L’Indonesia vuole costruire una diga marittima di 700 km per salvare l’isola di Giava dal cambiamento climatico
Il progetto, da 80 miliardi di dollari, vuole proteggere Giava dall’erosione e dall’innalzamento del mare ma è criticato per i possibili impatti ambientali e l’incertezza sulla sua efficacia.
Il governo indonesiano ha rilanciato un progetto ambizioso e controverso: una diga marittima lunga circa 700 km lungo la costa settentrionale di Giava, destinata a proteggere un’isola che ospita metà della popolazione del Paese dall’erosione costiera e dall’innalzamento del livello del mare. L’investimento stimato è nell’ordine di 80 miliardi di dollari, ma i tempi di realizzazione si estendono su 15‑20 anni, e i meccanismi di finanziamento restano incerti.
Il presidente Prabowo Subianto ha istituito un’agenzia ad hoc, l’Autorità per la Costa Nord di Giava (Pantura), affidandone la gestione al ministro coordinatore per le Infrastrutture, Agus Harimurti Yudhoyono. Il progetto prevede una modalità di realizzazione mista tra fondi pubblici e investimenti privati, con aperture significative verso capitali provenienti da paesi asiatici e mediorientali.
Il progetto nasce da una serie di emergenze interconnesse: il cambiamento climatico causa l’innalzamento del livello del mare (per via dell’espansione termica delle acquee e dello scioglimento dei ghiacciai), l’estrazione incontrollata di acque sotterranee causa il cedimento del suolo; il risultato è che vaste aree lungo la costa stanno letteralmente scomparendo sotto il livello del mare.
In alcune località, come il villaggio di Bedono, la marea ha invaso più di un chilometro di territorio: strade che scompaiono, scuole non frequentate, bambini che non possono giocare, e abitazioni che continuano a sprofondare sotto il mare.
Pur presentandosi come una “iniziativa vitale” per le comunità costiere, il progetto solleva molte riserve. Diversi esperti avvertono che una diga continua potrebbe accelerare l’erosione in altre zone, alterare gli ecosistemi costieri e compromettere la pesca locale. Melanie Bishop, professoressa di ecologia costiera, ha evidenziato i costi ambientali e sociali: perdita di habitat e ostacolo agli spostamenti tra terra e mare. Anche la coalizione per la giustizia nella pesca (Kiara) parla di “falsa soluzione” che non affronta la causa profonda delle alluvioni: il cedimento del suolo.
Un approccio possibile suggerito da alcuni climatologi, come Heri Andreas dell’istituto di tecnologia di Bandung, è una strategia ibrida: dighe parziali o segmentate, affiancate da soluzioni naturali come mangrovie e barriere coralline. Queste ultime, a differenza di strutture rigide, possono accumularsi verticalmente seguendo l’innalzamento del livello del mare, offrendo protezione e rigenerazione insieme.
La sfida è enorme: bilanciare urgenza e resilienza, cemento e natura, protezione e comunità. Se il tempo sarà galantuomo, solo il futuro dirà se questa mastodonte costiera sarà il dono o l’incubo del secolo.







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