Crisi del riciclo della plastica, impianti fermi e raccolta in difficoltà: cosa sta succedendo
Lo stop degli impianti privati di riciclo della plastica blocca la filiera, con le prime conseguenze in Sicilia e Sardegna. La crisi è europea, ma le soluzioni esistono: servono scelte politiche rapide.
In queste settimane una crisi finora molto tecnica sta diventando visibile anche ai cittadini. In varie zone della Sicilia i comuni hanno dovuto rallentare la raccolta della plastica e in Sardegna almeno un’amministrazione l’ha sospesa temporaneamente, perché gli impianti non accettano più i conferimenti. Come ha ricostruito il Post, molti centri di stoccaggio sono saturi o hanno già chiuso ai materiali provenienti dalla differenziata, con conseguenze sulla gestione quotidiana dei rifiuti.
L’11 novembre Assorimap, l’associazione che rappresenta circa il 90 per cento delle aziende private che riciclano o rigenerano la plastica post-consumo raccolta in Italia, ha annunciato lo stop agli impianti, parlando apertamente di «emergenza nazionale» e di perdite ormai insostenibili, dopo mesi di allarmi e tavoli con il governo rimasti senza sbocchi concreti.
Lo stop agli impianti di riciclo può causare un effetto a catena difficile da controllare: se gli impianti non ritirano più materiale, i piazzali dei selezionatori si riempiono, si raggiungono i limiti autorizzati e i comuni non sanno più dove mandare la plastica raccolta porta a porta. Plastica che per legge non può neppure andare in discarica: lo vieta la normativa europea, che spinge a ridurre drasticamente il conferimento e a privilegiare riciclo e recupero di materia, con obiettivi specifici proprio per gli imballaggi in plastica.
In Sicilia l’Anci regionale ha già parlato di «seri rischi» igienico-sanitari e di pericoli legati a incendi ed esplosioni, quando i piazzali restano carichi per troppo tempo. Esempi di come una crisi apparentemente industriale possa rapidamente diventare un problema di salute pubblica, di sicurezza e di fiducia dei cittadini nella raccolta differenziata.
La radice del problema, però, è più ampia della sola Sicilia. Secondo i dati riportati dal Post e dalle associazioni europee dei riciclatori, il comparto delle plastiche riciclate è sotto pressione in tutta l’Unione: nel 2023 la produzione europea di plastica (vergine e riciclata) è calata dell’8,3 per cento e la quota del mercato globale detenuta dall’Europa è scesa dal 22 al 12 per cento in meno di vent’anni. Nel frattempo, la concorrenza della plastica vergine a basso costo e del materiale riciclato importato da Paesi extra-Ue ha schiacciato i prezzi, rendendo meno conveniente usare materia prima seconda.
In pratica oggi, per molte filiere, è più economico comprare polimeri vergini o riciclati prodotti altrove – spesso senza le stesse garanzie ambientali e di tracciabilità – che utilizzare il riciclato italiano o europeo. A questo si sommano i costi energetici elevati, che incidono molto su un processo come il riciclo meccanico. Il risultato è un paradosso: mentre l’Europa chiede più riciclato negli imballaggi, le aziende che lo producono chiudono o rallentano perché non riescono a stare sul mercato.
Non a caso, già a settembre una trentina di associazioni di settore europee, compresa Assorimap, hanno scritto alla Commissione Ue per chiedere interventi immediati a sostegno della filiera. Nelle stesse settimane l’associazione ha avvertito il governo italiano del rischio concreto di blocco: una filiera da oltre 350 imprese, 10mila addetti e 1,8 milioni di tonnellate di capacità installata vicina al collasso, con utili crollati dell’87 per cento dal 2021 e una proiezione verso lo zero nel 2025.
La situazione della filiera, tuttavia, è strutturalmente fragile. Secondo diversi osservatori, la filiera del riciclo della plastica potrebbe essere destinata a ridursi nei prossimi anni, non tanto per un suo fallimento intrinseco, quanto per un cambiamento più ampio del mercato: pur fra mille ritardi e ostacoli, infatti, sta prendendo piede a livello globale l’idea di introdurre un tetto alla produzione della plastica.
Ridurre drasticamente la quantità di plastica prodotta (soprattutto per funzioni monouso) sembra l’unica cosa sensata da fare per affrontare il problema sempre più pervasivo delle microplastiche. In questo scenario, viene spesso indicata come prioritaria la semplificazione dei materiali: limitare la produzione a poche tipologie principali di polimeri, invece delle centinaia oggi in circolazione, renderebbe più semplice raggruppare i rifiuti, trattarli in modo omogeneo e ottenere riciclati di qualità migliore. Anche ipotizzando un forte aumento delle percentuali di riciclo e un miglioramento delle tecnologie, si tratterebbe comunque di una filiera destinata a stabilizzarsi o addirittura a contrarsi, perché legata a un consumo complessivo più basso.
Questo pone un tema che va oltre il solo settore della plastica: come gestire, in modo socialmente sostenibile, la riduzione o la chiusura di intere filiere industriali in nome della transizione ecologica? In un sistema economico costruito sull’idea di una crescita potenzialmente infinita, immaginare percorsi ordinati di ridimensionamento – che tutelino lavoratori, comunità locali e territori – è una sfida politica e sociale rilevante. Il dibattito sul futuro del riciclo della plastica si intreccia così con una questione più ampia: trovare strumenti e politiche che rendano inclusiva e praticabile una trasformazione industriale che, per obiettivi climatici e ambientali, non potrà limitarsi a “fare di più”, ma dovrà imparare anche a fare meno.







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