20 Feb 2024

L’ex Ilva verrà commissariata, di nuovo – #882

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Si torna di nuovo a parlare dell’ex Ilva di Taranto con il governo che sembra intenzionato a un nuovo commissariamento e nessuno che solleva la questione della salute delle persone e dell’ambiente. Intanto, dall’altro lato dello stivale, c’è preoccupazione per la qualità dell’aria in Pianura padana, sebbene le cose stiano migliorando. Parliamo anche del Regno unito che vuole bandire gli smartphone dalle scuole e della guerra tribale scoppiata in papua Nuova Guinea.

L’ex Ilva di Taranto, ciclicamente, fa parlare di sé. E ultimamente, devo dire, fa parlare di sé non tanto per le questioni ambientali e legate alla salute, che sono da ormai parecchi decenni la vera emergenza, bensì per questioni legate alla sua proprietà e del lavoro.

Vi ricapitolo gli ultimi avvenimenti. Attualmente l’acciaieria di Taranto, nota come ex Ilva, è gestita da una società che si chiama Acciaierie d’Italia. Questa società non gestisce solo l’ex Ilva ma anche altre acciaierie in Liguria, Piemonte e Veneto, anche se l’Ilva è di gran lunga lo stabilimento più grande del gruppo (pensate che è l’acciaieria più grande d’Europa).

Ora: acciaierie d’Italia è di proprietà mista pubblico privata: è posseduta per il 32% da Invitalia, la società che si occupa degli investimenti dello Stato, mentre il restante 68 per cento è di proprietà della multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, che però da tempo non vuole più investire negli impianti.

Il motivo per cui la multinazionale non vuole più investire nella fabbrica italiana non è del tutto chiaro. C’è chi sostiene che è per il fatto che l’azienda è in perdita da anni e sia considerata non sanabile, chi per le tante vertenze, cause e questioni legali, legate alla sostenibilità ambientale, alla salute, alla sicurezza sul lavoro, chi infine – e questa è un’ipotesi che ho trovato in diverse analisi, anche se ovviamente la proprietà nega – che il piano fosse fin dall’inizio far fallire l’azienda, nel senso che a volte acquisizioni come questa da parte di grandi gruppi servono più che altro a far fallire aziende concorrenti, il che diminuisce l’offerta e fa salire il prezzo e quindi i guadagni legati al prodotto. 

Quale che sia la motivazione, al momento il governo sembra essere sul punto di commissariare l’azienda e quindi di fatto rilevare la parte di Arcelor Mittal, dopo che gli ultimi negoziati sono finiti in un nulla di fatto. Come riportano, fra gli altri, il Fatto Quotidiano e il Post, ieri Invitalia, ha chiesto al governo, nella figura del ministero delle Imprese e del Made in Italy di ricorrere all’amministrazione straordinaria per Acciaierie d’Italia. Sarebbe il secondo commissariamento dell’azienda che gestisce lo stabilimento nel giro di soli 9 anni.

Come rimarca una nota diffusa da Invitalia, l’istanza di amministrazione straordinaria è stata inviata al ministero “dopo aver tentato ogni strada col socio privato” e “preso atto dell’indisponibilità di quest’ultimo a contribuire a garantire la continuità aziendale o a sciogliere la joint venture in modo equilibrato e conforme alle normative vigenti anche di fonte europea nell’ambito di una situazione di crisi non dipendente dalla volontà né da responsabilità gestionali della parte pubblica”. In pratica, ArcelorMittal non collabora, dice Invitalia, non ci garantisce continuità e non si impegna a trovare un accordo né a vendere la sua quota a qualcun altro. Quindi deve uscire “con la forza”.

Nella pratica che vuol dire tutto ciò? Vuol dire affidare l’azienda a un commissario straordinario che estromette la multinazionale, prende la gestione e ha il compito di traghettare l’azienda fuori dalla crisi finanziaria e trovare un nuovo partner industriale. Il problema più immediato sarà il blocco dei crediti che coinvolgerà più da vicino le aziende che lavorano con Ilva.

Nelle prossime ore, realisticamente ne sapremo di più. Intanto i sindacati premono il governo  perché sia garantita la continuità produttiva, perché siano tutelati i circa 20mila posti di lavoro. Ma di nuovo mi sembra che in questa corsa contro il tempo, in questa nuova ricerca di un partner privato (si parla già del magnate ucraino Rinat Akhmetov, patron di Metinvest, che controllava l’Azovstal di Mariupol distrutta dai russi e che ha acquisito lo stabilimento dell’ex Lucchini a Piombino) manchino le domande fondamentali. Tipo: davvero vogliamo continuare a tenere in vita un’azienda super inquinante, che ha distrutto più lavoro di quanto ha creato, oltre a passare sopra a vite umane, sicurezza, salute e tutela ambientale? 

Non potremmo approfittare di questo ennesimo fallimento finanziario per fermare un attimo l’ottovolante e farci le domande, quelle serie, quelle vere?

A proposito di cattiva aria, negli ultimi giorni arrivano dati preoccupanti dalla Pianura Padana, che si è trovata a fronteggiare livelli di inquinamento atmosferico molto alti, superando i limiti legali in molte delle sue principali città, tra cui Milano, Torino, e Brescia. 

Questo picco di inquinamento, reso evidente da misurazioni satellitari dell’ESA e dagli elevati valori di particolato (PM10 e PM2,5), è aggravato dalle condizioni meteorologiche che limitano la dispersione degli inquinanti e da fattori strutturali come traffico, industrie, e riscaldamenti.

Particolare preoccupazione la desta la città di Milano. Ieri Repubblica titolava. “Allarme smog a Milano: è tra le metropoli del mondo con l’aria più inquinata con Dacca, Lahore e Delhi”. Attualmente la concentrazione delle polveri più sottili sospese in aria  a Milano sarebbe 29,7 volte il valore guida annuale della qualità dell’aria indicato dall’Oms. Anche se su questi dati e sulla loro lettura ci sono un po’ di incertezze, nel senso che sono rilevazioni di una società privata, il sito svizzero IQAir, che misura la concentrazione delle polveri sottili in maniera piuttosto puntuale e non tiene conto dell’andamento nel tempo.

Fatto sta che comunque, se anche non fosse ai livelli delle capitali asiatiche, la qualità dell’aria in queste settimane è pessima nella Pianura Padana e dintorni. E questo ha ripercussioni pesanti a livelli di salute. Leggo dall’articolo del Post che “L’inquinamento atmosferico è tra le principali cause di malattie cardiovascolari e di un generale accorciamento delle aspettative di vita secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. È tra i principali problemi di salute pubblica in Europa e l’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) ha stimato che nel 2021 almeno 253mila persone siano morte a causa dell’esposizione alle micropolveri”.

Quindi che fare? Ci sono una serie di azioni in campo mirate innanzitutto a conoscere meglio il problema. Ad esempio il Post parla del progetto PrepAir, cofinanziato dall’Unione Europea, che ha già iniziato a mappare le cause principali dell’inquinamento nella regione e a raccogliere opinioni e percezioni dei cittadini, evidenziando fra l’altro – dato interessante – una crescente consapevolezza della problematica.

Altro dato interessante, che non conoscevo, è che – apprendo sempre dall’articolo, “In termini relativi, tra il 2005 e il 2021 la quantità di morti dovute alle micropolveri si è ridotta del 41 per cento, segnando quindi un progresso importante”. 

Per continuare su questo percorso, l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha sviluppato strumenti, come app per monitorare in tempo reale la qualità dell’aria, che potrebbero aiutare i cittadini a restare informati e a proteggere la propria salute. 

Inoltre è attivo un piano europeo che si chiama Zero Pollution Action Plan e rientra nel cappello del Green Deal, che mira a ridurre drasticamente l’inquinamento atmosferico e dimezzare le morti premature dovute ad esso entro il 2030.

Insomma, i dati sono preoccupanti, ma mi sento di dire che molte città europee stanno intraprendendo percorsi virtuosi da questo punto di vista, e ci metto dentro anche tutta la questione delle città 30 di cui abbiamo parlato recentemente. Certo, perché le cose cambino alla velocità che le sfide del presente ci richiedono, è importante che ogni tassello della società faccia la sua parte, dalle amministrazioni, alle aziende, così come alle persone nelle loro scelte di vita: ad esempio scegliere come spostarsi, come riscaldare la propria abitazione, sono tante scelte apparentemente piccole, ma che costituiscono una certa densità culturale attorno a certe abitudini, che non solo hanno un loro impatto diretto, ma facilitano in maniera indiretta anche cambiamenti più complessi (banalmente, un politico farà più facilmente un parco o una pista ciclabile se sentirà di avere l’appoggio degli elettori).

Spostiamoci nel Regno unito, dove c’è una interessante novità che riguarda il controverso rapporto fra smartphone e educazione scolastica. Come racconta Peter Walker sul Guardian, il Ministero dell’Istruzione inglese ha annunciato piani per vietare l’uso dei telefoni cellulari nelle scuole, fornendo linee guida per i dirigenti scolastici. Una mossa che ha ricevuto reazioni contrastanti dai sindacati di categoria e dai capi d’istituto e che mira a combattere le distrazioni in classe, il cyberbullismo e le pressioni sociali amplificate dall’uso dei telefoni.

Secondo quanto dichiarato dal ministro, le scuole avranno la flessibilità nell’implementazione, e potranno richiedere agli studenti di lasciare i telefoni a casa, o depositarli all’arrivo e conservarli in armadietti inaccessibili, fino alla possibilità di tenerli con sé a condizione che non vengano utilizzati o uditi durante le ore scolastiche.

Questa proposta si legge si va a inserire nel solco delle iniziative con cui i paesi stanno cercando di contrastare un utilizzo smodato dei dispositivi elettronici nei più giovani. In Uk si stima che il 97% dei bambini possiede uno smartphone entro i 12 anni, dato che solleva preoccupazioni non solo per le distrazioni in aula, ma anche per il potenziale di bullismo e altre pressioni sociali, oltre che per la potenziale esposizione precoce a contenuti considerati dannosi.

In più il paese ha ancora addosso, sebbene sia passato più di un anno, la tragica storia di Brianna Ghey, una adolescente transgender assassinata, i cui aggressori avevano visualizzato materiale violento prima del crimine, cosa che ha spinto a chiedere maggiori restrizioni all’uso dei telefoni da parte dei minori e a un impegno più forte delle aziende tecnologiche per filtrare i contenuti accessibili.

In tutto ciò, in Uk ci sono alcune scuole pilota dove la sperimentazione è già stata fatta, e i cui risultati sembrano incoraggianti, perché sono state osservate diverse trasformazioni positive derivanti dall’imposizione di un divieto completo sui telefoni, come un miglioramento del clima sociale e una riduzione delle pressioni sui giovani studenti. 

Comunque, il dibattito sull’uso dei telefoni a scuola si inserisce in una discussione più ampia sulla relazione tra tecnologia e educazione, sulle modalità con cui gli strumenti digitali possono sia arricchire che ostacolare l’apprendimento, e sul ruolo delle scuole nel preparare gli studenti a navigare in un mondo sempre più connesso, mantenendo al contempo un ambiente sicuro e propizio all’apprendimento. Ed è un dibattito importantissimo: perché la scuola ha il difficile compito di creare le migliori condizioni per favorire l’apprendimento (anche sociale) dei giovani, ma anche il ruolo di dargli gli strumenti per affrontare il mondo. Per capirlo, leggerlo. Ed è un mondo in cui la tecnologia ha un ruolo sempre più centrale. Quindi la domanda è: è possibile formare i giovani a un uso consapevole della tecnologia, senza che però questa intralci con la socialità, l’apprendimento e lo sviluppo cognitivo degli stessi, in ambiente scolastico?

In chiusura ci spostiamo in Papua Nuova Guinea, per raccontare di un conflitto tribale abbastanza sanguinoso che sta attraversando il paese. Ne parla l’agenzia di stampa francese Afp su Internazionale.

Secondo quanto riportato dalla polizia ben “Sessantaquattro corpi sono stati trovati lungo una strada nei remoti altopiani della Papua Nuova Guinea in seguito a un attacco legato a un conflitto tribale”. L’attacco si è verificato prima dell’alba del 18 febbraio vicino alla cittadina di Wabag.

Secondo le forze di sicurezza, le vittime sono combattenti tribali caduti in un’imboscata tesa da un gruppo rivale. Patrick Peka, capo della polizia della provincia di Enga, sostiene però che tra le vittime ci siano molti mercenari, uomini che vagano per le campagne offrendosi di aiutare le tribù a regolare i conti con i loro rivali.

E alcuni combattimenti sarebbero ancora in corso in un’area rurale vicino al luogo dell’imboscata. Gli scontri tribali, spesso innescati da dispute territoriali o accuse di furto, sono frequenti in questa parte dell’isola della Nuova Guinea.

Come viene ricordato alla fine dell’articolo “La popolazione della Papua Nuova Guinea è più che raddoppiata dal 1980, esercitando una pressione crescente sulla terra e sulle risorse naturali ed esacerbando le rivalità tribali”. Ora, perché vi riporto questa notizia, che arriva da un posto sperduto nel mondo? Perché penso che nasconda un messaggio importante. Spesso siamo portati a pensare che le guerre avvengano solo per grandi interessi economici, che sia sempre qualcun altro a volere le guerre, i potenti, i ricchi, i politici, gli alieni. Mai le persone. 

Ma notizie come questa ci ricordano che la guerra fa parte del nostro dna come specie. Siamo una specie abbastanza incazzosa e pronta a fare la guerra alla prima occasione buona. Ma. Questo che potrebbe sembrare un messaggio deprimente e disfattista, è in realtà un fatto positivo. Infatti finché pensiamo che la guerra dipenda solo dagli altri, non possiamo fare niente per costruire la pace. Se accettiamo che siamo parte del problema, e facciamo pace con questo fatto, è più facile diventare parte della soluzione e impegnarsi per una pace attiva. Come attitudine verso gli altri e il mondo.

Chiudiamo con la consueta rubrica La giornata di Italia che Cambia. Parola al direttore Daniel Tarozzi, che ci racconta gli articoli più interessanti usciti oggi su ICC.

Audio disponibile nel video / podcast

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