27 Mag 2024

L’esercito israeliano attacca a Rafah, è strage di Civili, Israele sarà isolato? – #938

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Nella notte appena trascorsa c’è stato un grosso attacco israeliano a Rafah, con bombardanti e ulteriore strage di civili, seguito a un lancio di missili di Hamas su Tel Aviv. Cerchiamo di capire cosa succede. parliamo anche del fermo di 3 giornalisti durante una azione di disobbedienza civile nonviolenta di Ultima Generazione, della situazione in Myanmar, con la guerra civile che prosegue con tutte le contraddizioni del caso e della politica di ricollocazione forzata che il governo cinese sta attuando verso i tibetani. 

Apriamo con la notizia che non volevamo sentire, una notizia di cui non troverete ancora traccia nei giornali di oggi in edicola, èperché sta succedendo proprio adesso. Ed è il grosso attacco dell’esercito israeliano a Rafah, con molte atrocità già documentate. L’antefatto è che ieri, domenica, Hamas ha lanciato, per la prima volta da 4 mesi a questa parte, dei razzi contro Tel Aviv. 

Sarebbero stati, a detta dell’esercito israeliano, almeno otto razzi provenienti dalla zona di Rafah nella parte meridionale della Striscia di Gaza, quasi tutti intercettati. 

Il lancio peraltro sarebbe stato annunciato prima da hamas, tant’è che poco dopo l’annuncio del lancio da parte di Hamas, a Tel Aviv e in altre città dell’area centrale di Israele erano suonate le sirene per avvisare la popolazione di un imminente attacco. 

Come sapete a Rafah l’esercito israeliano stava già conducendo una “intensa operazione militare”, ma dopo il lancio c’è stato un ulteriore aumento di intensità dell’attacco con le forze israeliane che – riporta Al Jazeera – hanno bombardato la tendopoli di Tal as-Sultan che ospitava sfollati in una zona di sicurezza progettata a Rafah, uccidendo almeno 40 palestinesi. E anche qui molte delle vittime erano donne e bambini.

Tutto ciò avviene fra l’altro a due giorni dall’ordine della Corte dell’Aia, di cui abbiamo parlato, e non potrà non avere ulteriori conseguenze internazionali. La mia sensazione, in generale, è che né Hamas, né Israele siano interessati ad una tregua, altrimenti non si spiegherebbero queste azioni. E forse Israele inizierà a trovarsi realmente isolata.

Intanto la situazione a Rafah descritta dai giornali è catastrofica, la tragedia umana quasi indescrivibile. Vi leggo solo l’incipit del pezzo che apre l’homepage di Repubblica attorno alle 7 di questa mattina, è molto molto crudo, davvero tanto, tremendamente crudo, se non siete in vena saltate i prossimi 20 secondi, dico sul serio. Ma ve lo leggo per un motivo preciso, che poi vi spiego. 

“Un uomo grida e mostra ai soccorritori il corpo di un bambino bruciato, mutilato e senza testa. Ci sono decine di cadaveri ustionati e sciolti a terra tra le macerie, donne che urlano, persone che non si trovano, paramedici che si agitano tra stracci e pezzi di legno mentre le fiamme avvolgono la tendopoli di Tel al-Sultan, nel quartiere nord-occidentale di Rafah.”

Vi ho letto questo pezzetto perché al netto dell’orrore che descrive, che non riesco nemmeno del tutto a metabolizzare, mi colpisce che Repubblica apra con un pezzo del genere. Si può descrivere in tanti modi un attacco, magari fornendo solo dei numeri. Un incipit così è un incipit che smuove l’opinione pubblica. Ora, le ipotesi sono due: o si tratta di un pezzo mattutino, pubblicato a caldo e quasi per errore, come a volte succede quando i fatti sono molto freschi, che quindi non rispecchia del tutto la linea editoriale del giornale, oppure la linea editoriale di Repubblica, tradizionalmente piuttosto clemente verso le ultime politiche israeliane, è cambiata. E questo potrebbe essere una cartina di tornasole importante da cogliere. immagino che ci vedremo più chiaro nelle prossime ore. 

Ci sono due categorie per le quali ultimamente, non tira una bella aria: attivisti/e per il clima e giornalisti. Se poi metti queste due categorie assieme, hai fatto bingo. Diciamo che il fermo è assicurato. 

A cosa mi riferisco? Ai fatti di venerdì, quando due giornalisti e una giornalista sono stati fermati, identificati, portati in commissariato, perquisiti mentre stavano documentando un’azione di protesta nonviolenta da parte del gruppo di attivisti climatici di Ultima Generazione, a Roma.

Vediamo meglio cosa è successo, perché ci sono un sacco di temi interessanti in questa notizia. Intanto: per cosa stavano protestando gli attivisti? perché ho notato che quasi tutti i giornali riportano (ed è sacrosanto) il fatto dei giornalisti fermati, ma di fatto nessuno racconta il motivo di questa protesta.

Si trattava di una protesta leggermente diversa dalle altre, perché riguardava sì il clima, ma in maniera diciamo indiretta. Gli attivisti/e di UG infatti avevano organizzato questa operazione di disobbedienza civile nonviolenta presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in via Veneto, a Roma, che consisteva nello spruzzare di nero (con del carbone vegetale) la facciata del ministero ed esporre delle locandine che riportano i dati delle morti e degli infortuni sul lavoro del 2023: 560 mila infortuni sul lavoro e 1041 morti. 

Che c’entrano i morti sul lavoro col clima, direte voi? C’entrano. Perché il clima che cambia rende diversi lavori più rischiosi, pericolosi. Ci sono già molti casi in Europa di morti sul lavoro per attacchi di calore, soprattutto lavoratori che operano nelle grandi città dove è più probabile che si verifichi l’effetto isola di calore che va a peggiorare ulteriormente le ondate di calore tipiche della crisi climatica.

Quindi un rischio c’è, ed è aumentato dalla situazione generale del lavoro nel nostro paese, che ancora oggi vede molti lavoratori operare in situazioni di insicurezza, senza un’adeguata preparazione e protezioni.

Questa protesta, poi, fa parte di una serie di mobilitazioni con cui i cittadini di UG chiedono l’istituzione di un fondo di riparazione preventivo. In pratica UG chiede al governo che venga istituito un fondo preventivo e permanente di 20 miliardi di euro sempre pronti ad essere spesi per ripagare i danni da calamità ed eventi climatici estremi. Un fondo pubblico, che potrà essere speso per aiutare immediatamente tutte le persone che vedono le proprie strade, le proprie case, i propri raccolti devastati da alluvioni, grandinate, gelate fuori stagione, siccità anomala e così via. Da finanziare con i tagli ai sussidi pubblici alle fonti fossili, una tassazione sugli extra-profitti delle industrie fossili e altre misure simili.

Ecco, nel corso di questa protesta, alcuni giornalisti erano accorsi sul posto per documentare quello che stava avvenendo. E la polizia non è andata troppo per il sottile. Ha bloccato e portato negli uffici a bordo di una volante tre giornalisti, ovvero la videomaker collaboratrice de ilfattoquotidiano.it Angela Nittoli, il fotografo del Corriere della Sera Massimo Barsoum e il videomaker freelance Roberto Di Matteo.

I tre cronisti stavano seguendo a piedi i giovani attivisti e camminavano una ventina di metri dietro a loro quando i poliziotti li hanno fermati e chiesto di mostrare i documenti. Qui la versione dei giornalisti, o perlomeno quella di Angela Nittoli che l’ha raccontata al Fatto Quotidiano, si discosta da quella della questura. La questura infatti afferma che i tre non si erano inizialmente identificati come giornalisti, sennò sarebbero stati lasciati andare immediatamente. Ma Nittoli sostiene che i tre hanno anche mostrato il tesserino da giornalisti, mentre “Abbiamo dato i documenti qualificandoci come giornalisti e mostrando il tesserino dell’Ordine. Ci è stato risposta che non era necessario”.

Fatto è che per circa mezz’ora i cronisti vengono trattenuti sul ciglio della strada, a poca distanza da dov’erano stati fermati. Secondo la questura i tre durante tutto questo periodo non avrebbero mai detto di essere giornalisti. Ai tre viene detto che non possono usare i cellulari. Ma non finisce qui. Gli agenti dicono di dover fare ulteriori controlli, chiamano una volante della Polizia e li portano in commissariato. 

Una volta al commissariato di Castro Pretorio, sono partite le perquisizioni, non è noto alla ricerca di cosa. Dopo questa operazione i tre cronisti sono stati portati in quella che i poliziotti hanno definito “celletta“, una stanza di massimo 2 metri per 3 con la porta blindata tenuta aperta, ma sorvegliata. Qui l’articolo del fatto fornisce dettagli forse un po’ macabri, ve li riporto, forse vogliono alludere a dei maltrattamenti da parte della polizia avvenuti in precedenza: “Un po’ ovunque – racconta la giornalista del Fatto – sembravano esserci macchie di sangue”. 

E continua: “Ho chiesto di andare in bagno – continua – e sono stata accompagnata da una poliziotta e mi è stato detto di non chiudere la porta, ma di lasciarla socchiusa. Alle nostre richieste di essere spostati in sala d’attesa, ci è stato risposto che non ci trovavamo lì per sporgere una denuncia e che quindi saremmo dovuti rimanere in quel posto“. Tutto si è concluso dopo circa due ore: ai giornalisti sono stati restituiti i loro documenti ed è stato permesso loro di uscire. Ma passato quel tempo, dice Nittoli, non è stato più possibile “fare il nostro lavoro giornalistico di documentazione e ripresa”. L’azione degli attivisti di Ultima Generazione si era infatti già conclusa.

Ovviamente, le violenze non sono mancate nemmeno nei confronti dei manifestanti, almeno a quanti riportano gli attivisti di UG. Che denunciano: “Violenza nel bloccare i manifestanti, con placcaggi, costrizione a terra e manette nei confronti di persone pacifiche e disarmate. In seguito, in commissariato, Samuele, uno dei partecipanti all’azione, è stato tenuto da solo e ammanettato in una cella di sicurezza per ore (la stessa in cui sono stati tenuti i giornalisti) e gli è stato detto – mentendogli – di essere in stato di arresto, senza poter avvisare l’avvocato, accompagnando il tutto con sbeffeggiamenti.    

In tutto ciò, va anche detto che questo episodio non è il primo episodio di questo genere. Se i soprusi nei confronti degli attivisti non si contano più nemmeno, anche quelli verso i giornalisti sembrano abbastanza frequenti. Sempre l’organizzazione riporta che ad esempio a Padova, a Palazzo Zabarella lo scorso 12 aprile, un giornalista è stato portato in Questura.  E anche il 6 novembre 2023 a Messina, durante un blocco stradale, il giornalista Fabrizio Bertè di La Repubblica, è stato trattenuto in questura per due ore senza valido motivo.

Insomma, se per chi fa attivismo climatico un bel clima non c’è mai stato – e non è nemmeno un problema italiano, in quel caso, fra poco lo vediamo – da qualche tempo a questa parte la morsa sembra essersi stretta anche su chi fa informazione. 

Ora ovviamente intimidazioni e soprusi sono gravissimi verso chiunque siano fatti. Diciamo che tuttavia, la tutela dei giornalisti, ovunque siano, dovrebbe essere sintomo della salute di una democrazia. Perché i giornalisti sono coloro che testimoniano quello che succede. 

Il Viminale si è affrettato a dire che questi fatti non sono niente di che, ha detto in un comunicato che “Singoli episodi che hanno portato all’identificazione sono avvenuti in contesti dove la qualifica di giornalista non era stata dichiarata o dimostrata. Trattasi in ogni caso di circostanze che non sono riconducibili a nuove modalità operative”. Della serie: noi non abbiamo fatto niente di male. E se anche lo abbiamo fatto, non l’abbiamo fatto apposta.

Il fatto è che questi fatti si vanno a sommare a altre questioni recenti, mi riferisco al caso Scurati ma anche a altri fatti minori e meno trattati, che mi pare creino un clima un po’ intimidatorio verso i giornalisti. E il fatto che ci sia un clima intimidatorio verso i giornalisti è un bruttissimo segno. Non solo, e non tanto per i giornalisti, ma per tutti e tutte noi. Perché significa che se le forze dell’ordine faranno qualcosa di grave, forse non ci sarà nessuno a documentarlo, se qualcuno avrà qualcosa da ridire sull’operato del governo, forse non lo farà o forse verrà messo a tacere.

È vero stiamo parlando di cose piccole, non stiamo parlando di giornalisti messi in carcere o fatti sparire, siamo per fortuna molto lontani da quello e non voglio nemmeno dire che queste sono delle avvisaglie, perché non è detto che sia così, però ecco, è comunque qualcosa che dovrebbe preoccuparci e che non dovremmo accettare. 

Dicevo invece che le repressioni verso l’attivismo climatico sono più trasversali agli altri paesi. Ecco: sempre venerdì a Parigi la polizia ha arrestato 173 attivisti di diversi gruppi contro il cambiamento climatico che stavano protestando davanti alla sede della società di gestione di patrimoni francese Amundi, poche ore prima dell’inizio dell’assemblea generale della compagnia petrolifera TotalEnergies, di cui Amundi è uno dei principali azionisti.

In questo caso i giornali riportano solo la versione della polizia francese, che ha detto che decine di attivisti hanno fatto irruzione nella sede, imbrattando i muri e rompendo alcune finestre, mentre un portavoce di Amundi ha fatto sapere che 8 addetti alla sicurezza sono rimasti feriti.

Torniamo a parlare di Myanmar, paese piuttosto scomparso dai riflettori, ma dove ancora oggi va avanti un sanguinoso conflitto fra la giunta militare che ha preso il potere nel 2021 con un golpe e delle truppe ribelli.

Non riesco a darvi una visione complessiva del conflitto, perché in realtà sono tanti conflitti nel conflitto, e alcuni anche piuttosto contraddittori. Il Myanmar (o Birmania, anche se è il nome coloniale che gli avevano affibbiato gli inglesi, quindi è più corretto usare Myanmar) è uno Stato molto particolare, perché è una sorta di stato federale, ma è composto, tutte sullo stesso livello, da sette regioni, da sette stati, da territori autoamministrati, a seconda delle etnie delle popolazioni che ci vivono e ciascun territorio ha regole un po’ diverse.

Insomma è un po’ un accrocchio. Dopo il golpe militare del 2021 che ha portato all’arresto dell’ex capo di stato Aung San Suu Chi, la giunta militare ha esercitato il potere con il pugno di ferro. Le proteste inizialmente pacifiche della popolazione sono state stroncate nel sangue e hanno lasciato il posto a truppe di ribelli che combattono una vera e propria guerra civile con l’esercito regolare. Che però sono tante guerre, perché in ogni territorio la resistenza si è organizzata in modi e forme diverse.

Vi riporto due esempi, agli antipodi per alcuni versi. La BBC, che sta coprendo molto bene la vicenda, ha inviato ad esempio una piccola troupe di due persone nello Stato di Karenni, dove ha documentato come si sia formato un esercito di ribelli composto da moltissimi giovani birmani, che combattono una guerra impari, perché praticamente senza protezioni, né caschetto né giubbotti antiproiettili. 

I bombardamenti aerei dell’esercito statale stanno uccidendo e hanno ucciso migliaia di civili dal 2021. Sono combattenti senza elmetti e giubbotti antiproiettili. Hanno attrezzatura di fortuna. Contro un esercito professionale. Il reportage della BBC descrive una battaglia fra giovani contro anziani, di una nuova generazione che combatte contro una vecchia elite. 

La situazione è piuttosto diversa invece nello stato di Rakhine, al confine con la Thailandia. Qui a guidare l’offensiva contro l’esercito golpista è l’Arakan Army, che – scrive avvenire – pretende di rappresentare la popolazione Rakhine contro il regime militare ma che secondo fonti locali sta prendendo di mira anche i musulmani Rohingya rimasti sul territorio (800mila a fronte dei quasi due milioni rifugiati all’estero). Considerate che i Rohingya sono fra le etnie più perseguitate al mondo.

Dopo la conquista della città di Buthidaung testimonianze locali segnalano roghi, decine di morti civili, decine di migliaia di sfollati bloccati dai ribelli e 45mila Rohingya fuggiti in Bangladesh in un paio di settimane. Insomma, è una situazione complessa, che come al solito si va a incastonare nel caos geopolitico che già conosciamo. 

L’articolo di Avvenire spiega il complicato intreccio di interessi, con la Russia che supporta la giunta golpista, la Cina che invece è insofferente verso quest’ultima perhé ha fatto sprofondare nel caos aree in cui ci sono motli interessi cinesi, la Thailandia che ha aperto un flusso limitato di profughi per ragioni umanitarie e forse con la speranza di raggiungere finalmente il seggio nel Consiglio Onu per i Diritti umani e l’India da parte sua ha messo in stand-by il rimpatrio forzato di Rohingya sostenuto dalla nuova legge sulla cittadinanza nel suo Stato di Manipur, ma forse solo per via della campagna elettorale.

Restando più o meno in zona, è uscito invece un rapporto della ong Human Rights Watch che riguarda la Cina, perché a quanto pare è stata accelerato quel processo di urbanizzazione forzata degli abitanti dei villaggi e dei pastori tibetani, in Cina. Che vengono sradicati dalle loro terre e dai villaggi, deportati anche a mille chilometri di distanza dai loro luoghi d’origine, costretti a trasferirsi in città, distruggendo così, afferma la Ong, sistemi di vita ed equilibri antichissimi. L’obiettivo finale di questa politica di “ricollocazione” sarebbe proprio l’assimilazione forzata dei tibetani.

Siamo ancora su Avvenire, stavolta è Luca Miele a raccontare come “i casi sarebbero migliaia. Il trasferimento, ammantato da motivazioni umanitarie – “lotta alla povertà e protezione dell’ambiente” – è “volontario” per le autorità locali, “obbligatorio” secondo le testimonianze raccolte dalla Ong”. 

Le ricostruzioni contraddicono la narrazione ufficiale di Pechino, secondo la quale “tutti i tibetani che hanno deciso di trasferirsi, con le loro case distrutte al momento della partenza, lo hanno fatto volontariamente”. Secondo Human Rights Watch “questi trasferimenti di intere comunità rurali erodono o causano gravi danni alla cultura e agli stili di vita tibetani, anche perché la maggior parte dei programmi di ricollocazione in Tibet spostano gli ex agricoltori e pastori in aree dove non possono esercitare i loro mezzi di sostentamento e non hanno altra scelta che cercare lavoro come lavoratori salariati nelle industrie non agricole”.

I numeri sono impressionati: “più di 3 milioni degli oltre 4,5 milioni di tibetani che vivono nelle zone rurali sono stati costretti a costruire case e ad abbandonare il loro tradizionale stile di vita nomade basato sull’allevamento di yak e sull’agricoltura”, denuncia il rapporto.

Le statistiche ufficiali suggeriscono che entro la fine del 2025, “più di 930.000 tibetani rurali saranno trasferiti nei centri urbani dove saranno privati delle loro tradizionali fonti di reddito e avranno difficoltà a trovare lavoro”.

Insomma, una situazione complicata.

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