Gino Chabod, l’artigiano del legno che insegna ai bambini il “saper fare”
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Piacenza, Emilia-Romagna - La nutrita schiera di quelle persone che si sono rimboccate le maniche e quotidianamente lavorano per ingrandire l’Italia che cambia si arricchisce oggi di un altro talentuoso personaggio. Chiunque abbia frequentato negli anni scorsi Fa’ la cosa giusta, la fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili, se lo ricorderà certamente. Si tratta di Gino Chabod, uno dei più seri candidati, naturalmente a sua insaputa, al titolo di moderno Mastro Geppetto nel nostro Paese.
Lo incontro in un ventoso pomeriggio di primavera in una delle sue due falegnamerie per bambini: quella fissa, allestita presso la fattoria didattica (e agriturismo) I Campi di Borla, piccola perla sulle colline nei pressi di Salsomaggiore Terme, dove vive praticando la semplicità volontaria e l’autoproduzione assieme alla compagna Donatella Mondin, fondatrice e anima di questo luogo incantato e accogliente, immerso nella verdeggiante natura della Val d’Arda, nel piacentino.
L’aspetto etereo e quasi stralunato, la barba bianca, la voce felpata, il sorriso pacato, le grandi mani sempre raccolte come per scongiurare la fuga del talento che le abita, Gino è una di quelle persone a cui difficilmente attribuiresti uno spirito ribelle. E invece è proprio questo spirito ad averlo animato fin dall’adolescenza ad andare controcorrente, sebbene con tutti i dubbi e le correzioni di rotta del caso, in un’epoca – quella della provincia italiana degli anni ’60 – caratterizzata da forte espansione economica e (pertanto) da una certa diffidenza per chi si opponeva al flusso prevalente.
Nato nel 1955 in un villaggio di montagna della Val D’Aosta allora popolato da gente semplice, dalla cultura minima, ancora avvezza alla convivenza con gli animali da cortile piuttosto che con altri umani, nemmeno Gino è stato inizialmente insensibile al fascino della modernità. Compiuti i 13 anni, infatti, si iscrive alla scuola per elettrotecnici dell’Olivetti a Ivrea, come tanti giovani di paese negli anni ’60 attratti dal mito del posto fisso in fabbrica e dal sogno di emancipazione che la vita in un’area industriale sembrava garantire.
Nel caso di Gino, tuttavia, questa fase dura poco. Quella che immaginava essere una possibilità di emancipazione, infatti, per lui si rivela ben presto una forma di alienazione. «Sentivo la mancanza della manualità vera, della sensibilità ai materiali che avevo appreso nell’infanzia, quando razzolavo libero sui prati e mi perdevo nei boschi», confessa. E così a 18 anni, finita la scuola, sceglie di “tornare a pascolare le capre”. Si iscrive prima a un corso per diventare casaro ad Aosta e poi, partito per il servizio militare, scopre per puro caso la sua missione di vita.
Siamo nel 1976 e il 21enne Gino viene mandato dal suo reparto ad aiutare i terremotati del Friuli. Assegnato alla realizzazione delle tettoie delle mense per i campi tenda, mentre alcuni volontari intrattengono i bambini della zona, si ritrova – nemmeno si ricorda come – a intagliare improvvisati giochini di legno con i suoi attrezzi di fortuna.
La cosa si ripete nei giorni successivi e così, giochino dopo giochino, l’entusiasmo dei piccoli ospiti del campo non passa inosservato. Se ne accorgono le maestre della scuola del paese, le quali chiedono ai militari che quel ragazzone alto e taciturno continui a regalare sorrisi ai bambini colpiti dalla tragedia anche dopo la fine del lavoro alle mense. Gino ricorda con un pizzico di commozione la determinazione del suo capitano a superare le difficoltà burocratiche: «Dovettero scomodare un generale di corpo d’armata per darmi il permesso di andare ogni giorno nel campo dei bambini».
Da quell’esperienza nasce per la prima volta in Gino l’idea di una falegnameria per bambini attraverso la quale trasmettere loro l’identità collettiva e il senso di comunità che aveva appreso da piccolo nel suo villaggio in montagna, dove ciascun cittadino aveva capacità manuali e cultura della responsabilità tali da potersi occupare del pezzettino di beni comuni (acquedotti, boschi, pascoli, ecc.) che gli veniva assegnato. Non a caso uno dei giochi più replicati in quelle difficili settimane in Friuli era ricostruire il paese distrutto con tutte le case, le attività e le infrastrutture che c’erano prima, utilizzando delle miniature.
Sembra fatta, dunque. E invece no. Perché la paura di volare per il giovane Gino è ancora troppo forte. Dopo la fine del servizio militare, al ritorno in Val d’Aosta, a prevalere è di nuovo il richiamo delle certezze che ancora negli anni ’70 garantiva la vita convenzionale. Gino si associa a un coetaneo che aveva iniziato a fare il tornitore del legno e con lui apre una falegnameria. Eppure, per tutti i successivi 16 anni, fra un mobile personalizzato e l’altro, mentre è al lavoro per fabbricare serramenti, scale e chalet, non passa giorno senza sentire il fuoco sacro della missione che lo chiama a mollare tutto per dedicarsi ai “suoi” bambini.
Finché una notte, a metà anni ’90, per dirla con Sepulveda, il richiamo dell’aria diventa improvvisamente più forte della paura di cadere. Quella notte Gino si affaccia al balcone di casa e guarda dall’alto il suo furgone da lavoro, sognante. A quasi 40 anni è finalmente pronto a spiegare le sue ali. Nei giorni successivi allestisce, proprio sul suo furgone, un laboratorio mobile per bambini con tutti i crismi, in grado poi di superare anche le nuove, stringenti norme sulla sicurezza della celebre legge 626.
Nasce così la falegnameria didattica ambulante che negli anni a seguire presenterà e diffonderà, prima nelle scuole della Val d’Aosta e poi, dopo il taglio dei fondi alle scuole, in tutto il Nord Italia, dove in quel periodo iniziano a fiorire eventi e festival dedicati alla sostenibilità e al cambio di paradigma.
Fra questi eventi c’è anche Fa’ la cosa giusta, dove Gino viene invitato tutti gli anni a portare i suoi banchi, gestendo in totale libertà lo spazio che la fiera riserva ai bambini. E dove nel 2010 conosce Donatella, che ha da poco aperto – sola con i sue due figli – una fattoria didattica sulle colline del piacentino. Qualche mese dopo Gino è proprio lì, ai Campi di Borla, con le maniche tirate su, ad attrezzare la sua seconda falegnameria per bambini. più equipaggiata di quella ambulante, fiore all’occhiello di una fattoria che – dopo le chiusure forzate degli ultimi tempi – oggi è tornata ad accogliere bambini e preadolescenti da tutta Italia.
Quando gli chiedo se costruire barche, aeroplanini, bambole e animali da più di 25 anni non sia un po’ come saldare tutti i giorni pezzi d’auto in una catena di montaggio, Gino risponde pacato ma deciso: «Se fra le mansioni di un saldatore ci fosse insegnare il mestiere a dei bambini, forse quel lavoro non sarebbe più considerato alienante». In effetti è proprio il rapporto con i bambini il plus che continua a motivarlo. «Quando metti insieme la manualità e i bambini non hai un problema di ripetitività del lavoro. Le idee nuove vengono da sole, specialmente da loro», chiosa.
Ma le soddisfazioni non vengono solo dalle forme che riesce a prendere il legno una volta sollecitato dalla creatività dei piccoli. Più volte gli è capitato, infatti, che ragazzini problematici delle medie, di quelli che dopo cinque minuti di lezione frontale già cominciano a dare in escandescenze, con lui si siano trasformati in angioletti rispettosi e curiosi.
Pur preferendo lavorare con le scuole materne (bambini di 3-5 anni), paradossalmente è proprio con i più grandi che Gino conserva il suo ricordo più bello. «Era un campo diurno per adulti disabili, durante il quale i partecipanti hanno costruito giochi di società di grandi dimensioni; a un certo punto i disabili hanno iniziato a giocare con tutti i normodotati presenti, sentendosi per una volta protagonisti e spettatori allo stesso tempo».
Mentre le attività possibili nella falegnameria ambulante sono abbastanza circoscritte, ai Campi di Borla Gino può permettersi di lavorare con diverse fasce d’età e per periodi di tempo più lunghi, visto che la fattoria può anche ospitare. Ciò gli permette anche di diversificare le attività proposte, incrementandole con quelle più adatte alla preadolescenza – dal taglio di piccoli alberi alle staccionate per i sentieri, dalla rimozione dei tronchi all’edilizia con terra cruda, fino al lavoro con i mattoni, la costruzione di casette, ecc. – per un’esperienza che si rivela più completa di quella della sola falegnameria.
Gino ci descrive la settimana-tipo ai Campi di Borla. Appena arriva un gruppo, si fa un piccolo calendario con i turni per cucinare, per servire, per fare le pulizie. «Sono attività simboliche, realizzate in maniera leggera e giocosa, ma tutte utilissime per educare alla manualità, alla cooperazione, e a non dare nulla per scontato», ci dice. Poi, ogni mattina dopo la colazione, parte un cerchio in cui si decide la suddivisione in gruppi. Uno dei gruppi si reca con lui in falegnameria, nel bosco o nell’orto (a seconda dell’attività prevista). L’altro gruppo aiuta invece nelle faccende domestiche, specie in cucina, dove Donatella insegna ai ragazzi a preparare un pranzo completo. Poi nel pomeriggio si invertono le attività dei gruppi.
«Quando restano una settimana, i bambini arrivano già con delle idee in testa», continua Gino. «Una bambina una volta ha realizzato il trombone della nonna in legno; una ragazzina ha fatto un piccolo telaio perfettamente funzionante; a un bambino che si era costruito un monopattino di legno scavato in un tronco hanno offerto 500 euro una volta rientrato a Milano, ma lui non l’ha voluto vendere».
Gli chiedo come si spieghi che la possibilità dell’autocostruzione riesca ad appassionare così tanto dei bambini abituati alle cose già pronte, che si possono comprare e utilizzare in un attimo. «Io credo – mi risponde – che ogni umano abbia una tendenza ancestrale verso la ricerca di un equilibrio più naturale tra il pensare a un oggetto e realizzarlo con le proprie mani. Forse è per questo che il cervello riscopre questa possibilità non appena gliene si dà la possibilità. Ho tantissimi ricordi di bambini felici dopo aver costruito da soli, senza spendere un centesimo, oggetti piccoli, semplici, senza alcuna dote magica quale muoversi, emettere suoni o lampeggiare».
A conclusione del nostro incontro, gli domando se si sente più artigiano o artista. Lui però glissa e preferisce confidarmi il suo ultimo sogno. Ora che sta invecchiando gli piacerebbe trovare un erede, un giovane apprendista che non creda solo agli attrezzi che impugnerà, ma soprattutto alla valenza politica del suo messaggio. «Ho imparato una serie di cose legate a un sapere che rischiava di andar perso, ma non l’ho certo fatto per guadagnare più soldi. L’ho fatto nell’attesa di tornare utile a indicare la strada il giorno in cui capiremo che quella che il mondo sta percorrendo ora non ci porta da nessuna parte». E chissà che questo articolo non si trasformi in un piccolo messaggio in bottiglia lanciato nel mare di coloro che, al momento delle scelte decisive sulla propria vita, decideranno di andare anch’essi controcorrente, come ha fatto lui.
Usciti dalla falegnameria, noto che il vento ha cessato di soffiare. Gino insiste mentre mi accompagna alla mia auto. «I ragazzi che hanno solo una formazione universitaria spesso rinunciano a essere protagonisti della loro vita. Finiscono per aggrapparsi alla convinzione che qualcuno debba offrirgli un lavoro. Io invece vorrei trasmettere l’idea che ciascuno di noi può costruirsi la sua strada con le proprie forze, senza dipendere dagli altri».
Entro in macchina con una bizzarra sensazione di incompletezza dall’origine ignota. Metto in moto e inizio a percorrere la sterrata in salita che dalla fattoria mi porterà sulla strada principale. Ma all’improvviso realizzo, richiamato dalla mia curiosità insoddisfatta. Allora tiro il freno a mano, apro la portiera, salgo sul predellino e guardo giù verso Gino, distante non più di venti metri. Gli grido: «Ma quindi, alla fine, ti senti più artigiano o più artista?». Risponde facendo roteare un dito accanto all’orecchio, come a scusarsi per il vento che gli impedisce di sentire. Non faccio in tempo a ribattere “guarda che il vento non c’è più”. Lui è più lesto. Mi saluta con quel suo sorriso calmo, sventolando entrambe le mani. Mani grandi di artigiano abitate dallo spirito ribelle di un artista.
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