20 Dic 2022

Europa, arriva il price cap sul gas, ma è (quasi) inutile – #641

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L’Europa, dopo mesi, introduce finalmente un price cap sul gas, che però secondo molti non è un granché. Intanto si è conclusa la Cop15 sulla biodiversità, con un accordo raggiunto in extremis. Parliamo anche di quanto inquinano le stufe a legna “ecologiche”, di Elon Musk che forse si dimetterà da capo di Twitter, dell’importanza delle parole che usiamo per descrivere la realtà e – a tal proposito – di Sinisa Mihajlovic che secondo i giornali ha “perso la sua battaglia”.

PRICE CAP SUL PREZZO DEL GAS

Dopo mesi e mesi di trattative, conflitti, accordi sfiorati, momenti di scoramento generale, infine i paesi europei si sono accordati sull’ormai leggendario gas price cap, altresì noto come tetto al prezzo del gas. Che sarebbe? Sarebbe un meccanismo per cui l’Europa fissa a tavolino un prezzo massimo a cui acquistare il gas dalle nazioni straniere, per cui quando il gas sul mercato europeo supera quella cifra il prezzo si congela, finché il prezzo di mercato non ritorna sotto quella cifra. 

Qual è questa cifra? Per l’esattezza 180€ al megawattora. Che secondo molti analisti è una cifra comunque piuttosto alta, che quindi non farà tutta questa differenza. Ad esempio la redazione del Fatto Quotidiano inizia così il pezzo su questo argomento: “La montagna ha partorito il topolino. Dopo mille rinvii c’è un accordo politico tra i paesi europei per l’applicazione di un blando price cap al gas”

Anche il Post è più o meno sulla stessa linea: “Il tetto dovrebbe servire a contrastare gli effetti della crisi energetica ed evitare aumenti dei costi delle bollette, ma la sua versione finale è più debole rispetto a quella proposta ormai mesi fa dall’allora presidente del Consiglio italiano Mario Draghi”.

Il tetto sarà effettivo dal prossimo 15 febbraio e scatterà solo se il prezzo del gas sul mercato europeo sarà maggiore di 180€ per almeno tre giorni e se per lo stesso periodo sarà superiore di 35 euro rispetto alla media di altri mercati internazionali. Quest’ultima clausola è stata voluta dalla Germania che temeva che un price cap slegato dagli altri mercati incentivasse i produttori di gas ad andare a vendere il gas altrove. 

“Il tetto fissato – scrive ancora il Post – è comunque significativamente più basso di quello proposto a fine novembre dalla Commissione Europea, che aveva suggerito di fissarlo a 275 euro al megawattora”.

Praticamente tutti i giornali – tranne il Post – riportano una frase abbastanza oscura, senza spiegarla, che vi leggo: “Un altro punto concordato a Bruxelles è che “La Commissione europea può, se appropriato, proporre anche modifiche” al regolamento “per includere i derivati negoziati sui mercati non regolamentati (over-the-counter, Otc), oppure per rivedere gli elementi presi in considerazione per il prezzo di riferimento”.

In questo caso complimenti al Post, secondo me una frase del genere dovrebbe essere proibita. Qualcuno mi dovrebbe spiegare quante persone sono in gradi di decifrare un messaggio del genere. Personalmente, la frase mi ha fatto innervosire e quindi non ho nemmeno provato ad approfondire per capire. 

Ora, l’impressione è che una misura del genere, così depotenziata rispetto all’idea iniziale, non serva davvero a contenere il prezzo del gas. Nel senso che perché scatti si devono verificare tutta una serie di condizioni abbastanza improbabili, e il tetto è comunque forse troppo alto per proteggere le economie, le aziende e le famiglie dei paesi membri. 

Mi sembra più una misura adottata per questioni politiche più che pratiche: un po’ per averla vinta nei giochi di forza europei, considerando che c’erano due blocchi, con Germania, Austria e Paesi Bassi che erano i paesi più contrari e Italia, Francia e Spagna (più una decina di altri paesi) che invece spingevano molto per approvare la misura. Un po’ per poter dire di averla ottenuta, al proprio elettorato: considerate che ieri Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, il ministro che non sapeva di essere ministro, ha annunciato la cosa con toni trionfalistici dicendo che è una grande vittoria dell’Italia. Ecco, questo genere di messaggio.

Un po’, forse, anche per dare un segnale di coesione verso l’esterno, in un momento in cui l’Europa è sembrata sbandare paurosamente e perdere completamente il baricentro, travolta dagli eventi.

Comunque, a riprova che la misura in sé non è poi niente di sconvolgente, come nota in maniera puntuale il fatto Quotidiano, “Dopo la notizia il prezzo del gas non ha subito particolari scossoni, a testimonianza che i vincoli non vengono percepiti dal mercato come troppo incisivi sulle compravendite”. Insomma, questo price cap serve forse a qualcosa, probabilmente non a tenere basso il prezzo del gas.

COME È ANDATA LA COP15 SULLA BIODIVERSITA’?

Ieri si è conclusa la la Cop15 sulla biodiversità di Montreal, ne abbiamo parlato abbastanza nei giorni scorsi e se vi ricordate eravamo rimasti con una serie di paesi, più poveri, che abbandonavano temporaneamente i tavoli delle trattative in segno di protesta contro  i paesi più ricchi per come stavano glissando su un fondo a tutela della biodiversità. Alla fine, nel corso di una lunghissima seduta plenaria, iniziata domenica sera e durata più di sette ore, un po’ per svenimenti attorno alle 3.30 del mattino di lunedì, i Paesi hanno raggiunto l’accordo. Si chiama accordo di Montreal-Kunming. E allora cerchiamo di capire cosa contiene, e se è un buon accordo, un cattivo accordo o un accordo così così.

Vi leggo alcuni estratti di un articolo a firma di Damian Carrington sul Guardian che come al solito fa un ottimo lavoro di sintesi di ciò che è successo. “Sembra che i governi abbiano firmato un accordo unico nel suo genere per fermare la distruzione degli ecosistemi terrestri, anche se l’accordo sembra essere stato imposto dal presidente cinese, ignorando le obiezioni di alcuni Stati africani”. inizia così l’articolo, che poi prosegue: “Dopo oltre quattro anni di negoziati, ripetuti ritardi dovuti alla pandemia di Covid-19 e colloqui protrattisi fino a notte fonda domenica a Montreal, quasi 200 Paesi – ma non gli Stati Uniti e il Vaticano – hanno firmato un accordo alla Cop15 sulla biodiversità, ospitata da Canada e Cina, per mettere l’umanità sulla strada di una vita in armonia con la natura entro la metà del secolo”.

Facciamo una piccola parentesi, perchè un aspetto che io stesso non avevo chiaro, e di cui non vi avevo parlato, è che c’è un grande assente a questo incontro: gli Stati Uniti, che assieme al vaticano sono l’unica nazione parte delle Nazioni Unite che non ha partecipato. Ora il Vaticano non è questo scrigno di biodiversità così incredibile, mentre l’assenza degli Usa pesa eccome. Il motivo? Non è chiarissimo, semplicemente così come era successo con le conferenze sul clima, gli Usa ci mettono un po’ prima di mettersi in gioco e preferiscono farsi i fatti loro. Se volete approfondire anche su questo c’è un altro articolo sul Guardian, che vi lascio sotto Fonti e articoli.

Comunque, tornando ai negoziati, pare che il raggiungimento dell’accordo sia arrivato in un clima non esattamente disteso, anzi il finale è stato un vero e proprio thriller: in pratica “Il negoziatore della Repubblica Democratica del Congo è sembrato bloccare l’accordo finale presentato dalla Cina, dicendo alla plenaria che non poteva sostenere l’accordo nella sua forma attuale perché non creava un nuovo fondo per la biodiversità, separato da quello esistente delle Nazioni Unite. Ma pochi istanti dopo, il ministro dell’Ambiente cinese e il presidente della Cop15, Huang Runqiu, hanno segnalato che l’accordo era concluso e approvato e la plenaria è scoppiata in un applauso. Al che i negoziatori del Camerun, dell’Uganda e della RDC sono balzati sulle sedie e il Congo ha dichiarato di essersi formalmente opposto all’accordo, ma un avvocato delle Nazioni Unite ha affermato che non è così. Il negoziatore del Camerun lo ha definito “una frode”, mentre l’Uganda ha affermato che c’è stato un “colpo di stato” contro la Cop15. Insomma, un clima sereno.

Cosa prevede questo accordo così osteggiato? L’obiettivo principale è quello di proteggere il 30% del pianeta per la natura entro il 2030, di ridestinare 500 miliardi di dollari di sussidi dannosi per l’ambiente e di ripristinare il 30% degli ecosistemi terrestri, acquatici interni, costieri e marini degradati del pianeta.

I governi hanno inoltre concordato azioni urgenti per fermare le estinzioni causate dall’uomo di specie notoriamente minacciate e per promuoverne il recupero.

Questo è il succo. I dissidi però non erano dovuti tanto all’aspetto della conservazione della biodiversità, quanto al finanziamento di questa conservazione. Detto in poche parole, i Paesi del Sud globale, tra cui Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo – Paesi ricchi di biodiversità che ospitano le tre più grandi foreste pluviali del mondo – volevano che i governi accettassero la creazione di un nuovo fondo per la biodiversità come parte del patto di Montreal per pagare i nuovi obiettivi di conservazione. 

Invece nell’accordo finale, i Paesi hanno creato sì un nuovo fondo, ma all’interno del già esistente meccanismo di finanziamento della biodiversità delle Nazioni Unite – il Fondo globale per l’ambiente – fondo di cui i principali beneficiari sono al momento la Cina e il Brasile. I Paesi ricchi hanno accettato di fornire 30 miliardi di dollari di aiuti per la biodiversità a questo fondo entro la fine del decennio, un aumento molto significativo.

Vediamo quali sono i punti di forza e le criticità di questo accordo. Il principale punti di forza è che c’è. E non è poco, visto che in molti dubitavano che si sarebbe mai raggiunto un accordo. Anche se la maniera con cui è stato raggiunto, con questa specie di colpo di mano della Cina, lascia un po’ perplessi.

Poi c’è il tema della protezione del 30% del Pianeta, che è sia un punto di forza che una debolezza. Dipende da come verrà attuato. perché se da un lato è importantissimo preservare gli ecosistemi e lasciarli il più possibile intatti, dall’altro associazioni come Survival international denunciano da anni il fatto che spesso la conservazione è usata come scusa per far sloggiare popolazioni indigene dalle proprie terre, di cui sarebbero i migliori custodi, e trasformare queste in lussuose riserve di caccia da safari per ricchi. 

Poi c’è il solito grande tema che questi accordi non sono vincolanti per chi li sigla. I governi dovranno semplicemente dimostrare i loro progressi nel raggiungimento degli obiettivi con piani nazionali per la biodiversità. Un’altra criticità è il linguaggio più debole di quanto sperato sul consumo e sull’uso dei pesticidi, entrambi fattori significativi della perdita di biodiversità. 

Infine come nota il WWF, mancano riferimenti alla necessità di cambiare sistemi di produzione e consumo: Vi riporto qui a titolo esemplificativo, un pezzo del comunicato stampa diffuso dal WWF Italia, che in quanto a biodiversità ha molta voce in capitolo: “Il WWF non ha visto nell’esito dei negoziati la determinazione necessaria a dare una vera svolta nella crisi di natura per i prossimi sette anni, come avrebbe richiesto la drammatica situazione che la biodiversità globale sta vivendo. Troppe azioni necessarie per rendere tale accordo trasformativo, infatti, sono state lasciate alla discrezione dei singoli Paesi. Se non verranno, ad esempio, adottate a livello nazionale politiche per la riduzione dell’impronta ecologica di produzione e consumo – uno dei principali fattori di degrado ambientale – i target dell’accordo non saranno sufficienti a raggiungere l’obiettivo lodevole di arrestare ed invertire la perdita di biodiversità entro il 2030”.

Giusto due considerazioni in chiusura. Spesso ce ne scordiamo, ma il crollo della biodiversità che stiamo vivendo oggi, che ormai è quasi unanimemente definito dagli scienziati sesta estinzione di massa, è forse l’aspetto più preoccupante della crisi ecologica in corso, anche di più della crisi climatica (per quanto poi abbia poco senso fare le classifiche, e anche affrontare le due cose come se fossero separate). 

Poi, un aspetto che mi fa sempre storcere un po’ il naso di questi incontri, è il focus eccessivo sui meccanismi finanziari ed economici. Ci sono i paesi più poveri che insistono sempre per avere più fondi e i paesi ricchi che insistono per non concederli, ma semplicemente per questioni di cassa. Ecco, secondo me questa cosa fa parte della mentalità, del sistema, che i problemi li ha creati, e dovremmo evitarla il più possibile se vogliamo risolverli. Non è che mancano i soldi per la transizione, per il clima o per la biodiversità. Anzi, se abbiamo un problema in generale nel mondo è che girano troppi soldi, e troppo velocemente, e che quindi facciamo troppe cose. 

Insomma, servirebbe molto di più l’immaginazione, la fantasia, la collaborazione, il cuore, la testa, che i soldi. Poi sì, quando abbiamo le idee molto chiare magari un po’ di soldi mirati li investiamo anche eh. Ma alla fine, come punto di arrivo, non di partenza. 

Ah. Scusate. Un’ultimissima cosa prima di passare ad altro. Sempre l’articolo del Guardian presenta un paragrafo che dovrei approfondire, che non ho ben capito, ma che appunto qui per futuri approfondimenti: “Oltre agli obiettivi naturalistici, i Paesi hanno raggiunto un accordo storico per lo sviluppo di un meccanismo finanziario per la condivisione dei benefici derivanti dalle scoperte di farmaci, vaccini e prodotti alimentari che derivano da forme digitali di biodiversità, note come informazioni di sequenza digitale o DSI, dopo le polemiche sulla biopirateria che hanno preceduto la Cop15”. So che messa così vi aggiungerà poco, ma tenetela da parte e ne riparliamo.

LA NUOVA PUNTATA DI A TU PER TU SUL SUOLO

A proposito di biodiversità, giorni fa, in occasione della giornata mondiale del suolo parlavamo di come proprio il suolo sia uno dei maggiori custodi della biodiversità, dove vive una quantità spropositata di animali, piante, funghi, batteri e chi più ne ha più ne metta. Spesso il suolo è anche una delle prime vittime dell’antropizzazione. 

E proprio al tema del suolo è dedicata, pensata, la nuova puntata del podcast A tu per tu, condotto dal nostro direttore responsabile Daniel Tarozzi. Si chiama “Salviamo il suolo, il territorio, il nostro futuro” e ha una sequela di ospiti e contributi davvero impressionante. Ve li leggo: Professor Paolo Pileri, Ingegner Michele Munafò di Ispra, Alessandro Motarino di salviamo il paesaggio, Elena Zanato di conscious planet, Matteo Mancini di Deafal

e con contributi di Giorgio Gaber, Vandana Shiva, Andrea Degl’Innocenti e Fabio Pinzi.

A parte il sottoscritto, ecco, direi che una super puntata. La trovate facilmente andando nel menù in alto di ICC, e poi nella sezione Format, e podcast e cliccando su a tu per tu. È solo per abbonati però. Quindi se non lo siete… siatelo.

QUANTO INQUINANO LE STUFE “ECOLOGICHE”

Va bene, mi sono dilungato davvero tanto sulla Cop 15 e allora andiamo più veloci sul resto. Vi segnalo, sempre in tema transizione ecologica, una serie di dati pubblicati dal governo inglese e riportati (ancora) dal Guardian, secondo cui “Le  nuove stufe a legna denominate “ecocompatibili” producono un inquinamento atmosferico 450 volte superiore a quello del riscaldamento centralizzato a gas. Le stufe più vecchie, ora vietate alla vendita, producono 3.700 volte di più, mentre il riscaldamento elettrico non ne produce affatto, secondo il rapporto.

Per chiarezza non parliamo di emissioni di CO2, ma di inquinamento da nanoparticelle, che hanno grossi effetti sulla salute. Il rapporto stima da 26.000 a 38.000 decessi all’anno nel solo Regno Unito dovuti all’inquinamento atmosferico esterno. Non sono state fatte stime sull’impatto dell’inquinamento interno agli edifici, che secondo Whitty richiede urgentemente ulteriori ricerche.

La buona notizia è che la maggior parte dei tipi di inquinamento atmosferico è diminuita negli ultimi 50 anni. Tuttavia, nel frattempo sono aumentate le prove dei danni causati dall’inquinamento, anche a bassi livelli,su praticamente ogni organo del corpo. E le stufe a legna ne sono una delle cause principali. Questo per dire che è importante usare la testa, e se vogliamo rinunciare al gas, scelta saggia, forse meglio farlo in favore di una pompa di calore, e non di una stufa a legno ecosostenibile, che tanto ecosostenibile non è.

ELON MUSK SI DIMETTERA’ DA CAPO DI TWITTER?

Cambiamo genere: Elon Musk continua a fare cose che lasciano perplessi e fanno dire, come spesso accade, ci è o ci fa? In pratica la notte fra domenica e lunedì ha pubblicato l’ennesimo sondaggio, tipo quello con cui ha riammesso Donald Trump sulla piattaforma, in cui questa volta chiedeva se doveva abdicare alla guida di Twitter oppure no, impegnandosi a rispettare il verdetto. E gli utenti hanno votato per il sì.

Per l’esattezza aveva scritto: “Dovrei dimettermi da capo di Twitter? Mi atterrò ai risultati di questo sondaggio”. Scrive il Post: “Al sondaggio hanno votato 17,5 milioni di iscritti al social network: il 57,5 per cento ha detto di essere favorevole alla proposta di Musk, che non ha ancora commentato l’esito della consultazione”. 

Resta da capire cosa intendesse Musk per dimettersi da capo di Twitter. Vuol dire vendere l’azienda o dimettersi dal ruolo di Ceo? Commenta ancora il Post che “Vari osservatori ritengono che Musk potrebbe dimettersi soltanto dalla propria carica di CEO – cosa che del resto ha lasciato intuire varie volte nelle ultime settimane – e non cedere la proprietà dell’intera azienda”.

La cosa non è così implausibile anche perché le attenzioni che Musk sta dedicando a Twitter hanno anche causato molte perplessità fra gli investitori delle due importanti aziende di cui Musk continua ad essere CEO, cioè l’azienda automobilistica Tesla e quella aerospaziale SpaceX. Le azioni di Tesla in particolare hanno perso circa il 50 per cento del proprio valore rispetto a un anno fa. Domenica uno dei principali investitori di Tesla, l’imprenditore indonesiano KoGuan Leo, ha detto di sperare che Musk «trovi presto un nuovo CEO di Twitter». Staremo a vedere.

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

Ci avviamo verso conclusione, ma prima voglio segnalarvi due ultime cose. La prima è un articolo molto interessante, e molto in linea con il nostro approccio, pubblicato da The Vision e scritto da Valentina Della Francesca, che racconta come le parole che scegliamo influenzano la realtà.

Scrive la giornalista: “La nostra percezione del mondo è determinata dal linguaggio: questo è ciò che sostiene la famosa “ipotesi di Sapir-Whorf”. Secondo questa teoria, nota anche come “ipotesi della relatività linguistica”, le parole che usiamo non sarebbero delle semplici etichette, ma uno strumento capace di influenzare il nostro stesso modo di pensare. Questo comporta che, di fronte a una riduzione del numero delle parole e a uno slittamento del loro significato, il pensiero venga ostacolato, e a rimetterci sia soprattutto la nostra capacità critica”.

Dopodiché la giornalista porta tutta una serie di esempi davvero interessanti, a partire dall’attuale ministro dell’Interno che parla di Carico residuale riferendosi a delle persone migranti rinchiuse in una nave senza poter sbarcare, passando dalle “missioni di pace” con cui gli Usa ma anche il nostro paese indicavano l’invasione dell’Iraq in cui più di 150mila iracheni morivano di morte violenta tra il 2003 e il 2006, arrivando alla locuzione cambiamento climatico (quando sarebbe più corretto parlare di crisi climatica) o al divieto imposto da Putin di parlare di guerra in Ucraina, bensì di missione speciale. E così via. Se l’argomento vi affascina, trovate l’articolo completo sotto Fonti e articoli.

FUNERALI DI MIHAJLOVIC

E a proposito di parole, c’è un caso di cronaca recente che ci dimostra proprio questo fatto. Il caso di cronaca riguarda la prematura scomparsa di Mihajilovic, e mi avete segnalato come molti giornali abbiano enfatizzato la battaglia eroica di Sinisa contro la malattia che lo consumava. “Il guerriero ha perso la sua ultima battaglia”, “La battaglia di Sinisa” e cose di questo genere. 

Ora è evidente che c’è una narrazione della malattia come di una guerra o di una battaglia, lo stesso tipo di narrazione che era avvenuto con la pandemia, che credo non faccia bene a nessuno. Però mettiamo anche che qualcuno si viva la sua malattia così, come una battaglia da vincere, non c’è niente di male, è legittimo. Il punto però è che dovremmo poterlo scegliere, e i giornali, nel caso di qualche personaggio pubblico, dovrebbero rispettare questa scelta. 

Sinisa Mihajilovic aveva più volte parlato della sua malattia come di una battaglia, ma poi, successivamente, in una intervista al Corriere della Sera aveva messo in mostra tutte le sue fragilità, dicendo: «Chi non ce la fa non è un perdente. Non è una sconfitta, è una maledetta malattia. Non esiste una ricetta, io almeno non ce l’ho». E ancora, «La verità è che non sono un eroe e neppure superman. Sono uno che quando parlava così si faceva coraggio. Perché aveva paura e piangeva e si chiedeva perché. E implorava aiuto a Dio, come tutti».

Io capisco che soprattutto nel caso di uno che era effettivamente un guerriero in campo e in panchina, la metafora della battaglia venga spontanea, possa sembrare quasi un modo di omaggiarlo. Ma forse dovremmo riflettere, come categoria, all’immaginario che crea questo tipo di narrazione. Che scarica tutta la responsabilità sui malati, che se non ce la fanno non sono stati forti e valorosi abbastanza. Quanta pressione può mettere sulle spalle di chi si ammala? Sarò un buon malato? Sarò all’altezza di quello che gli altri si aspettano da me? E se invece non avessi voglia, o forza di lottare? Penso che dovremmo imparare a parlare meglio di malattia, essere più rispettosi e pacifisti. Ci aiuterebbe a guarire. Come società intendo.

FONTI E ARTICOLI

#gas
il Fatto Quotidiano – Accordo in Europa su un morbido tetto al prezzo del gas russo (180 euro). Mosca: “Inaccettabile, reagiremo”
il Post – L’Unione Europea ha trovato un accordo sul tetto al prezzo del gas

#Cop15 #biodiversità
The Guardian – Cop15: historic deal struck to halt biodiversity loss by 2030
The Guardian – The US touts support for biodiversity – but at Cop15, it remains on the sidelines
il Fatto Quotidiano – Biodiversità, accordo con luci e ombre: 30% di terre e mari da proteggere entro il 2030, ma disparità tra fondi necessari e stanziamenti

#stufe a legna
The Guardian – ‘Eco’ wood burners produce 450 times more pollution than gas heating – report

#suolo
Italia che Cambia – Salviamo il suolo prima che sia troppo tardi – A tu per tu + #2

#Elon Musk
il Post – Elon Musk deve dimettersi da capo di Twitter, secondo il suo sondaggio

#parole
The Vision – “LE PAROLE SONO IMPORTANTI”. SERVE RIDARGLI VALORE PER TORNARE A ESPRIMERE UN PENSIERO CRITICO.
La Stampa – Mihajlovic e la leucemia affrontata umanamente/

#Tunisia
il Post – Alle elezioni in Tunisia hanno votato in pochissimi

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