7 Novembre 2025 | Tempo lettura: 9 minuti
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Cohousing SanGiorgio, quando il desiderio di relazioni trova casa: il video reportage

A Ferrara cinque famiglie hanno trasformato un bisogno in un progetto di vita: il Cohousing SanGiorgio. Dalla nascita di un gruppo d’acquisto alla costruzione di una comunità che unisce sostenibilità, collaborazione e relazioni autentiche.

Autore: Daniel Tarozzi
Riprese di: Paolo Cignini
Montaggio di: Daniel Tarozzi
cohousing san giorgio 3
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Ci troviamo tra la campagna e la città, nel cuore della pianura padana. La strada si apre su un lotto tranquillo, dove un edificio in legno accoglie chi arriva con un senso immediato di familiarità. È la casa del Cohousing SanGiorgio. L’ingresso non è un semplice corridoio, ma una piccola sala comune che tutti attraversano per raggiungere la propria casa. Una scelta architettonica precisa, quasi simbolica: qui l’incontro è parte dell’abitare.

«È una bella soluzione tra la campagna e la città che abbiamo trovato quando cercavamo un posto dove poter realizzare quello che abbiamo definito il nostro bisogno. Un sogno che era anche un bisogno», racconta Alida Nepa, una delle fondatrici, fra le persone che ci accolgono in questo luogo. Questo spazio rappresenta bene la spinta originaria del progetto: il desiderio di relazioni vive, di un abitare che superi l’isolamento domestico e restituisca alla vicinanza un valore sociale, affettivo e politico.

Tutto nasce nel 2009 da un gruppo di famiglie legate da esperienze di consumo critico e impegno civile. Persone che, dopo aver condiviso anni di acquisti solidali e amicizia, sentivano il bisogno di radicare nella quotidianità quel senso di comunità sperimentato nelle reti di cittadinanza attiva. Il cohousing diventa allora la risposta a un bisogno concreto: abitare insieme senza rinunciare alla propria autonomia, creare spazi di libertà che non siano solitudine, costruire relazioni senza obbligo ma con intenzionalità.

«Il cohousing diventa reale quando arriva un luogo. Senza un luogo resta una chiacchiera. L’altro elemento fondamentale è partire da un gruppo già esistente. Oggi molte richieste arrivano da singoli individui, ma così il rischio di fallimento è alto. Serve un nucleo che abbia già condiviso esperienze, anche se di natura diversa», osserva Lucio Massardo, fondatore di MeWe e da anni impegnato nella promozione dell’abitare collaborativo, mio compagno di viaggio in questa esplorazione alla scoperta dei cohousing d’Italia.

Supporto reciproco e cooperazione

La forza del progetto risiede nella sua dimensione collettiva. Vi invito a guardare il video reportage che trovate qui sopra per immergervi appieno nello spirito di questo esperimento abitativo. Fin dall’inizio, le famiglie coinvolte scelgono di sostenersi reciprocamente condividendo costi, rischi, scelte e responsabilità. Quando, nel 2014, iniziano i lavori di costruzione, alcuni nuclei decidono di anticipare le spese per gli appartamenti ancora invenduti, mossi dalla convinzione che la fiducia avrebbe generato continuità.

Nel cohousing la cooperazione non è solo ideale, diventa pratica quotidiana. Gli spazi comuni, come la lavanderia o l’orto, favoriscono forme di sostegno reciproco. Ci si aiuta con i bambini, si cucina insieme, si offre un passaggio o un consiglio tecnico. Con il tempo il gruppo ha istituito anche meccanismi solidali interni – come una piccola “cassa di mutuo aiuto” – per sostenere chi attraversa momenti di difficoltà economica o personale.

Questo tipo di organizzazione riduce la dipendenza da interventi assistenziali esterni e rafforza la resilienza comunitaria: l’aiuto arriva da vicino, da chi ti conosce, ti vede ogni giorno e condivide la stessa responsabilità del luogo. La voce di Alida emerge chiara quando si parla dell’aspetto organizzativo e tecnico: «Il fai-da-te, secondo me, è da sconsigliare: servono tante figure professionali». Avvocato, commercialista, tecnici, facilitatori: ognuno con un ruolo preciso. «La nostra credibilità con le banche era pari a zero: nessuno voleva finanziarci. Solo Banca Etica ha creduto nel progetto».

Cohousing SanGiorgio: il sogno condiviso che è diventato casa

Prima ancora di posare la prima pietra, il gruppo stabilisce un principio vincolante: «Abbiamo concordato quale doveva essere il prezzo massimo: 2.000 euro al metro quadrato, tutto compreso. Alla fine ci siamo riusciti, rispettando tempi e costi. Credo sia una cosa rarissima». L’edificio viene realizzato interamente in legno X-Lam, con pannelli prefabbricati montati in loco. «In nove mesi era finito», ricordano. L’impiantistica è pensata in chiave sostenibile: pompa di calore centralizzata, ventilazione meccanica controllata autonoma per ogni alloggio e fotovoltaico sul tetto. Anche i gesti quotidiani riflettono questa attenzione: le lavatrici comuni, ad esempio, si usano “in pieno sole”, sfruttando l’energia prodotta durante il giorno.

Sicurezza emotiva

Gli effetti di questa rete di sostegno si riflettono sul benessere complessivo, personale e collettivo. La vicinanza, la collaborazione e la possibilità di contare su altri generano una qualità della vita più alta, un senso di sicurezza e serenità che non deriva solo dai metri quadrati ma dalle relazioni che li abitano. Chi vive al Cohousing SanGiorgio racconta una quotidianità fatta di socialità spontanea: pranzi improvvisati, chiacchiere nel cortile, feste comuni.

La presenza di spazi condivisi favorisce la partecipazione e riduce la solitudine. Per molti questa esperienza ha rappresentato un ritorno a forme di vita di vicinato che sembravano scomparse: porte aperte, attenzione ai bambini di tutti, disponibilità reciproca. Il cohousing così diventa un contesto che promuove inclusione sociale, accoglie diversità generazionali e culturali e genera appartenenza.

Nel cohousing la sicurezza non deriva da telecamere o allarmi, ma da sguardi amici. Sapere che qualcuno si accorge se non torni a casa, che c’è chi bussa alla porta se ti vede in difficoltà, costruisce una forma di protezione emotiva rara nella società contemporanea. Per chi è arrivato giovane, come per chi affronta la vecchiaia, questa rete di prossimità rappresenta un ancoraggio vitale. Il cohousing crea una rete di supporto accessibile, fatta di relazioni quotidiane e concrete: prestiti di oggetti, sostegno emotivo, collaborazione. In questo modo, l’isolamento sociale si trasforma in partecipazione e il concetto stesso di “abitare” diventa sinonimo di cura reciproca.

L’esigenza di cura della comunità

Nel tempo la comunità ha capito che le relazioni non si mantengono da sole. Servono strumenti, tempi, intenzionalità. Prima di entrare, il gruppo ha seguito un corso di facilitazione; poi ha coinvolto diversi esperti anche online, soprattutto durante il lockdown. Non sempre tutti partecipano – «e ovviamente quelli a cui non serve sono quelli che ne avrebbero più bisogno», commentano con ironia – ma la direzione è chiara: coltivare la comunità è un lavoro continuo.

Per questo, fin dall’inizio, il gruppo ha deciso di formarsi alla gestione dei gruppi e alla facilitazione. Gli incontri periodici di ascolto, le assemblee e i momenti di verifica servono a mantenere la connessione, a rimettere in equilibrio ciò che il tempo tende a sbilanciare. Come dicono spesso, “coltiviamo la comunità” non è uno slogan ma una pratica costante, fatta di parole, silenzi, errori e ripartenze.

Cohousing SanGiorgio: il sogno condiviso che è diventato casa

Gestione dei conflitti e dei contributi

In controluce emergono anche i nodi. Il primo riguarda la proprietà: entrare solo acquistando limita la flessibilità. C’è chi oggi vorrebbe poter restare nella rete anche in affitto o facilitare un ricambio generazionale di famiglie motivate. Lucio allarga lo sguardo: modelli giuridici come la proprietà indivisa con diritto d’uso – in forma cooperativa – potrebbero offrire maggiore elasticità a progetti che, per loro natura, attraversano le fasi della vita.

Il secondo nodo è il bilanciamento dei contributi: turni, responsabilità, tempo dedicato. Le dinamiche sono quelle di tante associazioni: chi fa di più, chi di meno, chi si stanca. Col tempo il gruppo ha imparato a delegare alcune funzioni e, quando serve, a riconoscere economicamente certe competenze, accettando il fatto che non tutto può reggersi solo sul volontariato.

Processi decisionali inclusivi e gestione del cambiamento

Perché la comunità resti equa e sostenibile servono processi decisionali inclusivi. Al Cohousing SanGiorgio le decisioni vengono prese in assemblea, cercando il consenso di tutti. Non sempre è rapido, ma garantisce ascolto e partecipazione. Negli anni il gruppo ha sperimentato strumenti di facilitazione e forme decisionali ispirate alla sociocrazia, per bilanciare efficienza e inclusività.

La capacità di gestire il cambiamento è un’altra competenza cruciale. Le persone cambiano, le famiglie crescono, qualcuno se ne va, altri arrivano. Mantenere la continuità della visione collettiva e al tempo stesso accogliere energie nuove richiede apertura e flessibilità. Oggi, per esempio, la comunità riflette su come rendere l’accesso più inclusivo, anche per chi non può acquistare. Si discutono modelli cooperativi o formule di proprietà condivisa che garantiscano stabilità e ricambio generazionale.

Cohousing SanGiorgio: il sogno condiviso che è diventato casa

Coltivare la comunità del Cohousing SanGiorgio

Dopo dieci anni, il Cohousing SanGiorgio è un organismo maturo. L’entusiasmo iniziale ha lasciato spazio a un sentimento più stabile, più realistico, ma non meno profondo. Non è un’utopia, né un modello perfetto: è un esperimento riuscito di convivenza intenzionale, dove le persone hanno scelto di abitare non solo uno spazio fisico, ma anche un territorio relazionale.

E poi c’è il bilancio umano, che non è mai tutto bianco o tutto nero. «Mi rendo conto che do per scontato alcune cose: l’aiuto, la solidarietà, il poter chiacchierare», racconta una residente. «È come tra i parenti: c’è quello più simpatico e quello meno, ma ti senti parte di una famiglia». Dopo dieci anni, l’innamoramento iniziale lascia spazio a un sentimento più maturo: «Mi piace ancora, ma alcune cose le vorrei diverse». È la fisiologia dei legami quando sono veri.

Qui una casa non è semplicemente un bene privato, ma una cellula di un organismo collettivo che si rigenera ogni giorno grazie a gesti semplici: una lavatrice al sole, un piatto condiviso, una porta aperta. Il Cohousing SanGiorgio dimostra che il desiderio di relazioni vive può trasformarsi in architettura, in governance e in cultura dell’abitare. E che “coltivare la comunità” è, oggi più che mai, una pratica di benessere, di sostenibilità e di libertà.

Cosa ci ha lasciato il Cohousing SanGiorgio

Se dovessi riassumere ciò che qui ho visto e ascoltato, direi che il cohousing funziona quando tiene insieme:

  • il luogo, che rende possibile l’incontro;
  • il gruppo reale, che precede e sostiene il progetto;
  • gli strumenti, per gestire conflitti e cambiamenti;
  • la flessibilità, per accompagnare i cicli di vita delle persone.

Il resto lo fanno le relazioni. E la capacità – come scrivono su un cartello all’ingresso – di coltivare la comunità. Perché qui una casa non è solo un luogo dove si abita, ma un modo diverso di essere insieme.

Qualche mese fa, con un articolo e un video, avevamo presentato su queste pagine MeWe e il nostro nuovo percorso dedicato all’abitare collaborativo. Da quell’incontro sono nati anche un podcast, costruito da Andrea Degl’Innocenti insieme a Lucio Massardo e Natalia Ardoino, e una guida pratica che potete consultare sul nostro sito. Con questa nuova serie di articoli e video vogliamo invece entrare nelle case di chi in cohousing o coliving ci vive davvero, per raccontare dall’interno gioie e difficoltà, punti di forza e limiti, sogni e compromessi di un modo diverso di abitare.