3 Apr 2024

Ecco come chiudere tutti gli allevamenti intensivi in 15 anni, lo studio – #906

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Gli allevamenti intensivi sono un problema enorme per il clima e la biodiversità, ma disfarsene non è così semplice. Un nuovo studio però propone un’idea semplice ma potenzialmente rivoluzionaria, vediamola. Parliamo anche dell’avvento delle batterie gravitazionali e di come i testi delle canzoni stiano diventando sempre più semplici, ripetitivi e arrabbiati.

Oggi stacchiamo un attimo la presa dall’attualità più stringente e approfondiamo alcune notizie scientifiche o di costume, molto interessanti, che spesso rischiano di restare fuori da questa rassegna proprio per via della pressione che le cosiddette hard news, l’attualità più stringente, esercita sull’agenda setting. 

Resta molto vivo in questi giorni il dibattito sugli allevamenti intensivi. Il Guardian pubblica un articolo a firma di Ajit Niranjan in cui denuncia che l’Ue ha finanziato in passato e probabilmente sta continuando a finanziare gli allevamenti intensivi 4 volte tanto rispetto alle coltivazioni vegetali, di fatto drogando il mercato e rendendo le diete a base di carne molto più economiche di quanto sarebbero. 

I dati citati dall’articolo sono un po’ vecchi, del 2013, ed emergono da un recente studio pubblicato su Nature Food. Studio che mostra come più dell’80% dei fondi pubblici europei destinati della politica agricola comune (PAC) nel 2013 siano stati indirizzati ai prodotti animali nel 2013.

In pratica, considerando anche i sussidi ricevuti da chi produce mangime per animali, su un chilogrammo di carne bovina, la carne con l’impatto ambientale più elevato, ci sono 1,42€ di costi che sono coperti dai sussidi. Il doppio rispetto alle prime versioni della Pac.

Il fatto che i dati siano riferiti al 2013 è presto spiegato: è l’ultimo anno di cui abbiamo a disposizione le ripartizioni precise dei finanziamenti legati alla Pac. Secondo i ricercatori però, sebbene la PAC sia stata riformata due volte da allora, la divisione nei sussidi diretti è rimasta sostanzialmente costante per cibi di origine animale e vegetale. Anche se su questo non c’è un accordo pieno e altri ricercatori hanno mosso critiche allo studio sostenendo che non sia più così attuale. Altri studi compiuti utilizzando dati più recenti, ma meno completi, sostengono che la percentuale sia divisa circa 50-50 fra sussidi ad allevamenti e sussidi ad agricoltori.

Ad ogni modo, prendendo i numeri con le pinze, resta il fatto che una percentuale fra il 50 e l’80 per cento dei sussidi della PAC, che a loro volta sono circa un terzo del bilancio totale dell’Ue, vanno a incentivare un sistema che ci sta spingendo nel baratro della crisi climatica, oltre ad essere eticamente molto discutibile. Ed è un fatto che non possiamo continuare ad accettare se vogliamo che davvero l’Europa sia il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

Il problema, come racconta l’articolo, è che il sistema di sussidi premia le aziende in base alla quantità di terreno occupato, e quindi premiano gli allevamenti perché occupano più spazio rispetto alle coltivazioni di piante, soprattutto se consideriamo non solo lo spazio occupato dagli allevamenti in sé ma anche quello preso da tutte tutte le coltivazioni realizzate per nutrire gli animali d’allevamento. Che peraltro è un modo molto energeticamente inefficiente di produrre cibo, perché quelle colture potrebbero essere destinate direttamente agli esseri umani. Per produrre la stessa quantità di proteine, la carne bovina richiede 20 volte più terra rispetto, ad esempio, ai cereali. E di conseguenza riceve molti più sussidi.

Insomma, il fatto di aver legato i sussidi alla quantità di terreni occupati, ha creato un meccanismo vizioso per cui vengono incentivati di più i modi meno efficienti di produrre cibo. E non si tratta solo di inefficienza. Come ricorda ancora l’articolo, l’allevamento animale è una delle principali cause dell’accelerazione dell’estinzione della fauna selvatica nel mondo ed è responsabile del 12%-20% degli inquinanti che riscaldano il pianeta. 

La ricerca, fra l’altro, arriva mentre i governi europei hanno attenuato diverse politiche verdi di fronte alle grandi proteste degli agricoltori negli ultimi mesi. Lunedì scorso, un pilastro chiave del green deal dell’UE è quasi crollato quando otto paesi hanno ritirato il loro sostegno a una legge per il ripristino della natura. Martedì, gli stati membri dell’UE hanno concordato con una proposta della commissione di indebolire e ritardare alcune delle condizioni ambientali che gli agricoltori devono rispettare per ricevere sussidi. 

Il cambiamento dei sistemi di sussidi e produzione del cibo, però, devono cambiare molto velocemente, se vogliamo evitare gli effetti peggiori della crisi climatica. 

In questo senso, ci viene in aiuto un altro articolo del Guardian, a firma di due professori universitari uno di Stanford e l’altro della University of California, Patrick Brown e Michael Eisen, che propongono un’idea tanto semplice quanto potenzialmente rivoluzionaria: pagare gli allevatori per coltivare alberi anziché allevare bestiame.

Anche questo articolo riassume l’impatto degli allevamenti intensivi in alcuni dati impressionanti: gli 1,7 miliardi di mucche del mondo, per massa, superano di gran lunga la popolazione umana e tutti i mammiferi terrestri selvatici, gli uccelli, i rettili e gli anfibi rimasti sulla Terra di oltre 15 volte. Più di un terzo del suolo terrestre è utilizzato per alimentare il bestiame. 

La ricerca sviluppata dagli autori dell’articolo ha stimato che una graduale eliminazione degli allevamenti animali nel corso dei prossimi 15 anni rappresenterebbe più della metà delle riduzioni nette di emissioni necessarie per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali.

Circa metà dei benefici climatici di questa eliminazione deriverebbe dalla drastica riduzione delle emissioni di due gas serra molto potenti, metano e protossido di azoto. Il resto sarebbe ottenuto dalla cattura di enormi volumi di anidride carbonica dall’atmosfera attraverso la fotosintesi, poiché foreste e praterie native si riprendono sulle terre ora utilizzate per alimentare o pascolare il bestiame.

I benefici si estenderebbero oltre la crisi climatica. La perdita di habitat a causa dell’espansione della produzione di bestiame, principalmente bovini, è il maggior responsabile del crollo della biodiversità. Il ripristino degli ecosistemi nativi sulle terre di pascolo permetterebbe la ripresa e l’espansione degli habitat essenziali per le specie vegetali e animali minacciate.

Spesso però quando si parla di disincentivare gli allevamenti, come abbiamo visto, si sollevano le voci degli allevatori. Che sembrano essere uno degli ostacoli principali a questa transizione, più ancora della domanda di carne, che è mediamente in calo costante negli ultimi anni. 

Leggo: “Gli allevatori non devono essere vittime di un mondo che cambia; possono invece essere gli eroi che ci salvano dalle due maggiori minacce per il nostro pianeta e la nostra specie. Basterebbe riconoscere che il ripristino e la cura degli ecosistemi naturali che combattono la crisi climatica e sostengono la fauna selvatica è un’occupazione agricola essenziale al nostro benessere e sicurezza, e adattare le politiche agricole a sostegno di chi sceglie di “allevare” carbonio anziché bestiame”.

Un investimento annuale globale molto più piccolo, solo l’1% del PIL mondiale, per pagare gli agricoltori che scelgono di passare dall’allevamento di bestiame al ripristino e alla gestione di foreste e praterie native, aumenterebbe significativamente il reddito degli allevatori di bestiame e stimolerebbe le comunità rurali, riducendo rapidamente il riscaldamento globale e invertendo il crollo della biodiversità a livello mondiale. E sarebbe un affare. Per tutti.

Che il problema della transizione dagli allevamenti intensivi sia un problema più legato all’offerta che alla domanda, ovvero alla difficoltà di cambiare il sistema a monte più che a valle, lo dimostrano i sempre più frequenti annunci di persone che scelgono diete vegetariane, vegane o a basso consumo di carne.

L’ultimo a fare endoorsment in questo senso è stato l’attore irlandese Cillian Murphy, vincitore del premio Oscar come miglior attore protagonista agli ultimi Oscar per il suo ruolo nel film Oppenheimer, che ha deciso di diventare vegano e ha parlato pubblicamente della sua scelta. 

L’attore era già vegetariano da circa 15 anni, mentre circa un anno fa ha annunciato di essere diventato vegano durante un podcast, un anno fa e adesso in occasione dell’oscar questa sua intervista è stata ripresa e commentata da molti giornali. 

Quando l’intervistatore gli chiede se la sua scelta è stata etica o salutistica l’attore risponde: “Entrambi. All’inizio c’era il problema della mucca pazza e tutto il resto. Ma credo che sia meglio per il Pianeta. Il veganismo è una scelta di vita contro lo sfruttamento degli animali”.

Quindi, ecco, un riduzione di massa del consumo di carne non è una cosa assurda. Servono soluzioni creative a monte del sistema di produzione. E questa idea di pagare gli allevatori per diventare custodi di biodiversità potrebbe essere interessante. 

Rinnovabili.it pubblica una notizia su un nuovo tipo di batteria che sta prendendo piede e potenzialmente molto interessante. E potenzialmente è proprio l’aggettivo giusto, se fosse un aggettivo, visto che è un avverbio, perché sfrutta l’energia potenziale della gravità.

Sapete che uno dei principali problemi delle rinnovabili è l’accumulo, no? Nel senso che le rinnovabili producono energia in maniera discontinua, perché il sole e il vento non ci sono sempre, variano a seconda del meteo, dell’ora del giorno e del periodo dell’anno, e quindi ci sono dei picchi in cui la produzione supera la domanda e dei momenti in cui invece c’è più domanda rispetto alla produzione. Perciò servono sistemi di accumulo con cui stoccare l’energia e poterla rilasciare gradualmente. 

In questo caso parliamo di batterie chiamate gravitazionali o a gravità. E anche qui l’idea è di quelle semplicissime che quando le leggi dici, ma come ho fatto a non pensarci prima, e al tempo stesso geniale. 

Leggo dall’articolo: “Sono sistemi di accumulo in grado di convertire l’energia potenziale di un oggetto in caduta controllata in elettricità (fase di scarica). E viceversa, usare l’elettricità della rete per alimentare un sistema di sollevamento dello stesso oggetto (face di carica)”.

Che vuol dire? Vuol dire banalmente che l’energia prodotta viene usata per sollevare una massa di una certa distanza. Facendole così accumulare energia potenziale, che può essere rilasciata in qualsiasi momento successivo facendo cadere, in maniera controllata, quella stessa massa.

Come racconta ancora l’articolo, “Sfruttare questa energia è un’idea vecchia centinaia di anni ma, escludendo gli impianti idroelettrici a pompaggio, per ottenere il primo prototipo di batteria funzionante abbiamo dovuto aspettare il 2012. Da allora ad oggi l’interesse è progressivamente cresciuto e con esso anche gli esperimenti e le ricerche. Ma nel comparto c’è già chi fa sul serio come l’azienda svizzera Energy Vault, che ha annunciato proprio in questi giorni l’interconnessione alla rete elettrica statale cinese della prima batteria gravitazionale EVx su scala commerciale.

Nel dettaglio il sistema utilizza un processo meccanico di sollevamento e abbassamento dei blocchi compositi per immagazzinare e distribuire energia elettrica. Si tratta di un sistema con un’efficienza di oltre l’80%, che offre una potenza di 25 MW e un capacità di accumulo di 100 MWh. E che sta prendendo molto piede in Cina. Insomma, una roba interessante e da tenere d’occhio nel processo di transizione energetica.

Chiudiamo con un altro studio che non ha niente a che fare, perlomeno non in maniera diretta, con questioni ecologiche, ma che ho trovato interessante dal punto di vista sociologico. 

Un articolo di – indovinate? – sì, del Guardian, racconta un fenomeno curioso e forse un po’ preoccupante. Avete presente quando si dice “ah, la musica di oggi”, sottintendendo che quella dei nostri tempi era migliore? È una di quelle frasi che sancisce istantaneamente e  per sempre la fine della gioventù in chi la pronuncia. Ecco, io sono già da tempo in quella fase della vita.

Comunque, secondo l’articolo, che a sua volta cita uno studio, non sarebbe solo una questione di invecchiamento: i testi delle canzoni negli ultimi 40 anni starebbero diventando davvero peggiori, più semplici e ripetitivi, oltre che più arrabbiati e più egoisti.

Un team di ricercatori europei ha analizzato le parole di oltre 12.000 canzoni in lingua inglese di vari generi musicali, dal rap al country, pop, R&B e rock, dal 1980 al 2020. Lo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, ha esaminato le emozioni espresse nei testi, la varietà e la complessità delle parole utilizzate e la frequenza delle ripetizioni. 

In tutte i generi musicali, i testi tendono a diventare più semplici e ripetitivi, con una diminuzione dei testi positivi e gioiosi nel tempo e un aumento di quelli che esprimono rabbia, disgusto o tristezza. È diventato anche più comune l’uso di parole centrato su sé stessi, come “io” o “mio”.

Come ha evidenziato una ricercatrice, i testi possano essere uno “specchio della società”, riflettendo i cambiamenti nei valori, nelle emozioni e nelle preoccupazioni culturali nel tempo. Ciò però non significa per forza che siano uno specchio fedele delle persone. Ad esempio, questo cambiamento potrebbe essere in parte dovuto al cambiamento nelle modalità di ascolto della musica, che viene più spesso ascoltata come sottofondo, in maniera più passiva e meno attiva, il che potrebbe privilegiare ritornelli semplici da ricordare. 

Così come potrebbe essere specchio di una società che negli ultimi 40 anni è diventata più individualista. 

Mi sono chiesto cosa emergerebbe se si facesse uno studio simile su come i media rappresentano la realtà. Sarebbe interessante. Noi comunque, nel nostro piccolo, su ICC ci sforziamo di suonare una musica diversa, ogni giorno.

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