28 Feb 2022

Il valore di cambiare idea: le pratiche filosofiche come antidoto alle polarizzazioni

Scritto da: Filò

E se una delle cause dell'odio e dello scollamento sociale che caratterizzano i nostri tempi fosse proprio l'incapacità di cambiare idea, di mettersi in discussione, di entrare nei panni del prossimo? Alessia Marchetti dell'associazione Filò - Il filo del pensiero riflette proprio su questo, partendo da un punto di vista particolare: quello dei bambini.

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Quanto è difficile cambiare idea? A essere completamente onesti con noi stessi, la risposta non può essere che molto. Parrebbe addirittura, da alcuni studi in campo psicologico, che la nostra mente sia strutturalmente restia ad aprirsi a posizioni diverse dalle proprie. L’alternativa sembra essere molto più facile, ma al tempo stesso potenzialmente insidiosa. Non riuscire a cambiare idea, o meglio, non essere aperti alla possibilità di farlo, conduce inevitabilmente ad arroccarsi nelle proprie posizioni e questo rende impossibile il dialogo.

Non a caso si parla di dibattito pubblico e non di dialogo: il confronto raramente è finalizzato a giungere a un comune accordo, ma molto spesso assume più la forma di una botta e risposta in cui ognuno rivendica con più forza il proprio punto di vista. In fondo questa è la modalità a cui siamo più abituati: dai social network ai talk show televisivi, ciò che ci si palesa davanti è un dibattito perlopiù sterile, fortemente polarizzato, in cui il confronto con l’altro ha più la forma dello scontro che non dell’incontro. È possibile uscire da questa modalità? Come imparare a cambiare idea? 

fiori sbarre cambiare idea

In quanto facilitatrice di laboratori di dialogo filosofico, ho visto proprio in questo strumento – il dialogo filosofico inteso come confronto autentico tra prospettive diverse e talvolta divergenti – un potente antidoto a questo pensiero polarizzante, competitivo e divisivo. Il dialogo filosofico educa a cambiare idea e al tempo stesso trae nuova linfa dall’apertura a prospettive diverse

Al termine di ogni laboratorio, in cui dialoghiamo insieme intorno a domande di natura filosofica, chiedo sempre al gruppo se c’è qualcuno che ha cambiato idea, proprio per dare risalto a questo evento, forse raro, ma decisamente trasformativo. A volte la mia domanda cade nel vuoto, ma quando ricevo una risposta vedo che si è messo in moto qualcosa di grande. Ciò che avviene è un cambiamento in realtà profondo nel quale molto spesso non è coinvolta una singola idea ma un intero sistema di credenze e, in un certo senso, la propria identità. E quando vedo nei bambini quel senso di vertigine, che Platone nel Teeteto diceva essere all’origine della filosofia, scaturito dalla presa di coscienza di aver cambiato la propria mente, sento che quel dialogo ha davvero centrato i suoi obiettivi.

Un episodio in particolare mi è rimasto impresso: in una terza elementare avevamo fatto un laboratorio a partire dalla domanda “Che cosa fareste se foste su un’isola deserta? Come vi organizzereste per sopravvivere?”. Matteo, con estremo orrore della maestra e poi dei compagni, aveva avanzato l’ipotesi che se per caso non si riuscisse a trovare abbastanza cibo ci si potrebbe mangiare a vicenda. La proposta è stata aspramente criticata dai compagni. Fino alla fine Matteo ha difeso la sua idea da tutte le critiche dimostrando, a dir la verità, una grande tenacia. L’incontro successivo, appena abbiamo cominciato, Matteo ha preso la parola è ha detto: “Ci ho pensato un po’ a casa e ho cambiato idea, non sono più convinto di quello che dicevo l’altra volta che ci dovremmo mangiare a vicenda”.

La classe rappresenta il primo modello di società, il primo contesto in cui i bambini esperiscono il vivere comune, ma se è così allora diventa fondamentale che la classe rappresenti un buon modello

Proprio in quell’incontro, in cui in realtà avevo preparato un’attività completamente diversa, la classe ha insistito per tornare su un punto emerso la volta precedente. Alla domanda “qualcuno non rispetta le regole sulla nostra isola deserta che cosa facciamo?” un bambino aveva proposto di darlo in pasto alle bestie feroci e molti lo avevano seguito in questa idea. La classe sentiva il bisogno di ritornare a pensarci, perché alcuni non erano affatto d’accordo. L’intero laboratorio si è incentrato allora sulla domanda “se qualcuno non rispetta le regole, è giusto ucciderlo dandolo in pasto alle bestie feroci?”, in altre parole il laboratorio si è trasformato in una discussione sulla pena di morte. 

In quei casi in cui si lavora con una domanda chiusa, che prevede come risposta un sì o un no, mi piace dividere la classe in base alle convinzioni di ciascun componente: immaginando una diagonale invisibile che divide la stanza, ognuno può posizionarsi su di essa in base alla propria risposta, ad una estremità c’è il sì, dall’altra il no e tutta la diagonale in mezzo per eventuali possibilità intermedie.

Una volta posizionati spiego ai bambini che ognuno deve argomentare perché ha deciso di collocarsi proprio in quel punto con l’obiettivo duplice di convincere i compagni a spostarsi, ma anche e soprattutto di ascoltare attentamente gli altri per vedere se qualcuno è in grado di convincere loro. Questo spostamento di focus fa sì che il dialogo rimanga tale, senza trasformarsi in un dibattito competitivo. All’inizio del laboratorio c’erano circa lo stesso numero di bambini posizionati alle due estremità e soltanto due o tre al centro della diagonale, in conclusione la quasi totalità della classe era collocata all’estremità del no. 

social network

Con questa attività i cambiamenti di idea trovano una loro rappresentazione fisica: chi inizia facendo timidamente un passo avanti lungo la diagonale, chi cambia repentinamente postazione, chi poi ritorna sui suoi passi. Il dialogo è stato molto acceso e ricco di spostamenti, ma ancora più interessante è quanto avvenuto alla fine, quando abbiamo riflettuto insieme su cosa fosse accaduto. È emerso come uno dei maggiori ostacoli nel decidere di spostarsi siano state le dinamiche di gruppo, molti inizialmente hanno preso posizione più sulla base di dove si fossero collocati i loro amici che non di una reale convinzione personale e prima di spostarsi c’è stato un attento gioco di sguardi volto a capire come avrebbe reagito l’amico o l’amica.

Alcuni bambini non sono riusciti a svincolarsi da questa dinamica fino alla fine, altri ce l’hanno fatta e in conclusione, alla domanda “qual è la cosa più importante che avete imparato oggi?”, molti hanno risposto “si può continuare a essere amici di una persona anche se si hanno idee diverse”. Questa conclusione è di grande valore perché fonda la possibilità dell’incontro e del confronto, nel riconoscimento delle differenze, evitando di sfociare in competizione e in infertili polarizzazioni.

Di fatto la classe rappresenta il primo modello di società, il primo contesto in cui i bambini esperiscono il vivere comune, ma se è così allora diventa fondamentale che la classe rappresenti un buon modello e che, in questo senso, sia una vera e propria palestra di democrazia. Di questo era convinto John Dewey, e insieme a lui anche Matthew Lipman, fondatore della Philosophy for Children, per i quali il legame tra pedagogia e democrazia doveva essere indissolubile.

E allora, nell’ottica di educare alla democrazia, diventa importante creare degli spazi che abituino ad assumere una postura aperta a punti di vista diversi dal proprio e dunque disposta a cambiare idea, una postura, in altri termini, che si faccia promotrice del dialogo. 

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