10 Mar 2023

La centrale nucleare di Zaporizhzhia è in pericolo? – #686

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In Ucraina si torna a parlare di incubo nucleare per via dei bombardamenti russi vicino alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, quanto c’è di concreto? Parliamo anche dei primi risultati dell’inchiesta sul sabotaggio dei gasdotti Nord Stream avvenuto a settembre, delle manifestazioni in Georgia che hanno portato al ritiro di una legge sugli “Agenti stranieri” e infine del ruolo della Tunisia nel bloccare i flussi migratori verso l’Europa.

Torniamo a parlare di Ucraina, come stiamo facendo abbastanza di frequente in questi ultimi giorni. Parto con una premessa, che è davvero difficile farsi un’idea di come stanno andando le cose. Lo so, lo dico spesso, ma non è tanto per mettere le mani avanti quanto per rendervi partecipi che le certezze, su questo conflitto, sono davvero poche. 

Vi faccio un esempio. Qualche giorno fa parlavamo della battaglia per Bakhmut, cittadina dell’Ucraina orientale circondata su tre lati dall’esercito russo. Nella puntata riportavamo come secondo perlomeno gli articoli che citavo, l’eventuale presa della cittadina da parte della Russia non avesse una particolare importanza strategica, ma soprattutto simbolica.

Poi però l’altro ieri il presidente ucraino Zelensky ha detto esplicitamente che “Le Russia avrà “via libera” per catturare le città chiave dell’Ucraina orientale se prenderanno il controllo di Bakhmut.” 

Al tempo stesso, gli stessi articoli davano la presa di Bakhmut da parte dell’esercito russo come cosa quasi certa, mentre ieri Yevgeny Prigozhin, capo del gruppo Wagner (esercito privato di mercenari) ha detto «Smettiamo di correre davanti alla locomotiva e dire che abbiamo preso Bakhmut e cosa succederà dopo, credetemi, stiamo facendo di tutto per questo, anche se non ci vengono ancora fornite munizioni, equipaggiamento militare, armi e veicoli».

Ora, come si spiegano queste analisi e dichiarazioni così contraddittorie? Il fatto è che – ed è uno dei principali problemi quando parliamo di informazione e guerra – non possiamo prendere nessuna affermazione letteralmente. In guerra più che mai ogni frase, ogni dichiarazione, ogni osservazione non è solo un elemento che vuole dire qualcosa SUL conflitto, ma è parte DEL conflitto. Svolge un ruolo attivo nel motivare una parte, o come nel caso di Prigozhin, nel fare pressione verso il Cremlino per ricevere più munizioni e così via. 

In questo caos informativo, è davvero difficile dire come stanno andando le cose. Sappiamo che al momento si sta svolgendo un’offensiva russa su più fronti, mentre con l’arrivo della primavera, con l’arrivo di temperature più miti e soprattutto delle nuove armi e carri armati europei e americani è attesa una controffensiva ucraina. Ma è difficile fare previsioni realistiche.

Comunque, fatto questo preambolo, veniamo alle novità, al motivo per cui ne parliamo oggi. La novità principale è che ci sono da un po’ di giorni dei bombardamenti molto consistenti su varie città ucraine. Bombardamenti che, stando almeno a quanto riportano le fonti governative ucraine, non hanno ormai alcun obiettivo militare, con i missili che vengono indirizzati su obiettivi strategici come centrali elettriche ma spesso anche su edifici civili. Versione che il Ministero della difesa russo smentisce parlando di “Armi di alta precisione a lungo raggio lanciate dall’aria, dal mare e da terra, compresi i missili ipersonici Kinzhal, hanno colpito obiettivi cruciali delle infrastrutture militari, imprese del complesso militare-industriale e strutture energetiche che le alimentano”.

Particolare preoccupazione è destata dalla situazione attorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa, che è finita varie volte senza elettricità proprio per via dei bombardamenti russi. Ieri mattina Rafael Grossi, capo dell’organo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, ha dichiarato al suo consiglio di amministrazione che è necessario un intervento urgente per proteggere la sicurezza del sito.

Ha detto: “Questa è la sesta volta – lasciatemi ripetere la sesta volta – che la ZNPP ha perso tutta l’energia fuori dal sito e ha dovuto operare in questa modalità di emergenza. Vi ricordo che questa è la più grande centrale nucleare d’Europa”.

Insomma nelle ultime ore la cosa che sta più preoccupando l’opinione pubblica, e che torna prepotentemente sulle pagine dei giornali, è il rischio di incidente nucleare. I giornali, così come era successo mesi fa, usano spesso titoli pesantemente catastrofistici tipo “rischio catastrofe nucleare” o cose di questo genere. 

In questo caso il rischio nucleare di cui si parla non è tanto che la Russia decida di utilizzare armi nucleari offensive quanto che possa provocare, volontariamente o meno, dei danni alla centrale nucleare. Con uno scenario alla Fukushima, per intenderci. Quanto è reale questo rischio? Difficile a dirsi davvero, per le ragioni di cui vi parlavo prima.

Restando in tema Ucraina, e soprattutto in tema verità, c’è un’inchiesta tedesca che sta cercando di far luce sull’incidente – anzi possiamo dire tranquillamente sabotaggio – occorso a settembre ai gasdotti Nord Stream e che ha iniziato a rivelare i primi risultati. Pierre Haski su France Inter tradotto da Internazionale si chiede: “Chi ha sabotato i gasdotti Nord Stream 1 e 2 che collegavano la Russia alla Germania attraverso il mar Baltico? A settembre i due famosi progetti, simbolo assoluto della dipendenza della Germania dal gas russo (oggi superata), sono stati irrimediabilmente danneggiati sui fondali marini. Nessuno ha rivendicato quell’atto in piena guerra ucraina, favorendo la proliferazione di ipotesi, speculazioni e inevitabili teorie del complotto.

Ora sono arrivate nuove conclusioni, senza che però sia stata fornita una risposta definitiva sull’identità o la motivazione degli autori. L’8 marzo la Germania, che ha condotto l’inchiesta, ha rivelato di aver identificato un’imbarcazione che potrebbe aver condotto l’operazione. La nave era stata affittata da una società polacca controllata da alcuni cittadini ucraini.

La pista ucraina è stata subito smentita dalle autorità di Kiev, mentre il governo tedesco ha messo in guardia contro qualsiasi conclusione affrettata sottolineando che l’inchiesta è ancora in corso. Il ministro della difesa tedesco Boris Pistorius ha perfino evocato la possibilità che qualcuno abbia deliberatamente seminato indizi per confondere le acque. “Potrebbe essere stata un’operazione condotta sotto falsa bandiera. Non sarebbe la prima volta nella storia”, ha sottolineato Pistorius”.

Poi Haski ripercorre le varie piste che erano state battute non tanto dall’inchiesta quanto dai giornali e dall’opinione pubblica. Fin da subito la stampa e la politica occidentale aveva fatto intendere che ci fosse probabilmente la Russia dietro a quegli attentati, mentre al contrario in Russia si accusavano Stati Uniti e Ucraina. 

Infine il giornalista si chiede: “Perché questa vicenda è così importante? In un conflitto di grande portata la battaglia dell’opinione pubblica è fondamentale. L’assistenza finanziaria e militare garantita dall’occidente all’Ucraina si basa sull’approvazione duratura da parte della maggioranza di cittadini dei paesi coinvolti. Un dubbio rispetto alle azioni di uno dei governi che partecipano al conflitto potrebbe compromettere questo sostegno.

Le guerre dell’informazione, invisibili ma assolutamente reali, si nutrono di questi dubbi. È dunque cruciale stabilire quale sia la verità. La buona notizia è che un’inchiesta è in corso e sta facendo passi avanti. Oltre alla Germania, anche la Svezia e la Danimarca, che affacciano sul Baltico, avevano promesso di condurre un’indagine, ma non ne abbiamo più sentito parlare.

Gli elementi rivelati l’8 marzo sono insufficienti per trarre conclusioni e sollevano nuovi interrogativi più di quanto forniscano risposte. Ma almeno possiamo sperare di saperne maggiormente in futuro: è assolutamente indispensabile”.

La conclusione mi sembra un po’ una frase fatta e complessivamente credo che l’autore si sarebbe potuto sbilanciare di più. Aggiungo quindi qualche elemento. Al momento l’ipotesi che sta circolando di più è quella che gli autori siano un non meglio identificato gruppo pro-ucraina che però non avrebbe legami diretti né con Washington né con Kiev. 

Questa ipotesi nasce da una lunga inchiesta pubblicata dal NYT in cui viene definita molto improbabile l’ipotesi che ci sia lo zampino russo dietro a questi attentati. La fonte sono i soliti «alti funzionari che hanno rilasciato dichiarazioni in forma anonima», secondo cui le conclusioni dell’inchiesta potrebbero avere profonde implicazioni per la coalizione che sostiene l’Ucraina».

Secondo il Nyt «nuove informazioni esaminate da funzionari statunitensi suggeriscono che un gruppo filo-ucraino ha effettuato l’attacco ai gasdotti Nord Stream lo scorso anno». Nell’articolo non è specificato chi sarebbero i membri di questo fantomatico gruppo, se si tratta di individui vicini all’apparato militare o spionistico ucraino e come avrebbero agito, ma al momento non si avrebbe «alcuna prova che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky o i suoi principali luogotenenti fossero coinvolti nell’operazione o che gli autori agissero sotto la direzione di funzionari del governo ucraino».

Ora, devo ammettere che se da una parte riconosco l’onestà intellettuale di un grande giornale nello scagionare la Russia da questo fatto, e dirlo apertamente, dall’altra devo dire che l’ipotesi messa in ballo suona abbastanza improbabile. Il tracciato dei gasdotti Nord Stream non è pubblico, non si trova su google maps. Sono informazioni riservate. In più bisogna essere in grado tecnicamente di arrivare sul fondo del mare a decine di metri di profondità e far esplodere un gasdotto con chili e chili di esplosivo. Non è una roba che si organizza con un gruppo di amici la domenica e pensare che non cia sia un governo o dei servizi segreti coinvolti, ecco, mi sembra molto difficile. Al tempo stesso, capisco che ipotizzare, senza averne ancora la certezza, che ci siano delle responsabilità dirette di Kiev nell’aver sabotato sì, forse la Russia ma soprattutto l’Europa compromettendo del tutto le forniture di gas, ecco è una roba impegnativa. Ma credo che lo scenario che abbiamo davanti sia all’incirca questo.

Spostiamoci in Georgia dove ci sono state molte proteste dopo che il governo ha presentato una proposta di legge sugli agenti stranieri che secondo i manifestanti avrebbe potuto mettere un bavaglio alle opposizioni e che è stata ritirata proprio per via delle proteste. Vi leggo da un articolo del Post: “La proposta di legge prevedeva che i media e le ong che ricevono almeno il 20 per cento dei propri fondi dall’estero dovessero registrarsi come “agenti stranieri”, e potessero essere costrette a pagare grosse multe se non lo facevano. La proposta, secondo i manifestanti e molti commentatori, riprendeva molto da vicino una legge che dal 2012 viene usata in Russia per reprimere dissidenti e media indipendenti; era sostenuta dal governo ma molto criticata dall’opposizione e anche dalla presidente del paese, Salomé Zourabichvili.

Negli scorsi giorni migliaia di persone avevano protestato contro la legge, e ci sono stati scontri anche molto duri con la polizia: per disperdere i manifestanti, la polizia ha usato idranti e lacrimogeni. Tra il 7 e l’8 marzo, i due giorni principali delle proteste, sono state arrestate 133 persone.

I manifestanti temevano che la legge favorisse una svolta autoritaria simile a quella portata avanti dal presidente Vladimir Putin in Russia: uno dei principali slogan della protesta era “No alla legge russa”. Temevano inoltre che fosse una mossa che avrebbe compromesso la possibilità della Georgia di entrare in futuro a fare parte dell’Unione Europea: il 75 per cento della popolazione è favorevole all’ingresso nell’Unione Europea, e l’anno scorso il governo del paese aveva presentato domanda formale di adesione all’Unione”.

Comunque, risultato delle proteste è stato che il governo ha fatto un netto dietrofront ritirando la proposta e dicendo che non la presenterà più.

Torniamo in Italia, dove si discute ancora della questione migranti legata alla tragedia di Cutro, dove una barca carica di persone migranti si è sfasciata a pochi metri dalla riva causando la morte di almeno 72 persone, fra cui diversi minori. Ieri c’è stato a Cutro un Consiglio dei Ministri speciale, accolto con polemica e proteste dalla popolazione del luogo, per via di alcune dichiarazioni del Ministro dell’Interno Piantedosi e del trattamento inumano riservato a chi è scampato alla tragedia.

Oggi però non vi parlo di questo ma di quello che avviene prima, di quello che spinge le persone a imbarcarsi, o a volte le trattiene dal farlo. Lo faccio grazie a un approfondimento di AltrEconomia sul ruolo della Tunisia nel contenere i flussi migratori verso l’Europa, e oltre che sul ruolo, sui metodi. Ve ne leggo un estratto un po’ più lungo del solito perché credo valga la pena approfondire questo aspetto.

Scrive Arianna Poletti su AltrEconomia: “Ogni mattina a Nadège vengono dati dieci dinari per la spesa. Esce di casa, si incammina fino all’alimentari più vicino e compra il necessario per la famiglia per cui lavora. È l’unico momento in cui le è consentito uscire. Altrimenti, Nadège vive e lavora 24 ore su 24, sette giorni su sette, tra le mura della casa di due persone anziane in un quartiere benestante di Tunisi. La sua paga mensile come domestica è di settecento dinari (225 euro), che diventeranno ottocento (240 euro) se “lavorerà bene”.

Nadège, assicura, è qui per questo: “Sono venuta in Tunisia per metter da parte qualche soldo da mandare ai miei figli, in Costa d’Avorio”, racconta. Suo cugino, però, lavora nei campi di pomodori in Calabria. Le ha consigliato di partire per l’Italia e cercare lavoro lì. “Il cambio euro-franco Cfa è più conveniente di quello dinaro tunisino-franco Cfa. Guadagnando qualche soldo in Europa posso far vivere degnamente i miei due figli, metter da parte qualcosa e poi tornare da loro una volta che ci saremo sistemati”, spiega la trentenne ivoriana. Tre anni fa, Nadège vendeva sigarette lungo la sterrata che dal suo villaggio portava a Abidjan, ma con i lavori del governo per asfaltare la strada, il suo gabbiotto è stato abbattuto e mai più ricostruito. E lei è rimasta senza nulla.

Nel 2022 anche Nadège ha tentato di imbarcarsi per Lampedusa da una spiaggia del Sud tunisino. A metà strada, però, la guardia costiera ha intercettato la sua barca e l’ha riportata a riva, nel porto di Sfax. Ha perso tutti i soldi che aveva messo da parte e si è ritrovata punto a capo, in Tunisia, a cercar di nuovo lavoro.

Come nel caso di buona parte dei cittadini subsahariani presenti nel Paese, molti dei quali -a differenza di Nadège- hanno rinunciato all’idea di imbarcarsi, nessuno le ha mai proposto un contratto. Una volta scaduti i tre mesi di visto, il limite massimo per rimanere in Tunisia, tanti di loro rimangono in situazione di irregolarità accumulando una multa per la permanenza oltre i limiti del visto che aumenta di mese in mese. Dopo anni a lavorare, spesso con paghe misere e giornaliere, molti subsahariani rimangono intrappolati nelle maglie della burocrazia tunisina e, pur volendo tentare di regolarizzarsi e ottenere un permesso di soggiorno per rimanere nel Paese, non ci riescono perché non sono in grado di pagare la multa per lo sforamento del visto, che raggiunge un massimo di 3.000 dinari, mille euro. Ecco come i subsahariani finiscono in una sorta di limbo, bloccati in Tunisia, senza poter raggiungere l’Europa, senza poter tornare indietro. Si ritrovano così a costituire la manodopera in nero di aziende tunisine o estere presenti nel Paese, o di famiglie benestanti, che sfruttano la loro posizione precaria di irregolari per sottopagarli.

Da metà febbraio di quest’anno Nadège ha dovuto rinunciare anche alla spesa quotidiana per paura di uscire dal cortile di casa. Lei, senza documenti, è oggetto di una campagna d’odio che si diffonde a macchia d’olio in Tunisia. È il 21 febbraio quando, dopo giorni di arresti di esponenti dell’opposizione alle politiche di Kais Saied, un comunicato della presidenza tunisina fa il punto sulla “lotta all’immigrazione irregolare nel Paese”, tema che è stato al centro della visita in Tunisia dei ministeri degli Esteri Antonio Tajani e dell’Interno Matteo Piantedosi di fine gennaio.

Secondo quel comunicato, la Tunisia sarebbe invasa da “orde di subsahariani irregolari” che minaccerebbero “demograficamente” il Paese e la sua identità “arabo-musulmana”. È stata la miccia che ha fatto esplodere la tensione accumulata negli ultimi mesi, tra inflazione galoppante, impoverimento generale della popolazione e penurie continue di generi di prima necessità. A diffondere queste teorie xenofobe da fine 2022 è il cosiddetto Partito nazionalista tunisino, un gruppo di nicchia riconosciuto nel 2018, che ha intensificato la propria campagna sui social network prendendosela con le persone nere presenti in Tunisia. Non solo potenziali persone migranti in situazione di irregolarità che vorrebbero tentare di imbarcarsi verso l’Italia (come dichiarato dalle autorità), ma anche richiedenti asilo e rifugiati, studenti e lavoratori residenti nel Paese, accusati di “rubare il lavoro”, riprendendo gli slogan classici delle destre europee, spesso usati contro i tunisini stessi.

Da allora in Tunisia si sono moltiplicate non solo le aggressioni razziste, ma anche gli arresti di cittadini subsahariani senza alcun criterio. Secondo un comunicato della Lega tunisina dei diritti umani, per esempio, otto studenti subsahariani regolarmente residenti nel Paese e iscritti nelle università tunisine sarebbero trattenuti senza alcun motivo nel centro di El-Wuardia, un centro gestito dalle autorità tunisine, non regolamentato, dove è complicato monitorare chi entra e chi esce. L’Associazione degli stagisti ivoriani e l’Aesat, la principale organizzazione degli studenti subsahariani in Tunisia, hanno consigliato alle proprie comunità di non uscire.

Almeno cinquecento subsahariani si troverebbero invece nella prigione di Bouchoucha (Tunisi), senza che si conoscano le accuse nei loro confronti. A seguito delle misure prese dalla presidenza, molti proprietari di alloggi affittati a cittadini subsahariani hanno chiesto loro di lasciare casa, così come diversi datori di lavoro li hanno licenziati da un giorno all’altro per timore di ritorsioni da parte della polizia nei loro confronti. Centinaia di persone si sono così ritrovate per strada, senza stipendio e senza assistenza, rischiando l’arresto arbitrario, esposti a violenze e aggressioni nelle grandi città.

In centinaia stanno optando per il rimpatrio nel Paese d’origine chiedendo assistenza per il cosiddetto ritorno volontario, che spesso di volontario ha ben poco. “Torniamo indietro per paura”, è il ritornello che ripetono in molti. Le liste per le richieste dei ritorni volontari gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) erano già lunghe prima del 21 febbraio, tanto che decine di persone che si sono registrate mesi fa attendono in tende di fortuna costruite con sacchi di plastica lungo la via che porta alla sede dell’Oim, nel quartiere di Lac 1, dove hanno sede diverse organizzazioni internazionali.

“Non ci è stato messo a disposizione un foyer per l’accoglienza”, si giustifica una fonte interna all’organizzazione puntando il dito contro le autorità tunisine. La tendopoli di Lac 1 era già stata smantellata dalle forze di polizia a giugno 2022 ma alle persone migranti non è stata data un’alternativa. Qualche settimana dopo, infatti, si è riformata poco lontano. Oggi si ingrandisce di giorno in giorno.

È qui che da fine febbraio un gruppo di volontari si fa carico di fornire acqua e cibo alle duecento persone presenti, rimaste senza assistenza. L’Oim è l’unica alternativa per chi non dispone di documenti validi, chi si trova nell’impossibilità di pagare la multa di 3.000 dinari o chi non ha un’ambasciata in Tunisia a cui rivolgersi, come per esempio i cittadini della Sierra Leone, la cui rappresentanza è stata delegata all’ambasciata d’Egitto.

Chi può, invece, ha tentato di chiedere aiuto alla propria ambasciata di riferimento, accampandosi di fronte all’entrata. Il primo marzo è atterrato in Tunisia il ministro degli Esteri della Guinea, che ha promesso ai propri cittadini di stanziare fondi per voli di rimpatrio. Il primo aereo a decollare è stato quello della Costa d’Avorio, partito sabato 4 marzo alle 7 del mattino dall’aeroporto di Tunisi con a bordo 145 persone.

Era giugno 2018 quando la Commissione europea proponeva ad alcuni Paesi africani, tra cui la Tunisia, l’istituzione di piattaforme regionali di sbarco dove smistare, fuori dai confini europei, le richieste di asilo. La risposta all’epoca fu “No, non abbiamo né le capacità né i mezzi”, per citare l’ambasciatore tunisino a Bruxelles Tahar Chérif. Cinque anni più tardi, l’Ue sembra esser riuscita nella propria missione di trasformare la Tunisia in un informale hotspot europeo.

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