L’Unesco ha dichiarato la cucina italiana patrimonio mondiale con una motivazione interessante
Al centro della decisione non c’è solo l’eccellenza culinaria, ma il riconoscimento di una pratica quotidiana che unisce generazioni e territori, creando relazioni.
La “cucina italiana” è ufficialmente patrimonio culturale immateriale dell’umanità. A deciderlo è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco riunito a New Delhi, che ha inserito per la prima volta una cucina nazionale “nella sua interezza” tra gli elementi da tutelare. Non un singolo piatto, dunque, ma un intreccio di pratiche, rituali, saperi e relazioni che fanno del cibo un linguaggio condiviso.
Secondo le motivazioni ufficiali, la cucina italiana è una pratica culturale vivente fondata sulla valorizzazione delle materie prime, sul rispetto della stagionalità, sull’attenzione alla sostenibilità e sul ruolo centrale della convivialità. È un patrimonio che si rinnova ogni giorno nelle case, nelle scuole, nei mercati, nelle comunità locali, grazie alla trasmissione intergenerazionale dei saperi e alla ricchezza delle tradizioni territoriali.
L’Unesco insiste proprio su questo aspetto: cucinare all’italiana è descritto come un modo per prendersi cura di sé e degli altri, esprimere affetto, riscoprire le proprie radici, condividere storie e visioni del mondo. Il cucinare viene riconosciuto come attività comunitaria che favorisce l’inclusione sociale, rafforza i legami, incoraggia la condivisione e costruisce un senso di appartenenza, anche grazie al passaggio di ricette, gesti e trucchi da nonni a nipoti.
La candidatura – spiegano le realtà coinvolte – è stata costruita come racconto di un mosaico di pratiche sociali, rituali e saper fare che intrecciano biodiversità agricola, mercati rionali, ricettari familiari e momenti di convivialità.
Il riconoscimento Unesco non è esente da rischi: mitizzare eccessivamente la cucina italiana può trasformandola in un simbolo rigido su cui proiettare ansie identitarie più che pratiche vive e quotidiane. Se il cibo diventa un totem nazionale, usato per tracciare confini tra “autentico” e “non autentico”, può alimentare retoriche escludenti e semplificare una storia fatta di incroci, contaminazioni, migrazioni.
La cucina rischia così di essere raccontata come qualcosa di fisso, da difendere contro un generico “altro”, invece che come spazio aperto di scambio e reinvenzione. Ricordare che le ricette cambiano, che i piatti viaggiano e si mescolano, aiuta a vedere la cucina non come un monumento immobile, ma come un linguaggio comune che può rafforzare l’appartenenza senza trasformarsi in bandiera da sventolare.
Il riconoscimento però – se accolto con buon senso e senza ideologia – può aiutare a riconosce il valore delle tradizioni e contrastare la perdita di molte tradizioni locali e la trasformazione del cibo in puro prodotto di mercato. Alcune voci del mondo gastronomico sottolineano come questa “medaglia” Unesco abbia senso solo se si tradurrà in politiche concrete per sostenere agricoltori, artigiani, cuoche e cuochi che tengono viva, spesso con fatica, la varietà dei saperi e dei sapori. In questa chiave, la cucina italiana è letta come pratica fragile, che va protetta dalla standardizzazione e non solo celebrata nelle campagne promozionali.







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