservatori rispetto al pontefice.

Durante il suo viaggio, quanto meno, papa Francesco ha messo in evidenza davanti al mondo una delle contraddizioni della nostra epoca: i minerali di cui la transizione ecologica ha assoluto bisogno vengono in gran parte dalla Repubblica Democratica del Congo, dove però la loro estrazione è fonte di conflitti, sfruttamento e avidità. Forse il mondo si deciderà ad ascoltare il papa, prima che questa contraddizione diventi insopportabile”.

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