11 Apr 2024

Kento, il rapper militante che usa l’hip hop per “far uscire” i giovani dal carcere

Scritto da: Tiziana Barillà

Abbiamo chiacchierato a lungo con Kento – all'anagrafe Francesco Carlo –, rapper reggino che da anni porta la sua arte nei carceri minorili italiani. I temi dibattuti? Il senso della pena detentiva, il rapporto fra giovani e musica, l'educazione, il divario generazionale, le sue fonti d'ispirazione, fino al contesto sociale e familiare calabrese.

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Reggio Calabria - Francesco Kento Carlo è un rapper militante, calabrese di Reggio e romano d’adozione. Lo raggiungo al telefono mentre è in tour con decine di date in tutto il Paese. Ma il tempo Kento, da buon meridionale, lo trova sempre, specie quando ne vale la pena. Perché lui, come gli piace ripetere parafrasando Bruce Lee, “io non sono Hip Hop, io voglio essere Hip Hop”.

Da quindici anni tiene ininterrottamente laboratori di scrittura rap nei carceri minorili d’Italia, da Torino a Treviso, da Cagliari a Catanzaro, l’unico della Calabria, oggi insieme al progetto Ponti di CCO. Kento conosce a fondo la questione, in proposito ha scritto un libro – BARRE – Rap, Sogni e Segreti in un Carcere Minorile –, un Ep – “Neanche Per Sbaglio” – e due serie dedicate al ruolo della musica nel mondo della detenzione minorile in Italia: Keep It Trill, insieme all’associazione Antigone, e Barre Aperte una serie di CCO-Crisi come opportunità trasmessa in otto puntate su Repubblica TV.

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Kento, qual è il tuo bilancio?

Sono sempre più convinto dell’inutilità del carcere come strumento per inserire o educare i ragazzi. E attenzione, dico inserirli – non re-inserirli – ed educarli – non ri-educarli –, perché questi ragazzi sono da così poco tempo in questo mondo che spesso ricevono in carcere una prima educazione e un primo inserimento. Spesso vengono da famiglie e situazioni estreme, ho incontrato ragazzi che non sapevano come farsi una doccia, hanno dovuto insegnare loro a lavarsi, perché avevano vissuto in strada tutto il tempo.

In carcere lavorano molte persone davvero preparate e motivate, ma non è quello il luogo in cui questi ragazzi dovrebbero imparare la vita da persone libere. È evidente che la prima educazione non dovrebbe farla il carcere, ma dovrebbe preoccuparsene il mondo degli adulti, della scuola, delle istituzioni. Gli errori li hanno fatti, i reati li hanno commessi, ma spesso mi viene da pensare che se ci fosse stata nella loro vita una “presenza più presente” – passami il gioco di parole – certe cose si sarebbero potute evitare. E questa sensazione si fa più forte in Calabria.

Perché?

La struttura familiare in Calabria, purtroppo, ha un ruolo anche nell’affiliazione alla criminalità. Quindi se mio padre, mio zio e mio nonno vengono da un determinato percorso è difficile che io faccia un percorso diverso. Io stesso, ti dico, non so dirti se venissi da una famiglia di quel tipo se adesso starei qui, da questa parte della barricata.

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Anche per un ragazzino – come se non più di un adulto – il carcere diventa il luogo dell’affiliazione, altro che emancipazione…

Certamente. Il carcere può diventare scuola o università di crimine. Magari uno entra che è ancora acerbo e lì impara come si fa il criminale o, nella migliore delle ipotesi, impara solo a fare il carcerato. Dovrebbero imparare a vivere da persone libere ma farlo da carcerati è molto difficile.

Eppure le carceri si riempiono sempre di più, anche quelle minorili. Punire invece di educare. Con il cosiddetto decreto Caivano, che ha ribaltato l’impianto penale, gli istituti registrano record su record.

Non ho problemi a spostarmi sul dibattito ideologico, ma voglio farne una questione empirica: se i dati dicono che il carcere non è sinonimo di sicurezza ma il contrario, perché insistere su questa strada? Se i dati dell’associazione Antigone, fonte autorevole, dicono che i ragazzi che hanno meno recidiva sono proprio quelli che non hanno fatto il carcere ma hanno usufruito delle misure alternative, perché insistere sulla detenzione? È evidente che si tratta di propaganda. È una misura a buon mercato per accaparrare consenso e cavalcare l’onda di un’indignazione pubblica sacrosanta davanti a una violenza inaccettabile. Una propaganda spicciola che risponde con il panpenalismo d’emergenza.

Quanto il rap si è rivelato lo strumento giusto?

Moltissimo, prima di tutto perché non glielo devo spiegare. Entro in un carcere e dico: ragazzi oggi facciamo free style oppure una strofa oppure quattro barre a testa e loro capiscono immediatamente di cosa sto parlando. Devo spiegarlo a chi mi fa entrare, ai professionisti, ma con i ragazzi non ho barriere all’ingresso.

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Questa generazione è nativa del rap esattamente come lo è del digitale. Io entro con un computer portatile e una cassa bluetooth altrettanto portatile ed è tutto. Per fare il rap, se ci pensi, non ti serve nemmeno saper scrivere. Ho dei ragazzi che non sanno né leggere né scrivere ma fanno rap come delle frecce, in fondo basta che ti funzionino la testa e la bocca.

L’analfabetismo è ancora troppo vivo tra quelle mura, specie tra il sempre crescente numero di giovani stranieri.

Sì, per esempio sto lavorando con un ragazzo di sedici anni che rappa in tre lingue diverse, ne parla cinque eppure è analfabeta in tutte e cinque. All’inizio mi faceva sorridere, poi mi ha fatto riflettere: questo ragazzo ha evidentemente un’intelligenza prodigiosa, ha imparato queste lingue per strada, che non sappia leggere e scrivere in nessuna significa che quando aveva 5, 6 o 7 anni nessun adulto lo ha messo seduto a un tavolino per farlo imparare. E ancora una volta torniamo alla responsabilità degli adulti nei confronti dei ragazzi.

Se i dati dicono che il carcere non è sinonimo di sicurezza ma il contrario, perché insistere su questa strada?

A proposito, ultimamente ho visto sui tuoi social una fotografia che ti ritrae insieme a «tre generazioni di Hip-Hop a Reggio Calabria: se siamo uniti non saremo mai sconfitti dall’omologazione», come scrivi. Ti spendi parecchio con le nuove generazioni, anche fuori dalle mura del carcere. Dove trovi il terreno comune?

Non appartengo alla prima generazione, e cioè a quei marziani che hanno cominciato a fare rap negli anni Ottanta, ma alla generazione successiva. E da calabrese sento di avere un debito da ripagare, non solo con i rapper prima di me, ma con persone come Mimmo Martino per quanto riguarda la musica ed Ettore Pensabene per quanto riguarda la poesia e il teatro.

Ecco, nel mio piccolo anch’io sento di voler dare un aiuto, un consiglio, un’ispirazione. Sinceramente soffro un po’ il senso di colpa di chi è partito. Ammetto che vivere in una grande città, lontano dalla Calabria, purtroppo è tutto più facile. E vedo dei ragazzi molto giovani con un talento straordinario che, come spesso succede ai calabresi che vivono in Calabria, raccolgono molto molto molto meno di quanto potrebbero. In quella foto i più giovani hanno 17 anni, sento di poter raccontare loro qualcosa.

Ad esempio?

Di farsi le ossa dal vivo. È vero che oggi internet è imprescindibile, ma fare concerti dal vivo può farti fare il salto di qualità, nell’approccio con il pubblico, nell’autostima o nel rientro economico. Anche una piccola data, con una piccola cifra ma che si può investire per un microfono nuovo o una sala di registrazione. Parlo loro dell’esigenza di autorganizzazione, di creare una piccola economia circolare, di non pagare per fare le aperture dei rapper grossi perché in quel modo i soldi escono dalla comunità e vanno all’organizzatore. E tutto per aumentare la qualità della loro musica.

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C’è un innegabile gap generazionale, anche nel rap. La nostra percezione del passato è molto più lontana nel tempo e nello spazio di quella di un ragazzo di oggi, è davvero così?

Noi siamo stati direttamente allievi dei pionieri del rap, i quali con noi sono stati severissimi: tutto doveva essere cultura, disciplina, rispetto dell’hip hop. I primi rapper italiani avevano un atteggiamento molto duro nei confronti della nuova generazione, forse anche troppo onestamente. D’altra parte la mia generazione, quella intermedia, credo abbia sbagliato al contrario, nel “va bene tutto”. Francamente a questi ragazzi non abbiamo dato l’aiuto e la guida che avremmo potuto, così loro si sono rimboccati le maniche e hanno fatto da soli e hanno fatto benissimo perché hanno portato il rap dove non era mai stato prima.

Ma il fatto che ci sia stata una cesura tra le generazioni è un peccato, perché un ragazzo che oggi ha 16 anni è molto difficile che sappia cosa è successo prima del 2016. Una volta, durante un laboratorio ho mostrato loro un documentario in cui c’era Neffa, non sapevano chi fosse, non solo non l’avevano mai ascoltato né visto in faccia, ma nemmeno sentito nominare. Né lui né altri pionieri. Ecco, se posso recuperare un po’ di terreno di questo gap, lo faccio.

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