24 Apr 2024

La Grecia vieterà la pesca a strascico, primo paese in Europa – #920

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Il governo greco ha annunciato che vieterà la pesca sa strascico in tutte le aree marine protette, ed è il primo paese europeo a farlo. Parliamo anche dell’impatto delle navi da crociera, delle fosse comuni ritrovate a Khan Yunis, nella striscia di Gaza e dei discussi referendum in Ecuador che militarizzano il paese.


Saprete forse dei danni causati dalla pesca a strascico. Per pesca a strascico si intende un tipo di pesca in cui si getta una rete in mare, e poi la si trascina lungo il fondale marino trainandola con una imbarcazione e raccattando tutto quello che c’è.

È il tipo di pesca più utilizzato al mondo, ma ha diversi grossi problemi: prende su tutto senza nessun tipo di selezione, quindi anche specie protette e una percentuale altissima di scarti, distrugge i fondali marini, rovinando l’habitat di molte specie marine e infine distruggendo il fondale causa il rilascio di Carbonio, e quindi alimenta il meccanismo di rilascio di CO2.

Per questi motivi ci sono diverse iniziative, organizzazioni, campagne che chiedono ai paesi di vietare la pesca a strascico, perlomeno nelle aree marine protette. Anche l’Ue ha in programma, su proposta della Commissione, una normativa che vorrebbe vietare la pesca a strascico entro il 2030 all’interno delle aree marine protette, aree marine protette che nel frattempo dovrebbero crescere fino a rappresentare almeno il 30% delle acque comunitarie. I vari stati membri riuniti nel consiglio d’Europa hanno approvato la normativa a giugno scorso, con un unico voto contrario (sì esatto, del nostro governo) mentre a gennaio il Parlamento europeo (su pressione dell’industria della pesca e di alcune organizzazioni fra cui Coldiretti) si è opposto, votando una risoluzione che critica la volontà della Commissione di vietare questo tipo di pesca. 

In questo contesto si inserisce la storica decisione del governo greco, che anticipa quella eventuale dell’Unione. Il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha detto infatti che la Grecia vieterà la pesca a strascico nelle sue aree marine protette: è il primo paese europeo a farlo. 

Come racconta il Post, “Il divieto greco entrerà in vigore nel 2026 per i parchi nazionali marini e nel 2030 per tutte le aree marine protette. Mitsotakis ha anche annunciato la creazione di due grandi parchi nazionali marini, uno nel mar Ionio (a ovest della Grecia) e uno nel mar Egeo (a est, vicino alle coste turche). I due parchi copriranno rispettivamente l’11,7 per cento e il 6,6 per cento della superficie dei mari greci”.

L’annuncio del divieto di pesca a strascico e dell’istituzione dei due nuovi parchi è stato fatto durante una conferenza internazionale sulla protezione ambientale dei mari, la Our Ocean Conference, quest’anno organizzata ad Atene. Mitsotakis ha detto anche che per garantire il rispetto del divieto di pesca a strascico sarà organizzato un sistema di sorveglianza, che prevede anche l’uso di droni. In tutto, gli impegni presi dalla Grecia alla conferenza avranno un costo di 780 milioni di euro.

Altro aspetto interessante è che al momento in Grecia quasi il 20% dei mari rientra in un’area protetta, e con l’istituzione dei due nuovi parchi nazionali, in Grecia questa percentuale supererà il 30 per cento, ovvero l’obiettivo fissato dalla Commissione Europea all’interno della “Strategia dell’Unione Europea per la biodiversità”. 

Quindi ecco, è una decisione che avrà un impatto molto alto. Considerate, per avere un paragone, che in Italia le aree marine protette sono circa il 7 per cento, mentre in media nei paesi dell’Unione Europea è protetto il 12 per cento dei mari. 

Veniamo alle reazioni. Come racconta ancora il Post, “Molti gruppi ambientalisti hanno accolto favorevolmente l’iniziativa. Alcuni però hanno anche fatto notare che il governo greco permette ancora alcune pratiche considerate dannose per l’ambiente: fra queste la ricerca di giacimenti di gas e petrolio nella fossa ellenica, dove si trova il punto più profondo del mar Mediterraneo, una zona particolarmente ricca di biodiversità. Parte di essa sarà però inclusa nel parco nazionale marino ionico, uno dei due annunciati recentemente.

E in Italia qual è la situazione? In realtà, va detto che sebbene l’estensione delle aree marine protette sia più piccola in percentuale, e pur in assenza di una normativa nazionale, al loro interno la pesca a strascico è proibita quasi ovunque, in pratica è consentita unicamente nell’area protetta delle Egadi, ma troppe sono le infrazioni registrate o le attività illegali scoperte. Ma allora come mai il nostro governo si è opposto così fermamente al divieto, assieme a Coldiretti e altre sigle legate alla pesca? Una ipotesi è il fatto che anche da noi entro il 2030 le aree marine protette andranno estese fino a raggiungere almeno il 30% per cui a quel punto il divieto diventerebbe automaticamente più esteso.

Ovviamente si tratta di misure sensate da tanti punti di vista e opporvisi, considerando anche il declino delle popolazioni di pesci nel mediterraneo, così come in buona èprte del mondo, evidenzia una certa miopia non solo ambientale, ma anche economica. Perché non è che lasciando le cose come stanno i pescatori continueranno a pescare pesce all’infinito. Il pesce, oi pesci, stanno finendo, e questo è un enorme problema.

Fra l’altro è stato osservato come creando più aree protette dove la pesca è proibita, questa cosa ha effetti positivi, pensate un po’, proprio sulla pesca, perché si consente ai pesci di avere delle zone dive vivere e riprodursi liberamente e questo ripopola di pesci anche le zone contigue. 

Sapete cosa altro ha un impatto negativo sugli ecosistemi marini, oltre alla pesca a strascico? Le navi da crociera. Se ne parla Emanuela Sabidussi.

Audio disponibile nel video / podcast

Torniamo a parlare della situazione a Gaza. Ci sono diverse novità, fra cui le dimissioni del capo dell’intelligence militare israeliana per non aver previsto gli attacchi del 7 ottobre, delle possibili sanzioni Usa contro un battaglione di ultraortodossi dell’esercito israeliano accusato di una serie di violazioni (e nello specifico di aver ucciso un cittadino americano), ma oggi vorrei soffermarmi su un fatto che sta scioccando il mondo in queste ore.

Ed è il ritrovamento, a Khan Yunis, di una – anzi più di una – fosse comuni in cui sono stati rinvenuti 210 corpi ammassati di giovani, anziani, uomini, donne, bambini palestinesi. Ora vi leggo alcuni passaggi di un articolo di Michele Giorgio sul manifesto. Sono passaggi che colpiscono come un pugno allo stomaco, immagini forti. Per cui di nuovo, se pensate che oggi non sia giornata, passate alla notizia successiva, trovate il minutaggio in descrizione.

Oggi ho fatto questa scelta, di leggervi anche dei passaggi più crudi e tremendi, perché la guerra è questa roba qua. Il pensiero che queste cose stiano succedendo mi dilania, ma ignorarle per evitare le emozioni negative, mi fa stare persino peggio. Quindi, ecco, leggo: «Vorrei dargli una sepoltura degna e pregare sulla sua tomba, solo questo», diceva ieri in un video una donna affacciandosi sulla fossa comune individuata accanto all’ospedale Nasser di Khan Yunis. 

Si riferiva al figlio 21enne scomparso da due mesi nella zona del complesso medico più importante nel sud di Gaza, occupato dalle truppe israeliane nelle scorse settimane. Difficilmente riuscirebbe a identificarlo. I corpi sono in avanzato stato di decomposizione. Appena recuperati, per ragioni sanitarie, vengono subito avvolti in sudari bianchi. Solo alcuni sono stati identificati grazie al ritrovamento dei documenti.

Ieri ne sono stati recuperati altri 73, da tre fosse comuni. In quella più grande, scoperta sabato, sono stati trovati 210 cadaveri di giovani e anziani e di donne. «Alcuni erano ammanettati e spogliati dei vestiti, altri sono stati giustiziati a sangue freddo» ha detto un medico del Nasser accusando l’esercito israeliano di aver cercato di «nascondere i suoi crimini» seppellendo frettolosamente i morti. 

La stessa accusa rivolta a Israele dalle squadre della Protezione civile che nei giorni scorsi hanno recuperato i corpi di circa 300 persone uccise da bombardamenti e combattimenti dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city. «Ci aspettiamo di trovare altri 200 corpi nelle fosse comuni», ha previsto Ismail Thawabta, direttore dell’ufficio stampa governativo.

Il calvario di Khan Yunis non è terminato. Nella parte orientale della città ridotta in gran parte in macerie, ieri sono rientrate all’improvviso le truppe israeliane mettendo in fuga le famiglie tornate da pochi giorni nelle abitazioni ancora in piedi. Sono scappate ad Abasan oppure hanno raggiunto i rifugi dell’Onu già pieni di sfollati. Bombe anche su Rafah dove la popolazione e un milione di sfollati attendono l’assalto di Israele. Netanyahu due giorni fa ha annunciato l’avvio di intense operazioni militari a Gaza come unica strada per «distruggere» Hamas e riportare a casa gli oltre 100 ostaggi israeliani.

L’articolo poi racconta come l’operazione israeliana stia continuando: tra domenica e lunedì i raid aerei hanno uccisi 22 civili, tra cui numerosi bambini, a Rafah. Mentre 14 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania, dove non ci sono ostaggi da liberare né Hamas da sconfiggere, ma dove nei mesi è cresciuta molto la tensione fra coloni israeliani e abitanti palestinesi, per via di un’incursione dell’esercito.

Spostiamoci in Ecuador, dove c’è stato un referendum domenica, anzi una serie di quessiti referendari fortemente voluti dal presidente di estrema destra Daniel Noboa a capo di un governo di emergenza, che fra le altre cose prevedono una forte militarizzazione della società per contrastare il potere dei narcos.

Forse ricorderete la vera e propria guerriglia che è scoppiata nel paese negli ultimi mesi fra stato e narcos, con rivolte nelle carceri e grandi violenze in molte città, culminate nell’assalto armato agli studi della televisione pubblica trasmesso in diretta. Per rispondere il presidente Noboa ha messo su un piano basato proprio sulla presenza, anzi onnipresenza dell’esercito, ma non solo.

Comunque, facciamo un passo indietro. Come racconta Roberto Da Rin sul Sole 24 Ore, in Ecuador in realtà c’è una triplice crisi. “La prima è quella del narcotraffico, dato che il Paese è diventato uno dei territori centrali nel traffico regionale e internazionale. Confina infatti con Colombia e Perù, i primi due produttori di cocaina al mondo. 

La seconda è la violenza che registra tassi di omicidio inquietanti: nel 2023 ci sono stati 8mila omicidi, quasi il doppio rispetto al 2022, con un tasso di 40 ogni 100mila abitanti. Violenza registrata soprattutto in ambito politico; l’omicidio più eclatante riguarda quello di Fernando Villavicencio, ex giornalista candidato presidenziale alle ultime elezioni con un programma anticorruzione.

La terza è quella della crisi energetica”. Da varie settimane, l’Ecuador patisce estesi blackout in diverse zone poiché il livello molto basso del bacino di Mazar per via della siccità, il secondo più grande del Paese, non consente il funzionamento di un complesso di tre centrali idroelettriche. A ciò si aggiunge il taglio della fornitura di energia elettrica dalla Colombia, che pure sta affrontando una grave siccità.

L’attuale presidente Noboa, imprenditore 36enne, di estrema destra, ha deciso di affrontare la cosa di petto. E ha proposto alcuni quesiti referendari molto militarizzandi. E molti di questi sono passati. Come leggo ancora sul Sole “È la logica del pugno di ferro e in Ecuador si è rafforzata. Nel referendum di domenica ha vinto lui, il presidente Daniel Noboa, che ha incassato il “sì”, in 9 degli 11 quesiti posti agli elettori: quelli relativi alla sicurezza che prevedono una forte militarizzazione della società. L’Esercito nelle strade, quindi. Sarà comunque necessario un passaggio parlamentare.

Era uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina. In pochi anni si è trasformato in un luogo di violenza, omicidi e diritti negati. L’Ecuador, all’indomani del referendum voluto dal Noboa, mantiene un clima da Stato di Emergenza che è stato confermato per i prossimi 60 giorni. Referendum centrato sui temi della sicurezza, della militarizzazione oltre che della flessibilità del mercato del lavoro e dei rapporti giuridici con le grandi imprese.

La maggioranza degli ecuadoriani, secondo i primi dati, ha quindi accolto l’introduzione di misure eccezionali, in ambito sicurezza, mentre ha rigettato, votando “no”, gli altri due quesiti, di carattere economico-giuridico. Il primo è quello che avrebbe varato una ulteriore “flessibilità” del mercato del lavoro, il secondo avrebbe determinato una perdita di sovranità giuridica. Quest’ultimo è stato definito l’ “Arbitrato”. Il “no”, nei due quesiti si è imposto, rispettivamente, con il 64,88% e il 68,83%.

Si tratta comunque di due quesiti non secondari, quelli bocciati. Come ha detto la candidata alle presidenziali del 2025 Luisa Gonzalez «Se avesse vinto il “sì”, al quesito sul lavoro la società si sarebbe gravemente impoverita, con una misura definita schiavistica dalla candidata. Mentre la seconda riforma, quella definita l’Arbitrato, era pensato per attirare aziende e capitali stranieri offrendo condizioni favorevoli non tanto dal punto di vista fiscale (come si fa di solito) ma giuridico. In pratica le aziende avrebbero potuto difendersi in maniera più semplice dalle accuse anche internazionali (ad esempio quelle ambientali) bypassnado tribunali e lungaggini burocratiche.

Interessante che questi due quesiti, e in particolare il secondo siano stati bocciati. Mentre capisco che in un paese dominato dalla violenza, con tassi di omicidi altissimi, alla fine anche l’idea di affidarsi all’esercito possa essere per le persone una prospettiva in qualche misura allettante, o perlomeno migliorativa. Insomma cedere un po’ di libertà per la sicurezza è qualcosa che in genere non ci piace, ma in situazioni estreme devo dire che lo comprendo.

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