23 Gen 2024

L’orto che non c’è, l’angolo di sostenibilità di Alessandro, il viaggiatore contadino

Scritto da: Benedetta Torsello

Dopo una vita trascorsa a Londra, dove si trasferisce da giovanissimo lasciandosi alle spalle la periferia milanese, Alessandro Lo Porto si rende conto di voler cambiare strada. Viaggia in solitaria e attraversa in bici il Cile e l’Argentina. Ritorna a Londra e poi di nuovo in Sudamerica per un periodo più lungo. Rientrato in Europa va vivere in Polonia e infine trova il suo posto nel mondo sull’appennino reggiano, dove oggi coltiva il suo "Orto che non c’è".

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Reggio Emilia, Emilia-Romagna - Spesso capire quale sia il proprio posto nel mondo richiede molto tempo, qualche errore, viaggi, delusioni e nuove scoperte. Alessandro Lo Porto, proprietario dell’azienda agricola biologica L’orto che non c’è, lo ha cercato a lungo il suo angolo di mondo, prima di trasferirsi sull’appennino reggiano, a Carpineti, e scoprire in qualche modo di averlo trovato. «Sono sempre scappato dalla periferia dove sono nato», esordisce al telefono. Originario di Bollate, in provincia di Milano, a diciannove anni decide di mollare tutto e trasferirsi a Londra, come molti suoi coetanei.

Erano i primi anni duemila e la capitale inglese offriva a tanti giovanissimi la prospettiva di fare carriera in poco tempo, guadagnare bene e vivere in una delle città più dinamiche e vivaci al mondo. A Londra Alessandro cambia diversi lavori. Viene impiegato da un’azienda che si occupa di finanza e nel giro di qualche tempo, tra una promozione e l’altra si rende conto che quella vita non fa per lui.

Lorto che non ce

Ne aveva fatta di strada da quando stirava le camicie in ostello e per paura di non sentire la sveglia per andare in ufficio chiedeva alla mamma di telefonargli la mattina presto. Eppure qualcosa gli dice che non è fatto per diventare come i suoi superiori. «Avevo tutto in quegli anni a Londra, ma quando guardavo i miei colleghi mi ripromettevo che non sarei diventato come loro, con un telefono sempre reperibile, un lavoro sedentario e una vita apparentemente uguale a sé stessa». Così un giorno lascia definitivamente quel lavoro, i suoi affetti e la sua compagna di allora, con la promessa che prima o poi sarebbe tornato. E parte.  

IN VIAGGIO VERSO L’ORTO CHE NON C’È

Un viaggio in solitaria porta Alessandro ad attraversare in bicicletta il Cile e l’Argentina. Abbracciato da orizzonti sconfinati, oltre alla bici ha con sé una tenda e qualche risparmio. Un’avventura dietro l’altra e trascorrono cinque mesi dalla sua partenza da Londra. «Mi ospitavano lungo la strada – ricorda – e a volte dormivo in tenda. Quando viaggi da solo sei aperto al mondo, non puoi far altro che affidarti agli altri per andare avanti». Arrivato il momento di rientrare, riparte per Londra e comincia una nuova parentesi della sua vita.

«Per tre anni e mezzo ho lavorato come educatore in un progetto mirato all’inserimento sociale di adulti diversamente abili e autistici. In un primo momento ho collaborato come volontario in cambio di una camera in condivisione, un piccolo compenso settimanale e altre agevolazioni: insomma una vita completamente diversa dalla mia precedente esperienza a Londra», racconta Alessandro.

Nell’ambito di questo progetto, inizia a frequentare degli orti sociali e delle city farms. «Non avevo mai coltivato la terra prima di allora», spiega Alessandro. «La mia famiglia è sempre vissuta in città. Non abbiamo mai avuto un orto». Scopre quindi questo nuovo interesse e nonostante il lavoro lo gratifichi molto, a un certo punto si rende conto che è di nuovo arrivato il momento di lasciare Londra. E questa volta per sempre.

Mi piace immaginare il mio orto come un’oasi in mezzo all’agricoltura semindustriale

Così a ventinove anni, insieme alla sua ragazza, parte per un viaggio in pullman e autostop in America Latina, dal Messico al Cile. In cambio di vitto e alloggio, collaborano con dei piccoli progetti rurali, di agricoltura e allevamento sostenibili. In quell’anno e mezzo di viaggio e permanenza in quasi tutti i paesi del continente sudamericano, Alessandro impara molto su come coltivare la terra e prendersene cura e si rende conto che il sogno che ha sempre inseguito ha proprio a che fare con questo.  

TEMPO DI TORNARE

Rientrato dal Sud America va a vivere in Polonia, dove lavora per una compagnia aerea e a trentaquattro anni decide di tornare a vivere in Italia. «Inizialmente sono andato a vivere nel basso mantovano per collaborare con un gruppo di ragazzi conosciuti in rete che portavano avanti una piccola realtà agricola», racconta Alessandro. Impara da loro a usare gli attrezzi, a coltivare la terra, ma a un certo punto ne ha abbastanza di quei paesaggi nebbiosi e così si sposta sull’appennino reggiano, a Casina, un Comune di poche anime.

Lorto che non ce 1

Lì inizia a lavorare con un gruppo di ragazzi che hanno un’azienda agricola. La mattina lavora per loro, vende ciò che coltivano al mercato e il pomeriggio si dedica al suo orto, cura i suoi primi clienti e si rende conto che nonostante il freddo d’inverno e le elevate temperature in estate, ama trascorrere tante ore nei campi. Un anno dopo si sposta a pochi chilometri da lì, a Carpineti, dove abita tuttora, e apre L’orto che non c’è.

«Ho scelto questo nome perché mi piace immaginare il mio orto come un’oasi in mezzo all’agricoltura semindustriale, dove come una volta si coltivano gli ortaggi con a fianco il frutteto, il vigneto e tutto ciò di cui si ha bisogno per vivere – spiega Alessandro –, senza mai dimenticare che sono io stesso il mio primo cliente e la mia famiglia, naturalmente». Perché proprio a Carpineti, dopo tanto girovagare, Alessandro ha incontrato sua moglie, ha visto nascere il suo primo figlio e costruito il suo primo orto a terrazzamenti. «Qui per la prima volta mi sono sentito come quando ero in viaggio e in un modo o nell’altro ho capito che volevo rimanerci», prosegue.

Lorto che non ce 2

Oggi nell’orto che non c’è coltiva verdura e frutta di stagione che consegna a domicilio o vende direttamente a chi passa a trovarlo tra i suoi filari. Ci sono frutti di bosco, alberi di mele antiche e mele cotogne, ma anche prodotti trasformati da un laboratorio della zona che confeziona marmellate, succhi e sott’oli e sidro. Con altri tredici produttori locali fa parte della comunità slow food dell’appennino reggiano, che porta avanti i valori di un’agricoltura naturale e rispettosa dell’ambiente.

«Sempre più spesso oggi l’agricoltore sta sul trattore, non indossa neppure gli stivali da lavoro. Non tocca più la terra come un tempo», conclude Alessandro. Al contrario di quanto accade tutto intorno, L’orto che non c’è vorrebbe continuare a tramandare un modo antico di custodire la terra, fatto di pazienti attese, duro lavoro e soprattutto cura e rispetto dell’ambiente e di tutte le sue forme di vita.

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