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11:28 28 Ottobre 2025 | Tempo lettura: 3 minuti

Nel mar Adriatico le praterie marine stanno scomparendo, ma possiamo invertire la rotta

Nel Golfo di Trieste le praterie di piante marine arretrano per il riscaldamento del mare e pressioni locali. Uno studio propone gestione integrata, tutela mirata e monitoraggi di lungo periodo.

Autore: Redazione
praterie marine adriatico

Nel mar Adriatico settentrionale le praterie marine stanno perdendo terreno. A dirlo è uno studio pubblicato su Estuarine, Coastal and Shelf Science che collega il riscaldamento delle acque e le alterazioni dovute alle attività umane al progressivo declino di Posidonia oceanica, Cymodocea nodosa e altre fanerogame. Questi habitat, fondamentali per biodiversità e stoccaggio del carbonio, stabilizzano i fondali, proteggono le coste e offrono riparo a pesci e invertebrati. La loro contrazione è un grosso un problema ecologico (e di conseguenza anche economico).

La ricerca, coordinata dall’OGS con l’Area Marina Protetta di Miramare, l’Università di Trieste e due istituti sloveni, ha analizzato le coste italiane e slovene del Golfo di Trieste con monitoraggi sul campo e modelli statistici riferiti a due periodi chiave, 2009-2013 e 2014-2018. Il cambio di passo tra i due intervalli mostra come le praterie rispondano a una combinazione di impatti locali e stress climatici globali, evidenziando dinamiche diverse tra tratti costieri contigui.

Nel Nord Adriatico domina Cymodocea nodosa, mentre Posidonia e Zostera sono più frammentate. La Cymodocea è ancora presente tra Monfalcone e la foce del Tagliamento, ma tra il 2014 e il 2018 la sua copertura è calata fino al 30% in Slovenia e fino all’89% vicino a Trieste. Sono stime da leggere con prudenza, ma indicano una pressione in crescita.

Le acque sono più calde e cambia il carico di nutrienti, in diminuzione in Slovenia. Il riscaldamento favorisce ondate di calore e stress per le piante; i nutrienti alterano la competizione con le alghe e la trasparenza dell’acqua. Pesano anche impatti locali come ancoraggi, dragaggi, traffico nautico e apporti fluviali.

Non c’è una causa unica né una cura semplice. Anche la Cymodocea, considerata più robusta, soffre quando le pressioni si sommano. Dove le praterie restano integre, proteggono biodiversità e sedimenti; dove si spezzettano, la ripresa è più lenta e l’erosione aumenta.

Lo studio passa anche in rassegna le possibili soluzioni, che passano da una pianificazione integrata: ridurre le pressioni locali, proteggere le aree meglio conservate, regolamentare gli ancoraggi, ripensare i canali, programmare i lavori portuali nei periodi meno critici e promuovere un turismo nautico a basso impatto. A monte servono depurazione efficace, buona gestione dei fertilizzanti e rinaturalizzazione dei corsi d’acqua.

Inoltre è fondamentale un monitoraggio di lungo periodo, con dati condivisi e protocolli comparabili tra Italia e Slovenia. Comunità e operatori possono aiutare con boe ecologiche, segnalazioni in mare e pratiche di navigazione più attente. La citizen science, ovvero la ricerca scientifica svolta con il contributo dei cittadini, che raccolgono dati, fanno osservazioni o segnalazioni utili ai ricercatori, può aiutare a colmare i vuoti informativi.

Dove le pressioni diminuiscono, conclude lo studio, si può tentare la restaurazione con trapianti mirati e protezioni temporanee, sapendo che funzionano solo in condizioni favorevoli. Il segnale dal Golfo di Trieste è un allarme, non una sentenza: combinando azioni sul clima, riduzione degli impatti e gestione adattiva si può rallentare il declino e, in alcuni siti, invertire la rotta.

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