28 Mag 2024

Papua Nuova Guinea, la frana, la tragedia e i 2000 morti di cui non si parla – #939

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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C’è stata una frana gigantesca in Papua Nuova Guinea, che ha sepolto vivi oltre 2000 persone, di cui in pochi si stanno occupando. Una situazione drammatica, una delle tante tragedie che vede come concausa i cambiamenti climatici, e che forse proprio per questo preferiamo un po’ ignorare. Parliamo anche della crescita record delle rinnovabili, dei segnali preoccupanti del ghiacciaio Thwaites, di come i partiti italiani si posizioneranno all’interno del Parlamento Ue, e ancora di foreste e di se e come dobbiamo conservarle, di impatto dei prodotti che acquistiamo e del fiume più inquinato d’Italia e di cosa stiamo facendo per migliorare la situazione.   

C’è stata una enorme frana in Papua Nuova Guinea, per la quale si temono oltre 2000 morti. Devo dire, un po’ nell’indifferenza generale, essendo questo uno dei paesi che rientrano nel novero dei paesi sfigati e che di base non fanno granché notizia, qualsiasi cosa succeda. 

Leggo su Avvenire che “Si teme siano più di duemila le persone rimaste sepolte da un’enorme frana che si è staccata da una montagna nella notte tra giovedì e venerdì in una zona montuosa e quasi inaccessibile della Papua Nuova Guinea. Che è uno stato insulare, o meglio è uno stato strano perché è praticamente metà dell’Isola della nuova guinea, che sta a Nord dell’Australia. L’altra metà dell’Isola fa parte dell’Indonesia, e mentre la PNG è parte dell’Oceania, l’Indonesia fa parte del continente asiatico. Quindi è una stessa isola, divisa non solo fra due stati ma persino fra due continenti, peraltro con una di quelle linee rette retaggio della colonizzazione europea. 

Comunque, le autorità di Port Moresby, capitale dello stato, hanno comunicato alle Nazioni Unite che “La frana ha sepolto più di 2.000 persone vive e ha causato gravi distruzioni”.

La frana in realtà è avvenuta nella notte fra giovedì e venerdì scorso, ma proprio per via del luogo sperduto dove è avvenuta, le notizie sono arrivate più lentamente e in maniera un po’ frammentata. Due giorni dopo il disastro, Un funzionario locale dell’Onu aveva parlato di almeno 670 persone rimaste sepolte sotto terra. Un bilancio che però era molto al ribasso. Secondo la stessa agenzia il numero dei morti “probabilmente sarà più alto” anche a causa dell’afflusso nella zona di tante persone, in fuga dai conflitti tribali nelle aree vicine.

Si valuta che lo smottamento abbia travolto circa 150 case, divise in sei villaggi, abitati da almeno 4mila persone. Secondo gli esperti il conto definitivo delle vittime sarà comunque difficile da stabilire con certezza data la vastità della zona interessata: la frana ha accumulato detriti fino a 8 metri di altezza in un perimetro pari a 4 campi di calcio. Ma l’area danneggiata è molto più vasta, oltre 200 chilometri quadrati.

Secondo alcuni media locali, la frana potrebbe essere stata provocata dalle forti piogge delle ultime settimane: considerate che la Papua Nuova Guinea ha uno dei climi più piovosi del mondo e che l’aumento delle precipitazioni legate ai cambiamenti climatici potrebbe aumentare il rischio di frane.

Anche i soccorsi, giunti dai Paesi vicini, a partire dall’Australia – che ha spedito oltre 1000 uomini – stanno affrontando grandi difficoltà, perché la zona remota dove è avvenuto il disastro, nella provincia di Enga, a 600 chilometri dalla capitale, è collegata da un’unica strada che però è ancora coperta di detriti per circa 150 metri. I primi aiuti stanno arrivando solo via aerea, con gli elicotteri mentre a terra si scava nel fango, a mani nude, con piccole vanghe o strumenti di fortuna. Inoltre, la terra delle montagne vicine continua a scivolare e a muoversi, e questo rende ovviamente tutto molto pericoloso.

Le autorità locali parlano di “un disastro senza precedenti”. Un abitante di un villaggio vicino, ancora traumatizzato, ha detto che quando è arrivato sul luogo della tragedia, “non c’erano più nulla”. Alla tv australiana Abc, ha detto tra le lacrime che era tutto “semplicemente piatto e pieno di terra”. “C’erano solo rocce e terra: niente persone, niente case”.

Il presidente Usa Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti sono pronti a fornire assistenza, e ha definito la Papua Nuova Guinea uno “stretto partner e amico”. E in effetti Washington di recente ha rafforzato i legami con questo Stato oceanico soprattutto dopo che la Cina ha firmato un accordo di sicurezza con le vicine Isole Salomone nel 2022 che consente a Pechino di dispiegare personale di polizia e militare nel Paese. A allora l’anno scorso gli Stati Uniti hanno siglato un’intesa analoga con la Papua Nuova Guinea. Anche perché il paese si trova piuttosto vicina a Guam, che è invece è un’isoletta del Pacifico che fa pare del territorio Usa, ed ormai è considerato un importante hub militare nel Pacifico.

Quindi, al solito ci sono interessi geopolitici e sfere d’influenza anche per quanti riguarda i paesi più sperduti. Al momento non ho trovato modi di aiutare in maniera diretta le ricerche e le persone colpite dal disastro, e gli aiuti sono a livello governativo e di UN, ma se si attivassero anche raccolte fondi per privati vi aggiorno.

C’è una notizia molto interessante che riguarda le rinnovabili. In pratica, secondo un’analisi del think tank Ember, l’energia eolica e solare stanno crescendo più rapidamente di qualsiasi altra fonte di elettricità nella storia dell’umanità. E questa crescita, credo per la prima volta, supera l’aumento della domanda di energia elettrica globale il che significa che nel 2024 si supererà il picco nella generazione di elettricità da combustibili fossili e nelle relative emissioni. 

Che significa tutto questo? Noi sappiamo che attualmente le fonti rinnovabili coprono circa il 30% di produzione di elettricità a livello globale. Il problema è che l’elettricità è solo una parte dell’energia che consumiamo. C’è tutta la parte dei consumi di gas, di benzina delle automobili, del diesel del comparto industriale e agricolo, degli aerei e così via. Quindi dobbiamo fare questa sorta di salto carpiato in cui dobbiamo elettrificare tutti i consumi energetici, che farà molto aumentare la domanda di elettricità, e al tempo stesso aumentare la percentuale di produzione da fonti rinnovabili. 

Ecco, per la prima volta la crescita di produzione da fonti rinnovabili avrebbe superato la domanda di elettricità, il che significa che i combustibili fossili potrebbero essere confinati a una nicchia sempre più piccola di mercato. certo, è sempre utile ricordare che tutto questo gioco sta insieme se nel frattempo riduciamo drasticamente i consumi di energia, perché anche le rinnovabili, per quanto siano di gran lunga il sistema più efficiente e meno inquinante di produrre energia che conosciamo, non sono a impatto zero.

E come ulteriore monito che queste cose, questa transizione energetica la dobbiamo fare bene e in fretta, arriva l’ennesima notizia dalla scienza del clima. In pratica c’è un ghiacciaio in Antartide chiamato  Thwaites che è noto anche come il “Ghiacciaio del Giorno del Giudizio” perché potrebbe contribuire notevolmente all’innalzamento del livello del mare se dovesse crollare. 

E nuove prove, raccolte da uno studio pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, suggeriscono che è esattamente ciò che sta accadendo. A migliaia di metri sotto la superficie, il ghiacciaio si sta destabilizzando mentre l’acqua oceanica si riversa sotto le sue strutture principali. Gli scienziati hanno scoperto questo fenomeno grazie a dati radar satellitari ad alta risoluzione che mostrano che Thwaites viene inondato da acqua di mare calda, secondo lo studio pubblicato sulla rivista PNAS.

Thwaites è il ghiacciaio più largo del mondo, con una larghezza di circa 80 miglia e una profondità compresa tra circa 2.600 e 3.900 piedi. Si trova su un terreno in pendenza verso il basso e quindi è vulnerabile agli effetti erosivi dell’oceano. Il ghiacciaio contribuisce già da solo al quattro percento dell’innalzamento totale del livello del mare mondiale. Se dovesse crollare aumenterebbe i livelli del mare di circa 65 centimetri. Nel processo, però, il crollo di Thwaites potrebbe innescare altri eventi di fusione, aumentando i livelli del mare di circa 3 metri.

Quello recente non è in realtà il primo rapporto a indicare che il cambiamento climatico sta indebolendo Thwaites alle sue fondamenta. Nel 2021, i ricercatori all’annuale meeting dell’American Geophysical Union (AGU) hanno detto che il ghiacciaio Thwaites aveva iniziato a destabilizzarsi perché l’acqua oceanica nel Mare di Amundsen continuava a riscaldarsi. 

Come ha detto il grande climatologo Micheal E Mann, “Questo non è il punto chiave per il crollo della calotta glaciale dell’Antartide occidentale, ma è di certo un passaggio importante verso di esso, e preoccupante, che sottolinea l’urgenza degli sforzi per decarbonizzare la nostra civiltà”. Aggiungendo: “è un passo significativo lungo il percorso del crollo della calotta glaciale antartica e di una grande inondazione delle nostre coste. Un segnale preoccupante che sottolinea davvero l’urgenza dell’azione climatica.” Insomma, se non si fosse capito, dovremmo un filino muoverci.

Inauguriamo la nostra rubrica di avvicinamento al voto europeo che si terrà in Italia nel weekend dell’8-9 giugno. Scrivetemi nei commenti se vi viene in mente un nome carino per questa rubrica. Io non ho avuto particolari illuminazioni. Ho pensato a Io non mi rassEUgno ma è davvero brutto.

Comunque, vorrei iniziare dal tema dei gruppi parlamentari europei. E da un articolo del Post che si chiama “Dimmi con chi vai”, che spiega in quali gruppi andranno a confluire i vari parlamentari eletti in Italia a seconda del partito di riferimento. Considerate che l’Italia elegge 76 parlamentari quest’anno (sono in proporzione alla popolazione) e sarà il terzo paese più rappresentato dopo Germania e Francia. 

Come nel nostro parlamento nazionale, anche in quello Eu ci sono i gruppi parlamentari e poi c’è il cosiddetto gruppo misto, dove confluiscono i parlamentari  che non aderiscono a nessun gruppo. 

Come spiega l’articolo, da sempre il Parlamento Europeo è stato guidato da una larga coalizione europeista formata dal gruppo del Partito Popolare Europeo, di centrodestra (di cui fa parte Forza Italia, fra i partiti italiani), dai Socialisti e Democratici, di centrosinistra (di cui fa parte il Partito Democratico) e da un gruppo di partiti liberali, che dal 2019 sono riuniti nel gruppo di Renew Europe (che vede una prevalenza dei macroniani e di cui al momento fanno parte Azione e Italia Viva).

Quindi, riassumendo: Forza Italia sta nel gruppo di centrodestra dei Popolari, che è il gruppo attualmente (e storicamente) più rappresentato. Il Pd sta nel secondo gruppo più rappresentato, ovvero i S&D. E infine completa questa coalizione di maggioranza Renew Europe, centrista e progressista di cui fanno parte Azione e IV. Anche se è una coalizione strana, che ha scricchiolato più di una volta di recente, soprattutto su questioni ambientali, nonché sulle politiche migratorie, ad esempio sulla riforma del trattato di Dublino che in teoria era appoggiata da tutta la maggioranza ma che ha visto la defezione di molti parlamentari di centro sinistra.

Dove finiscono invece gli altri partiti italiani? Finiscono in altri gruppi che stanno al di fuori di questa coalizione di maggioranza. A destra dei popolari, sta il gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei che è formato sia da partiti che stanno cercando di istituzionalizzarsi e apparire più moderati, come ad esempio Fratelli d’Italia, sia da partiti con tendenze fortemente illiberali, come Reconquête! dell’intellettuale e politico di estrema destra francese Éric Zemmour, e il partito spagnolo Vox.

Ancora più a destra si trova Identità e Democrazia, un gruppo composto da partiti di estrema destra apertamente euroscettici, molti dei quali sono sempre più popolari nei loro paesi. Fino a pochi giorni fa ID era guidato soprattutto da tre partiti: la Lega, il partito francese di Marine Le Pen, Rassemblement National e il partito di estrema destra tedesco Alternative für Deutschland (AfD), con il suo vicepresidente Gunnar Beck. Tuttavia il 23 maggio il gruppo ha annunciato di aver espulso AfD con effetto immediato per via di alcune dichiarazioni sui nazisti fatte da Maximilian Krah, capolista del partito alle elezioni europee.

A sinistra invece troviamo il gruppo dei Verdi/Alleanza Libera Europa (V/ALE), di ispirazione ambientalista e progressista e il gruppo della Sinistra (GUE/NGL) che comprende i maggiori partiti di sinistra fra cui La France Insoumise, il partito di Jean-Luc Mélenchon.  e quelli di Podemos e del partito di sinistra Izquierda Unida. È probabile che i parlamentari di AVS se supereranno la soglia di sbarramento che è del 4% si divideranno in questi due gruppi, una volta all’europarlamento.

Infine resta un po’ un punto interrogativo sul posizionamento del M5S. In effetti quello dei 5S è una formazione politica atipica che non ha molti eguali in Europa. Negli ultimi 5 anni sono rimasti fra i non iscritti, anche se negli anni hanno provato a entrare in diversi gruppi, dall’S&D ai Verdi passando per RE. Nessuna di quelle trattative però è andata a buon fine. Il problema di restare nel gruppo misto è di essere come forza politica, meno rilevante. Ciò non toglie che poi le singole persone possano ovviamente fare la differenza. Ma questo lo vediamo magari in un’altra puntata. 

Il nostro direttore Daniel Tarozzi ci introduce la nuova puntata di A tu per tu in cui si parla di foreste e della necessità o meno di gestirle, e anche a due articoli usciti ieri su Italia che Cambia.

Audio disponibile nel video / podcast

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