Un allevamento intensivo di tonni rossi a Battipaglia è stato fermato grazie a una campagna di Greenpeace
Ma l’episodio solleva grossi dubbi sulle modalità con cui vengono concesse le autorizzazioni e sui controlli effettuati dai comuni prima di concederle.
L’autorizzazione era già stata concessa. La società Tuna Sud era pronta ad avviare un nuovo allevamento intensivo di tonni rossi al largo delle coste di Battipaglia, in Campania. Ma un’azione di Greenpeace ha ribaltato il corso delle cose: il Comune ha infatti annullato all’ultimo la concessione dopo aver verificato che l’area individuata per l’impianto si trovava al di fuori del demanio marittimo di propria competenza. Una semplice verifica cartografica, che però è avvenuta solo in seguito alla denuncia pubblica da parte dell’associazione ambientalista.
L’episodio solleva interrogativi profondi su come vengono autorizzati e controllati gli allevamenti ittici in Italia. Possibile che nessuno, né tecnici né funzionari, abbia verificato i limiti giurisdizionali prima di concedere l’ok a un progetto così impattante? È quanto si chiede Greenpeace, che ha lanciato una campagna contro l’espansione incontrollata degli impianti di acquacoltura intensiva nel Mediterraneo. La richiesta è semplice: fermare un modello che, sotto la superficie, nasconde conseguenze ambientali, sanitarie e sociali gravi.
Gli allevamenti intensivi in mare – denuncia l’associazione – sono sempre più numerosi. Spigole, orate, salmone e tonno rosso vengono imprigionati in grandi gabbie sottomarine, costretti a vivere in condizioni di sovraffollamento, stress e malattia. Queste strutture rilasciano in mare deiezioni, farmaci, antibiotici, portando a una progressiva alterazione dell’ecosistema: perdita di ossigeno nei fondali, contaminazione della catena alimentare, diffusione dell’antibiotico-resistenza.
Greenpeace denuncia l’assenza di linee guida vincolanti sul benessere animale e l’uso disinvolto dei fondi pubblici, come quelli del FEAMPA (Fondo Europeo per gli Affari Marittimi), spesso destinati ad attività che rischiano di danneggiare anziché proteggere la biodiversità marina. Una delle accuse più pesanti riguarda proprio la trasparenza: oggi non è possibile sapere con certezza dove vadano a finire i finanziamenti e quale sia il loro impatto reale.
Il caso di Battipaglia, dunque, non è un’eccezione, ma il sintomo di un sistema poco regolamentato. Un impianto come quello bloccato avrebbe potuto sorgere in una zona potenzialmente vicina a aree turistiche o habitat marini vulnerabili, contribuendo a un modello insostenibile che minaccia non solo l’ambiente, ma anche le economie costiere locali.
La campagna “Basta fabbriche di pesce” lanciata da Greenpeace punta a fermare questa espansione, chiedendo all’Unione Europea e al governo italiano di definire criteri chiari di sostenibilità, garantire il benessere animale, rendere trasparenti i fondi pubblici e favorire una transizione verso una dieta più vegetale e una pesca artigianale realmente sostenibile.
Difendere il mare, ricorda Greenpeace, significa anche difendere la salute umana. I farmaci somministrati ai pesci possono finire nei nostri piatti, mentre la sofferenza animale resta invisibile perché i pesci, a differenza dei mammiferi, non hanno voce, ma non per questo non provano dolore.
Il Mediterraneo, ricorda l’associazione, non è una fabbrica. E i mari italiani non possono diventare una zona franca per l’industria dell’acquacoltura. Serve una politica che guardi oltre la produzione a ogni costo, e che sappia ripensare il rapporto tra alimentazione, ambiente e giustizia ecologica.
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