Federica Micoli, ex influencer: “Impariamo a usare i social, non facciamoci usare da loro”
Aveva costruito una community da 120.000 persone prima di dire basta. Oggi l’ex influencer Federica Micoli ci illustra le soluzioni che possiamo adottare per diventare utenti e creatori di contenuti più consapevoli.

Un tempo, se avessi posto a un bambino o a una bambina la fatidica domanda “Cosa vuoi fare da grande?”, avresti ricevuto una serie di professioni fantasiose: calciatore, modella, attrice, astronauta. Se interroghi i piccoli di oggi, invece è molto probabile che la risposta più gettonata sia una sola: “Voglio diventare influencer”.
Ormai ascoltando una dichiarazione d’intenti del genere, nemmeno noi boomer ci stupiamo più di tanto: d’altra parte, chi si tirerebbe indietro di fronte alla prospettiva di vedersi sommergere di regali, quando non addirittura di soldi, in cambio di una manciata di post striminziti? A vederlo da fuori ci sembra un miracolo, fin troppo bello per essere vero. Forse perché, in effetti, non lo è.
Se apriamo questa scatola decorata di fiocchi e di brillantini infatti scopriamo un contenuto molto meno accattivante di quanto avremmo pensato. A raccontarmelo è Federica Micoli, che una decina di anni fa era riuscita a costruire una community da 120.000 persone e un blog da oltre tre milioni di clic, prima di dire basta e scrivere un libro, uscito due anni fa, sulla sua tutt’altro che esaltante esperienza, dall’emblematico titolo Confessioni di un’influencer pentita.
«Noi adulti, complice anche il caso Ferragni-Balocco, abbiamo iniziato ad aprire gli occhi», ammette. «Il problema sono i giovani, che continuano a credere che questo possa essere il lavoro dei sogni. Tutto viene raccontato in maniera troppo semplice: si pensa che bastino due foto e due reel cretini per ottenere vacanze, macchine o case gratis. Bisognerebbe cominciare a spiegare che le cose non stanno esattamente così, che queste vite da lusso ostentate dai tiktoker della situazione sono finte, non corrispondono alla realtà».

Dietro alla facciata dorata c’è un retroscena che spesso non si vede, fatto di problemi psicologici e rischi per la salute mentale, che solo chi ha attraversato in prima persona può spiegare con cognizione di causa: «Per poter lavorare come influencer bisogna correre dietro agli algoritmi che cambiano continuamente e premiano chi è presente 24 ore su 24, chi spalanca le porte della propria privacy, chi segue i trend anche in maniera esagerata e forzata pur di diventare virale. Tutto ciò alla lunga si traduce in una vera e propria dipendenza dal telefono, dai risultati, dai commenti dei propri follower».
«Non so se ci avete fatto caso, ma capita spesso di vedere influencer che si scusano per essere stati assenti due giorni. Non possono permettersi una vita al di fuori della piattaforma: ci devono essere sempre, a tutti i costi, altrimenti hanno il terrore di essere dimenticati. Io per prima quella dipendenza l’ho vissuta, come racconto nel libro: controllavo costantemente quanti mi seguivano e, se il numero calava, andavo in crisi. Significava che avevo fatto qualcosa di male, che non ero brava, che non facevo bene il mio lavoro».
Più ci si addentra nel tunnel della dipendenza social, più i like si trasformano gradualmente in una vera e propria misura della propria autostima, di quanto cioè ci si può sentire bene con se stessi: «Arrivi a credere che il tuo valore come persona sia direttamente proporzionale ai tuoi follower, che tu conti solo sulla base di quante persone si sono iscritte al tuo canale», prosegue Micoli.
Questo è il meccanismo che ha reso grande Meta: la schiavitù dai numeri. Di questo sono complici anche i brand, le agenzie, tanti influencer marketer, perché danno importanza solo a questo parametro. «Mi è capitato di leggere molti articoli in cui Tizio o Caio venivano descritti come “psicologo da 20.000 follower”: quella cifra è arrivata addirittura a definirci». Di più: i cuoricini diventano finanche un surrogato dell’affetto. Ci tuffiamo a pesce nel mare digitale nell’illusione di pescare a strascico migliaia di persone che non aspettano altro che volerci bene e dimostrarcelo.
Nel frattempo però paradossalmente ci allontaniamo sempre più dal mondo reale, là dove invece abitano proprio quei sentimenti di cui sentiremmo il bisogno. «Penso che sia una conseguenza di questi tempi, soprattutto dopo il Covid: siamo più soli, lavoriamo di più, interagiamo di meno, è sempre più difficile vivere una vita sociale. I social invece sono una soluzione immediata, veloce, dove non dobbiamo fare la fatica di intrattenere un rapporto con qualcuno, perché ci basta un like o un commento. Chi li riceve pensa di ottenere l’amore di persone reali, dimenticando che in effetti restiamo tutti degli estranei».

È anche una questione di tempo, sottolinea giustamente Federica, ma non solo: è vero che viviamo vite frenetiche, ma in realtà quanta parte della nostra giornata viene assorbita dai nostri smartphone, spesso senza che ne ne rendiamo nemmeno conto? «Io consiglio sempre di attivare l’alert per segnalare quanto a lungo utilizziamo le app: in genere ci passiamo ore e ore al giorno, continuando a scrollare con gesti automatici. Quante cose migliori avremmo da fare in quello stesso tempo?».
Fin qui abbiamo speso molte parole per mettere in guardia i lettori dai rischi di queste applicazioni, ma se avete imparato nel corso dei mesi a capire il senso della rubrica World In Progress che state leggendo, allora da queste parti non potete certamente aspettarvi un discorso allarmistico o catastrofista. Per essere chiari: no, non credo affatto che i social rappresentino il male assoluto. Semmai, sono convinto che dobbiamo imparare a usarli bene e per il bene, il nostro e quello altrui. E dato che esistono da relativamente pochi anni, forse l’approccio migliore non lo abbiamo ancora trovato o meglio lo stiamo cercando.
Anche da questo punto di vista Federica Micoli può darci una mano, visto che dopo aver abbandonato le vesti da influencer si è dedicata a sviluppare corsi e consulenze, rivolti tanto ai privati quanto alle aziende: «Che tu sia un creatore o un fruitore di contenuti, la prima regola da metterti in testa è che tu devi sfruttare la piattaforma, non il contrario», mette subito in chiaro.
«Usarla in modo sano significa rapportarcisi per quello che è, non darle troppa importanza, ricordarsi che dobbiamo darci dei limiti. L’algoritmo ci vuole in un determinato modo, ma noi possiamo sempre e comunque scegliere invece di raccontarci per come siamo. Io oggi pubblico quello che voglio e soprattutto solo quando voglio. Lo stesso vale per gli utenti, che devono tenere a mente che ciò che vedono è sempre filtrato, che va guardato adottando il pensiero critico, perché non è tutto oro ciò che luccica».
Io consiglio sempre di attivare l’alert per segnalare quanto a lungo utilizziamo le app
Certo, gli algoritmi sono programmati per tenerci attaccati allo schermo il più a lungo possibile, a costo di far leva sui nostri istinti più bassi. Ma guardandoli da un’altra prospettiva anche noi siamo responsabili in prima persona di come li educhiamo, attraverso le nostre interazioni. Perché non possiamo iniziare a scegliere noi, autonomamente e liberamente, ciò che vogliamo ricevere dai nostri social, proprio come scegliamo il film che vogliamo vedere in TV, il cibo che vogliamo mangiare o gli abiti che vogliamo indossare?
«Un esercizio molto semplice? Quando incappiamo in un contenuto che non ci piace, ci infastidisce o ci innervosisce, passiamo oltre, non guardiamolo proprio. Così abituiamo l’app a mostrarci solo ciò che davvero ci interessa o ci arricchisce. Costruiamoci attorno un ambiente più sereno e rilassante, selezionando quei creator che condividono cose belle che ci ispirano. E poi evitiamo di cadere nel tranello dell’immediatezza: prima di lasciare qualunque commento, di esprimere un’opinione su tutto, magari sgradevole, contiamo fino a dieci. In questo modo evitiamo di alimentare un meccanismo tossico che alla fine ci si ritorce contro».
In fondo si tratta di rimettere al centro il contenuto più della forma, ovvero pubblicare quando si ha qualcosa da dire sinceramente, non solo per imbellettare l’immagine fittizia del personaggio che vogliamo ostentare. «A piccoli passi ci possiamo arrivare: già negli ultimi periodi di vacanza ho notato tanti piccoli profili, a differenza dei grandi, che hanno iniziato a condividere molto di meno, come se pure loro si fossero stufati di non godersi più nemmeno un momento libero. Se smettiamo di seguire così pedissequamente i trend e gli algoritmi, se usiamo i social solo quando ci fa comodo o ne abbiamo tempo o voglia, vi garantisco che non succede niente, non è la fine del mondo. Anzi, staremmo tutti meglio».
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