15 Feb 2024

Meloni-Schlein, lo strano connubio per il cessate il fuoco a Gaza – #879

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Ieri in uno strano connubio Giorgia Meloni ed Elly Schlein hanno spinto una mozione per chiedere un immediato cessate il fuoco a Gaza. Come mai? Intanto in Sicilia imperversa di nuovo la siccità. Parliamo anche di una importante vittoria delle comunità indigene canadesi e di un preoccupante passo indietro dell’Ecuador sull’estrazione di petrolio.

Allora, oggi facciamo un po’ la classica puntata mari e monti, in cui ci finisce un po’ di tutto. Una sorta di decreto milleproroghe applicato alla nostra rassegna stampa. In cui cerco di darvi una panoramica, inevitabilmente superficiale, di tante cose che stanno succedendo in questi giorni. Partiamo dalla politica nostrana. 

Dopo le schermaglie dei giorni scorsi legate alla Rai, nella giornata di ieri si è creata una sorta di insolita alleanza fra maggioranza e opposizione su un tema abbastanza sorprendente, ovvero una mozione che richiede un cessate il fuoco immediata a Gaza. 

Ne parlano tanti giornali, ma prima di sbilanciarci in commenti sperticati, bisogna capire bene che cosa è successo. In pratica alla Camera sono state votate alcune mozioni che riguardavano il posizionamento del governo italiano rispetto alla guerra a Gaza tra Israele e Hamas. Ed è successo che è stata approvata una parte di una mozione presentata dal Partito Democratico che impegna il governo «a sostenere ogni iniziativa volta a chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza». 

Detta così è abbastanza impressionante, in positivo, come notizia – e comunque prendiamola come una cosa positiva eh. Ci sono però un po’ di considerazioni da fare. Innanzitutto: che cos’è una mozione? Perché di nuovo, è uno di quei termini di cui pensiamo di conoscere il significato, ma forse non lo conosciamo nel dettaglio.

Come spiega il Post, è un meccanismo particolare per cui “Un partito deposita un testo in cui chiede un certo impegno al governo. A quel punto, il governo può fare diverse cose: esprimere un parere negativo, che si traduce dunque in un voto contrario da parte della maggioranza parlamentare che lo sostiene, in aula; esprimere parere favorevole, di fatto promuovendo il testo; “rimettersi all’aula”, come si dice in gergo, cioè evitare di esporsi in un senso o nell’altro e limitarsi a prendere atto del voto dell’assemblea; oppure, infine, proporre una riformulazione, quindi nei fatti dirsi disponibile a dare parere favorevole a patto che il gruppo che propone la mozione ne modifichi alcune parti.

Altra caratteristica delle mozioni è che formalmente sono vincolanti, ma nella pratica non lo sono. Sono una specie di impegno morale, che però il governo può infrangere come e quando vuole semplicemente giustificando il motivo per cui la sta infrangendo. Quindi ecco, non è detto che avrà particolari effetti concreti questa cosa, anzi è probabile che non li avrà.

Ciononostante, resta una notizia interessante. Innanzitutto perché la mozione è stata fortemente voluta da Elly Schlein, leader del principale partito di opposizione, al momento, ed è stata in qualche modo accolta dalla premier, il che è un messaggio politico forte, anche se magari dalle ricadute non così concrete, soprattutto su un tema complesso come quello. Nel senso che la politica estera non si fa con le mozioni. Ma di sicuro ci da un po’ la temperatura dell’insofferenza verso l’offensiva israeliana. 

Ora, mi sono interrogato sul perché Pd e Fdi abbiano nei fatti trovato una rara convergenza proprio su un tema politicamente così delicato come la guerra a Gaza. E credo che la risposta sia nell’elettorato. La domanda però è: quale?

Nel senso che c’è un elettorato italiano che inizia a essere molto insofferente verso la questione, con un recente sondaggio Ipsos che mostra che “Il 58% degli italiani sostiene che l’offensiva di Israele a Gaza sia una catastrofe umanitaria che una democrazia non può causare.” Ma non sono sicuro che sia questo elettorato, in questo momento, ad aver giocato un ruolo sulla questione. O perlomeno non del tutto.

Nel senso che anche l’elettorato democratico statunitense è molto insofferente alla questione. E Biden, che sta affrontando un crollo di popolarità, non può permettersi di appoggiare l’invasione israeliana incondizionatamente in questo momento e la sua ostilità verso Netanyahu (anche qui, ostilità sempre in chiave elettorale eh) è sempre più evidente. Ed essendo il governo Meloni un governo molto filoatlantista, così come il Pd, su questo, è probabile che questa strana convergenza derivi almeno in parte non dico da istruzioni precise, ma da un allineamento con posizioni e scelte che vengono compiute oltreoceano.

Comunque, sia come sia, Netanyahu sembra sempre più isolato a livello internazionale. 

Spostiamoci in Sicilia, dove venerdì scorso il presidente della Sicilia Renato Schifani ha dichiarato lo stato di calamità naturale su tutto il territorio regionale a causa della siccità. Attualmente la Sicilia è l’unica regione italiana che si trova in una situazione di emergenza per mancanza di risorse idriche, al pari di paesi come il Marocco e l’Algeria, in Africa.

Questa siccità estrema, a febbraio, sta avendo ripercussioni dirette sull’agricoltura e sul lavoro degli allevatori: proprio l’allevamento è uno dei settori più colpiti a causa dell’assenza di vegetazione per nutrire gli animali e della mancanza di scorte di fieno, che si devono ai danni provocati dalle anomale precipitazioni della scorsa primavera. La siccità sta avendo conseguenze anche sul settore vitivinicolo, dal momento che la mancanza di piogge sta impedendo di raccogliere acqua per irrigare i terreni. Nei giorni scorsi in alcuni comuni era già stato previsto un razionamento delle risorse idriche.

Ma a cosa serve dichiarare uno stato di calamità naturale? Principalmente a permettere ai territori di utilizzare mezzi e poteri straordinari, pur in limitati e predefiniti periodi di tempo, e di poter spendere i fondi ricevuti con procedure burocratiche più snelle. In questo caso la regione ha anche incaricato un’unità di crisi locale di pensare a possibili interventi strutturali.

Come ICC ci siamo attivati, con la nostra redazione siciliana, per coprire la vicenda. Nel frattempo vi lascio sotto fonti e articoli un articolo dello scorso anno della nostra Salvina Elisa Cutuli, ancora molto tristemente attuale, che parlava della siccità nell’isola e della necessità di sviluppare un piano di strategia decennale e di diffondere un uso sostenibile e consapevole dell’acqua. 

Aggiungo solo una piccola riflessione a margine. Notizie come questa ci mostrano una volta di più che le scelte che chiamiamo ecologiche, non sono quasi mai una scelta. Non esiste probabilmente nemmeno nel multiverso un mondo in cui continueremo ad avere allevamenti intensivi, checché ne dicano gli allevatori. E non perché ce lo chiede l’Europa, le lobby green o il club di Roma, ma perché il nuovo clima semplicemente non lo permetterà. Non esiste quella opzione. La nostra unica scelta è fra gestire, per quanto sia ancora possibile, o semplicemente subire quei cambiamenti, che comunque ci saranno.

Da Canada arriva una bella notizia. Come racconta Michele Manfrin su L’Indipendente, “La corte Suprema del Canada ha confermato che i popoli nativi del Paese hanno la propria sovranità in tema di assistenza all’infanzia. In una disputa legata alla legge C-92 del 2020, e contestata dal Québec, la Corte Suprema si è espressa affermando la costituzionalità di tale legge, la quale prevede un sistema di gestione indigeno per quanto concerne il trattamento dei bambini delle Prime Nazioni, degli Inuit e dei Métis”. 

In pratica questa storica sentenza dà ai popoli indigeni il potere di decidere come prendersi cura dei loro bambini, senza che il governo centrale o le province mettano troppo bocca nei loro affari.

Vi faccio un po’ di panorama. Prima che questa legge venisse approvata, i bambini indigeni finivano spesso in un sistema di assistenza all’infanzia gestito dal governo che non teneva conto delle loro culture, lingue o tradizioni. Considerate più della metà dei bambini che accedono a questo programma di “rieducazione” erano indigeni, nonostante essi rappresentino solo una piccola parte della popolazione canadese. 

La legge C-92 è stata una sorta di risposta a questi problemi. È nata da un lavoro di squadra tra i leader indigeni e il governo federale, ed è stata pensata per ribaltare la situazione. In pratica, dice che le comunità indigene possono ora gestire da sole l’assistenza all’infanzia, secondo le loro regole e le loro tradizioni. È un po’ come dire che possono scrivere le loro leggi in questo ambito, che hanno la stessa forza di quelle federali, e che possono anche mettere da parte quelle provinciali se non si allineano alle loro esigenze.

A questo punto però il governo del Québec, una delle province del Canada, ha cercato di bloccare la legge, sostenendo che il governo federale stava andando oltre i suoi poteri e calpestando quelli provinciali. Ma la Corte Suprema ha ribadito che la legge è costituzionale, confermando che i popoli indigeni hanno il diritto di autogovernarsi in questo ambito, un diritto che rientra nella Costituzione del Canada.

Una decisione accolta con un enorme sospiro di sollievo dalle comunità indigene che arriva dopo anni di battaglie legali e di richieste di giustizia da parte delle comunità indigene, che hanno visto troppi dei loro bambini allontanati e cresciuti lontano dalle loro tradizioni. E non è solo una questione di orgoglio culturale; è anche pratico. I bambini indigeni ora hanno la possibilità di crescere imparando la loro lingua, conoscendo le loro tradizioni, e sentendosi parte della loro comunità, il che è considerato fondamentale per il loro benessere.

Inoltre questa legge e la decisione della Corte Suprema sono una specie di riconoscimento di quella che il nostro amico Danilo Casertano chiamerebbe sovranità educativa, ovvero la capacità di una persona o in questo caso di una comunità di decidere cosa è meglio per i loro bambini. E in un paese tormentato da un passato fatto di soprusi e violenze, mi sembra un bel passo in avanti verso la guarigione di quelle ferite.

Notizie non altrettanto buone arrivano invece dall’Ecuador. Vi ricordate la vittoria al referendum, lo scorso agosto, con cui il 59% degli ecuadoriani aveva votato contro l’estrazione di combustibili fossili nel Parco Nazionale Yasuní, paradiso di biodiversità’ ne avevamo parlato qui in rassegna e ancor prima ne aveva parlato Daniel Tarozzi in un articolo.

Ecco, dopo appena sei mesi il nuovo presidente dell’Ecuador vuole riattivare le trivelle! Daniel Noboa è un personaggio particolare, simile in qualche forma al suo omologo di El Salvador Bukele. È stato eletto presidente a novembre scorso, a soli 35 anni, presentandosi come un volto nuovo, imprenditoriale, puntando sulla lotta alla violenza ma anche sulla modernizzazione economica del paese. 

In campagna elettorale Noboa aveva sostenuto la fine delle estrazioni ma adesso sembra aver cambiato idea. Sta infatti affrontando la sfida di una crisi energetica, con l’Ecuador che ha dovuto attuare tagli programmati di energia a causa di una siccità causata dal fenomeno El Niño, che ha ridotto la capacità delle centrali idroelettriche del paese​​. E quindi sembra voler posticipare a data da destinarsi il divieto di estrazione di petrolio, anche nelle zone che il referendum aveva bloccato, che ne sono ricche.

Con le nuove estrazioni, oltre a contrastare la crisi energetica, Noboa sostiene anche di voler finanziare la guerra contro il narcotraffico. Per contrastare il piano, i leader indigeni e i loro alleati in Ecuador stanno scuotendo il paese per garantire la tutela della democrazia e della Foresta. I popoli indigeni hanno lottato per oltre dieci anni per ottenere il referendum contro le trivellazioni nel Parco Nazionale Yasuni, una delle aree con la maggiore biodiversità della Terra, dove il petrolio ha danneggiato le comunità locali e la foresta. E adesso, dopo la storica vittoria, rischiano di vedere quel risultato sfuggirgli di mano.

Anche qui, possiamo notare scarsa lungimiranza che caratterizza spesso la politica elettorale, in cui per tamponare un problema se ne vanno ad alimentare le cause. C’è la siccità, causata dal cambiamento climatico, si fermano le centrali idroelettriche, e allora noi estraiamo più petrolio aumentando la crisi climatica. Su questo tema vi segnalo una petizione su Avaaz. Che vale quel che vale, cioè poco o nulla, e probabilmente non fermerà le trivelle, ma chissà, magari un sostegno dell’opinione pubblica internazionale può dare supporto ed energia a chi protesta e cerca di difendere il proprio territorio.

Alla fine della puntata è tempo della rubrica “La giornata di ICC”. Parola a Daniel Tarozzi.

Audio disponibile nel video / podcast

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