21 Mar 2014

Vivere in una yurta e crescere in una tribù dei nostri tempi

Scritto da: Sabina Bello

Crescere in una tribù o, per fare un riferimento alla piccola dimensione demografica, in una banda, seguendo la distinzione di […]

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Crescere in una tribù o, per fare un riferimento alla piccola dimensione demografica, in una banda, seguendo la distinzione di Elman Service utilizzata da Jared Diamond ne “Il mondo fino a ieri”.

“Il tipo di società più piccolo e semplice è formato da poche decine di individui, molti dei quali appartenenti a una o più famiglie allargate. È il caso della maggioranza dei cacciatori-raccoglitori nomadi. I membri della banda sono pochi quanto basta per conoscersi bene e per poter prendere decisioni collegiali in maniera diretta, senza necessitare di una leadership politica formale o di una marcata specializzazione economica.”

Illustrazione di Moremita Solitaria - Monica Tiazzoldi

Illustrazione di Moremita Solitaria – Monica Tiazzoldi


È l’esperienza della piccola Agata, una gnomina fatata di due anni che sta crescendo a Velletri, con mamma Elisa e papà Darel.

Ma non solo, Elisa mi racconta: “La nostra esperienza è cominciata circa sette anni fa, quando molti di noi erano ancora studenti a Roma, chi in tesi chi seguendo qualche lezione. Allora, venendo dal contesto studentesco, condividere casa era un’esperienza abbastanza conosciuta e a noi, gruppo di otto ragazzi, il passaggio in un casale della campagna dei Castelli romani (collegato a Roma con un’ora di treno) sembrò il modo naturale per sperimentare un contesto che ci permettesse di approfondire i legami di amicizia in modalità meno dispersive.”

Scegliere di andare a vivere insieme ad altre persone in un casale di campagna ha dietro delle idee e dei passaggi ampi e che travalicano il vivere condiviso studentesco, eppure credo che in questo elemento possiamo riconoscere una chiave preziosa del nostro tempo: condividere casa con altre due, quattro, sei persone che non necessariamente si conoscono è un’esperienza di formazione vera e propria, un allenamento allo stare insieme, al rispettare gli altri, ma anche a conoscere se stessi, ammettere i propri limiti e trovare i propri spazi in una dimensione di base collettiva.

È lo spazio imprescindibile della quotidianità e saper gestire l’incontro proprio in questo spazio è talvolta più difficile che un esame ed io la definirei una vera e propria abilità, il convivere, perché prende tempo, onestà e capacità di esprimersi con chiarezza.

Chiara, una mia amica che sta seguendo il corso di formazione come arte-terapeuta con Stefania Guerralisi nel suo metodo “La Globalità dei Linguaggi”, passeggiando per Bologna la citava dicendo “Gli esseri umani, sostiene Stefania, sono fatti per loro natura per essere nomadi e vivere in branco. Questa semplicità l’ho trovata solo quando vivevo a Bologna da studente, perché qui ho sperimentato il vero condividere, perché sei in gruppo e mangi insieme, cucini insieme, esci insieme, dormi sotto lo stesso tetto. Ora che son tornata a casa c’è sempre la dimensione di un tempo determinato, si arriva all’imbrunire e poi ci si saluta, non si sperimenta appieno lo spazio dell’incontro, lo si circoscrive.”

Torniamo a Velletri, perché gli equilibri tra spazio personale e spazio collettivo cambiano, quando ad arrivare è una nuova creatura. Credo che crescere in un contesto dove coabitano più persone dia un interessante bagaglio di esperienze con cui approcciarsi alla vita. Jared Diamond esprime quest’idea attraverso i termini di “genitorialità diffusa”, una qualità più rara oggi, nelle nostre realtà che si fondano sempre più sulle famiglie mononucleari, ma che iniziano a venir affiancate da nuovi prototipi.

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Quando si è presentato il momento di scegliere Elisa e Darel hanno deciso di costruirsi una Yurta, tenda con struttura circolare di origini mongole, per portare equilibrio tra la dimensione collettiva del casale e la giusta esigenza di spazi personali. Possiamo considerare questa come una metafora concreta che ricerca quel giusto bilanciamento tra due entità spesso in opposizione, quella dell’io e quella del noi, due spazi che si compenetrano in maniera più intima di quanto non si consideri.

Mi piace l’onestà con cui Elisa parla della sua esperienza, una scelta molto consapevole che si evolve nel tempo:

“Ho iniziato anche a pensare che il mito della mamma a tempo pieno non vada difeso ad ogni costo, posso sicuramente dare un esempio più sano a mia figlia se le mostro che si può coltivare il proprio percorso anche essendo madri. Non ho deciso, ma ho iniziato a non escludere la possibilità dell’asilo a priori, sia per me, che per lei. Se voglio insegnarle la libertà, la scelta di percorsi alternativi non deve diventare la preclusione a prescindere delle strade tradizionali.”

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Guardo Agata, a soli due anni è una bimba sveglia e con un bel caratterino, ti guarda con sguardo sicuro e esprime con chiarezza cosa vuole e cosa no. Penso che onestà sia proprio la parola adatta, la miglior cosa che si possa offrire a un figlio o figlia; gli errori, quelli sono naturali, qualcuno capiterà, ma crescere abituandosi a guardare le cose con chiarezza di pensiero, questo trovo sia quel primo passo per avvicinarsi al mondo in maniera libera. Se le barriere sono innanzitutto nel nostro modo di vedere, la ricerca della verità è una buona abitudine, un processo da cominciare quanto prima e da non terminare mai.

Quando si sceglie di dar vita a nuove strade, credo sia importante chiedersi se si sta tralasciando qualcosa di importante, di valido, che c’era in quelle vecchie. Credo che per un bimbo o una bimba, crescere in un luogo ed in un contesto che permettono di relazionarsi con molte persone adulte diverse sia una grossa fonte di arricchimento, parlo per esperienza personale, perché la mia storia non è stata poi così diversa da quella di Agata.

Allo stesso tempo, lavorando oggi con i bambini tutti i giorni, mi rendo conto che oltre a crescere in fretta, a sviluppare le proprie abilità manuali e intellettive, un bambino ha bisogno di quella tappa di crescita in cui impara a relazionarsi con i suoi pari, i suoi simili, perché questo passo è fondamentale per arrivare ad essere una persona, altrettanto importante che imparare a mettersi le scarpe.

Con questo non voglio alzare necessariamente una bandiera a favore degli asili, ma semplicemente richiamare alla memoria un bisogno naturale del bambino, un pro-memoria, per tenere questo pensiero lì e chiedersi quale possa esser la modalità, tradizionale o alternativa, più adatta a rispondervi. Pensandoci bene, anche per noi adulti è importante tener presente quella tappa, quella in cui impariamo a relazionarci con i nostri simili. Le nuove tribù, in tutte le loro forme, ci dicono che forse stiamo imparando a riconoscerci. Ritrovare la nostra appartenenza.

Sabina Bello

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