25 Giu 2015

"Il lavoro, la nostra maledizione". Intervista ad Alessandro Pertosa

Considerato il pilastro del nostro modello di società e per molti "la massima aspirazione", il lavoro si trova oggi, sempre più, al centro di una riflessione sul suo significato ed il suo ruolo in relazione ai concetti di benessere e felicità. Ne abbiamo discusso con Alessandro Pertosa, autore insieme a Lucilio Santoni, del libro "Maledetta la repubblica fondata sul lavoro”.

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"Workers". Foto di Mario Mancuso via Flickr

“Workers”. Foto di Mario Mancuso via Flickr

Il lavoro è da sempre al centro del dibattito politico e sociale nel nostro paese. Scatena polemiche, fa alzare immediate levate di scudi, riempie le piazze. Tuttavia manca all’interno del dibattito una riflessione su cosa sia il lavoro: un diritto o una maledizione? Qualcosa che si fa per passione e vocazione oppure uno strumento che ci fornisce il substrato economico su cui coltivare le nostre passioni? E ancora, lavoriamo troppo o troppo poco? Si lavora per vivere o si vive per lavorare? Il lavoro è soltanto quello retribuito?

 

Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Pertosa*, scrittore e filosofo, autore, assieme al collega e amico Lucilio Santoni, del libro di recente uscita per Gwynplaine, “Maledetta la repubblica fondata sul lavoro”. 

 

Partiamo dal titolo. Cosa significa veramente quel primo “maledetto” articolo della Costituzione? Davvero il lavoro può essere considerato la massima aspirazione dell’essere umano?

 

Il primo articolo della Costituzione italiana è il frutto del solito compromesso fra cattolici e comunisti. La pressante richiesta di Palmiro Togliatti, affinché la Repubblica sia dichiarata «dei lavoratori», viene mitigata dalle istanze degli esponenti democristiani, con Giorgio La Pira in testa, che concordano sul lavoro ma non sui lavoratori, parola quest’ultima che risuona troppo sovietica. Alla fine il risultato risulta talmente insoddisfacente che altri padri costituenti, estranei al mondo comunista o cattolico, esprimono chiaramente il loro disappunto. Ugo La Malfa, ad esempio, definisce poco pertinente il primo articolo. A suo avviso «fondata sul lavoro» è una frase di assai scarso contenuto, perché da un punto di vista costituzionale vuol dire poco: introduce questo concetto del lavoro, ma l’introduce con una genericità che si presta a molti equivoci. Sulla scia di La Malfa si pone anche Piero Calamandrei il quale si chiede che senso abbia sostenere giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro. «Che cosa potrò dire ai miei studenti?», si chiede Calamandrei. «Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continuerà a lavorare come lavora ora, che ci saranno coloro che lavorano di più e coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo?».

 

Ecco, la questione è tutta in questo «qualche cosa di nuovo». Il lavoro non è e non può essere considerato come la massima aspirazione dell’uomo. È semmai un mezzo, uno strumento, che consente all’uomo di vivere. Si consideri, inoltre, che etimologicamente il termine lavoro deriva dal latino labor, e si riferisce unicamente al lavoro faticoso che richiede fatica, sofferenza e un notevole travaglio. Il labor è sonnesso a ciò che è labilis: lavorare, allora, sfianca e rende labili. Per questo non esiste un lavoro buono: il lavoro è sempre sfinente, è una tortura, e mai una vocazione cui anelare o un’arte da alimentare. Per i latini, quello che noi chiamiamo comunemente «lavoro intellettuale» non era un labor, ma opus ingenii, così come il lavoro mentale era agitatio mentis. La condizione pienamente umana consisteva nell’otium, ovvero nel saper contemplare, nel saper gioire guardando il sole scendere all’orizzonte.

 

Si parla quotidianamente di diritto al lavoro ma spesso si dimentica di specificare se si tratta di lavoro utile o inutile, o persino dannoso. Da quando l’essere umano ha smesso di chiedersi il significato di quell’azione che compie ogni giorno per otto ore al giorno?

 

Abbiamo smesso di chiederci quale sia il significato del lavoro nel momento in cui – più o meno alla fine dell’800 – la tecnica è diventata il fine supremo dell’agire umano. Per millenni, e persino all’inizio della rivoluzione industriale, il lavoro veniva considerato comunemente una maledizione. I borghesi ottocenteschi si vantavano di poter vivere di rendita, non lavoravano e aveva altri che provvedevano ai loro bisogni primari. Nel ‘900 è avvenuta un’inversione complessiva. Oggi si vive continuamente tra pranzi e cene di lavoro. L’élite è costituita da persone che mostrano con vanto la fatica del vivere quotidiano: essere indaffarati è diventato un elemento di distinzione.

 

A caduta, la santificazione del lavoro ha pervaso tutti. I sindacati da decenni parlano di «diritto al lavoro». Ma non esiste un diritto al lavoro. Il lavoro è maledettamente un dovere, non un diritto. Si ha diritto ad essere trattati come persone nel posto di lavoro, ma non si ha diritto al lavoro. Si ha diritto alla vita, alla libertà, ma non al lavoro. Il problema è che in una società in cui tutto è stato monetarizzato, se non lavori, e quindi se non hai un reddito, non riesci a vivere né sei in grado di esprimere la tua libertà. Il punto però è che se ti sfianchi dal lavoro finisci comunque per non essere libero e per non vivere. 

 

Nel libro non neghi una certa avversione per il lavoro. Tuttavia secondo una corrente di pensiero sociologico, si pensi all’uomo artigiano di Richard Sennet ad esempio, un certo tipo di lavoro, soprattutto manuale, col suo carico ponderato di routine e d’inventiva, contribuisce alla strutturazione della personalità. Cosa ne pensi?

 

Sono d’accordo con Sennet. Il problema non è il «fare», ma il «fare comunque». La società del lavorismo pratica il fare comunque, il fare della crescita fine a se stessa. Sennet mostra invece che quando si opera con le mani, il cervello riceve delle informazioni che lo arricchiscono. Quindi chi sa fare delle cose risulta più intelligente di chi non è in grado di fare niente. Questo d’altronde è abbastanza evidente: oggi sono sempre meno le persone capaci di effettuare lavori di riparazione o sistemazione casalinghi. E quando non sai fare niente sei soggetto al mercato, devi richiedere la prestazione professionale e hai bisogno del denaro per poterla comprare.

 

Latouche sostiene che non ci sia niente di peggio dell’assenza di crescita in una società basata sulla crescita. Pensi che lo stesso si possa dire del lavoro? Che differenza passa fra la condizione, spesso drammatica, di disoccupato, e quella di chi fa una scelta consapevole di lavorare il meno possibile?

 

La condizione del disoccupato è disperante se si resta nella società del lavorismo. Se tutto ciò che si fa dipende dal lavoro, chi non lavora è fuori gioco. Ma c’è una possibilità di uscire da questo circolo diabolico. Non solo lavorare il meno possibile, ma provare a riorganizzare dalle fondamenta la propria esistenza. Se per vivere ho bisogno di comprare alcuni servizi, che però potrei anche autoprodurre o scambiare con altri, nel momento in cui riesco a costituire legami conviviali e fraterni che mi consentono di fare o scambiare ciò che prima compravo, io mi libero del denaro: e liberarsi dal denaro significa liberare del tempo da dedicare all’otium. Che, si badi, non è l’ozio di chi vive alle spalle degli altri non facendo nulla, ma è la condizione di colui che vive secondo misura e sa che si lavora per vivere, e non si vive per lavorare.

 

Esiste una larga fetta di popolazione che non ha i mezzi culturali per fare una riflessione sul lavoro. Dunque subisce il lavoro, anche quando è un lavoro che finisce per ucciderli. Cosa diresti, ad esempio, ad un operaio dell’Ilva di Taranto?

 

Gli direi che tra il morire di cancro o il morire di fame c’è una terza via: vivere in altro modo. Gli direi che non esistono economie buone, né lavori buoni. E se l’uomo non è al centro del progetto, prima o poi il potere finisce per schiacciare chiunque si frapponga sulla via dell’accumulazione e del dominio.

 

Come si esce da un modello di società basato sul lavoro e la competizione?

 

Si esce lentamente rivoluzionando innanzitutto se stessi. «Siate la rivoluzione che volete vedere nel mondo» diceva Gandhi. Ecco, credo non ci sia nulla di più vero e di più bello di queste parole. Qui non si tratta di proporre l’ennesima ideologia che schiaccia dall’alto i suoi seguaci e dice loro come devono vivere. Qui si profila un orizzonte verso cui ognuno si volge come può e come sa. Per questo dico sempre che non propongo un modello, ma un metodo rivoluzionario. E se non si vuole riproporre il dominio, è necessario che il metodo sia libertario.

 

Ho molto apprezzato la scelta di sviluppare la riflessione attraverso un dialogo fra i due autori, che rende il libro molto piacevole alla lettura: come nasce questa scelta?

 

La scelta nasce dall’esigenza di poter raggiungere un numero ampio di persone. Se avessimo scritto un saggio sul lavoro, avremmo dovuto seguire uno schema e uno stile diversi. Qui si è preferito invece riportare su carta le discussioni che io e Lucilio Santoni abbiamo fatto per oltre un anno, in forma pubblica e privata.

 

 

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