Ecco perché gli allevamenti intensivi devono essere al centro dell’agenda climatica
Un recente studio sottolinea l’impatto fortissimo che gli allevamenti intensivi hanno su aumento delle temperature e crisi ambientale, unitamente alla scarsa efficacia in termini di sostentamento della popolazione.
Gli allevamenti intensivi contribuiscono ogni anno con una quota che varia dal 12 al 20% dell’ammontare complessivo dei gas serra emessi a livello planetario, generano il 50% dell’eutrofizzazione – ovvero l’inquinamento dell’acqua con livelli eccessivi di azoto e fosforo – legata alla produzione di cibo, il 32% dell’acidificazione del suolo e ben il 76% del consumo del suolo stesso. Sono questi i dati con cui si apre una ricerca scientifica pubblicata nei giorni scorsi dal titolo “L’obiettivo mancato: perché gli allevamenti intensivi devono essere al centro dell’agenda climatica” sul portale svizzero MDPI, che ha l’obiettivo di diffondere studi e ricerche scientifiche in modo aperto e gratuito.
Lo studio è stato realizzato da un team di ricercatrici e ricercatori coordinato da Jenny Mace dell’Università di St. Andrews in Gran Bretagna, esperta in welfare animale e pubblicato in concomitanza con i lavori della conferenza sul clima COP30, durante la quale verranno prese – o non prese – decisioni cruciali per il futuro del pianeta. La ricerca viene presentata proprio con un richiamo diretto agli Accordi di Parigi stipulati dopo la COP del 2015, che prevedono il contenimento dell’aumento delle temperature entro il range degli 1,5°C.
Al tempo stesso viene sottolineato come gli allevamenti industriali e il comparto zootecnico in generale siano sistematicamente sottovalutati o del tutto esclusi dalle politiche climatiche. A questo proposito, Mace e colleghi evidenziano l’importanza di includere questo settore nella discussione sulla crisi climatica e nell’agenda delle prossime COP. Non è un caso che quasi l’80% dei precedenti studi sulla correlazione fra allevamenti intensivi e crisi climatica analizzati – nello specifico il team di ricerca ne ha esaminati 47, scelti a loro volta fra quasi 600, pubblicati fra il 2020 e il 2025 – tragga conclusioni allarmanti sull’impronta ecologica del settore della produzione industriale e intensiva di cibo.
I riferimenti diretti alla COP30 non mancano e in particolare al paese che la ospita, il Brasile. Se le due precedenti edizioni si sono tenute in due roccaforti del settore petrolifero – Dubai e Baku, in Azerbaigian –, il paese ospitante dell’edizione di quest’anno detiene il record mondiale sia delle esportazioni di carne che della popolazione di bestiame: 240 milioni di capi, con l’India – seconda – ferma a 195 milioni. La città ospitante – Belèm – si trova nella regione amazzonica, il cui 18% è già stato completamente deforestato e un ulteriore 17% versa in condizioni critiche.
Più di tre quarti dei precedenti studi analizzati dalla ricerca hanno concluso che allevamenti intensivi e produzione industriale di cibo sono la prima causa dei cambiamenti climatici e una delle principali della crisi ambientale. Inoltre si stima che l’80% dei terreni agricoli a livello globale sia occupato da queste attività che, nonostante ciò, forniscono solo il 37% del fabbisogno proteico e il 18% di quello calorico agli abitanti della Terra. “È imperativo – conclude il team – che queste evidenze scientifiche collettive siano tenute in considerazione e che i futuri accordi vadano in direzione di un miglioramento delle politiche a livello globale”.
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Ascolta la rassegna stampa su un altro studio che analizza un modello alimentare che superi gli allevamenti intensivi.







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